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Pubblicato un prezioso testo dello studioso Giuseppe Nativo, che ci offre un interessante esame dell'Inquisizione in Sicilia e, in particolare, a Ragusa.
Giuseppe Nativo, “Inquisizione,
questa sconosciuta. Approccio ad una esplorazione documentaria. Recensione di Monsignor Pasquale Magnano, (Direttore Archivio Storico Diocesano di Siracusa, già collaboratore de “L’Osservatore Romano) E’ superfluo rilevare che la prima preoccupazione dell’autorità spirituale della Chiesa sia stata fin dagli inizi la salvaguardia della purezza della fede. Una vita religiosa, se non vuol correre il rischio di andare fuori strada, ha bisogno di una direzione che, pur rimanendo elastica, sia efficace. Sul tema
dell’Inquisizione o S. Officio c’è un’abbondante letteratura ed anche una
accurata ed esauriente bibliografia, disposta in ordine cronologico (E. van Der
Vekenè). Ho avuto
tra le mani ed ho letto con interesse lo studio di Giuseppe Nativo sul tema
della Inquisizione siciliana di rito spagnolo. In poche pagine egli affronta
nelle linee generali un tema di difficile approccio sì da far tremare i polsi
agli esperti del settore, con semplicità e con maestria, calandolo nella realtà
siciliana, che sentì i riflessi, anche se attenuati, delle grandi problematiche
del tempo. L’autore,
partendo dalla etimologia della parola “inquisizione” traccia una
puntigliosa e succinta storia del tribunale ecclesiastico offrendo una
panoramica assai interessante soffermandosi sul “processo inquisitorio” ed
introducendo il lettore sulla procedura riguardante gli haeretici,
i suspecti, i celatores, gli occultatores,
i defensores e i relapsi. L’accenno
alla “Giustizia ed Inquisizione in Sicilia nel secolo XVI” porta al cuore
del tema. Lo studioso riporta quanto i documenti offrono su questo Tribunale che
operò nella Contea di Modica, appartenente allora alla diocesi di Siracusa, i
cui vescovi del tempo furono successivamente Ludovico Platamone (1518-1540)
siracusano, Girolamo Beccadelli Bologna (1541-1560) della nobile famiglia
palermitana dei Beccadelli originaria di Bologna ma stabilitasi in Sicilia nel
secolo XIV e Giovanni Orosco De Arzès (1562-1574), spagnolo ed inquisitore
della fede in Sicilia. L’autore,
poi, passa in rassegna l’organigramma del Tribunale relativo alle università
di Ragusa, Modica, Scicli, Chiaramonte e Monterosso. I tipi di rei, le categorie
a rischio, i relaxati al braccio secolare, i penitenciados e i reconciliados,
comparsi nei vari auto da fé, vengono
riproposti non solo con i loro nomi ma anche con le loro attività, categorie
sociali e con le varie motivazioni, come i documenti mostrano. Nella
lista riportante i condannati provenienti dal territorio ibleo vengono annotati
anche un eremita, Vincenzo Escarpa, luterano e fra Tommaso Celestre negromante,
mentre in altro elenco si legge di tale Bricio Napolino, dottore in medicina,
che abbandonò il luteranesimo per riconciliarsi con la chiesa. Segno questo che
la nostra Sicilia non era poi così chiusa alle ventate del moto delle novità
del mondo. In
Sicilia, come è noto, operò l’Inquisizione spagnola che fu particolarmente
dura e severa. Sisto IV (1471-1484), sotto il cui pontificato sorse questo
istituto, a suo tempo, intervenne a difendere la giustizia e impedire al potere
laico spagnolo di trasformare l’inquisizione in una specie di alta polizia a
servizio del sovrano e contro i nemici dello stato più che contro i nemici
della fede. Sulla
parola auto da fé (di origine
spagnola-portoghese) va precisato che etimologicamente e storicamente è un atto
di fede, ordinariamente solenne che si faceva al termine di uno o di più
processi contro gli eretici. Questi condotti in chiesa, posti sopra un apposito
palco, ammoniti con un apposito sermone dell’inquisitore e interrogati ad uno
ad uno se abiurassero i ritenessero la loro dottrina. Quelli che abiuravano
venivano assolti dalla scomunica e riconciliati con la chiesa, anche se venivano
comminate contro di essi pene più o meno severe. Chi non abiurava e persisteva
nell’errore veniva passato al braccio secolare. Ma all’atto di questo
passaggio l’auto da fé era già
compiuto. Auto
da fé e
rogo sono due momenti diversi: il primo precede sempre il secondo, ma il secondo
non segue necessariamente al primo. Ci furono molti auto
da fé senza rogo; non ci fu mai rogo senza auto da fé. Il rogo, come pena dell’eresia, fu introdotto con
atto legislativo dell’imperatore Federico II con la costituzione Inconsutilem
del 1231 nella quale si ordinava: in
conspectu populi comburantur. Certamente,
per la formazione culturale del mondo occidentale di oggi, è difficile calarsi
nella realtà di quel tempo. Eppure per fare storia è necessario capire i
risvolti sociali oltre che teologici del periodo in esame. Il
tema trattato da Giuseppe Nativo, senza dubbio affascinante e complesso, di cui
gli siamo grati, mostra uno spaccato della Contea di Modica nel secolo XVI
introducendo alla conoscenza della storia dell’Inquisizione spagnola
attraverso documenti archivistici anche inediti. Mons.
Pasquale Magnano
La Santa Inquisizione - Interrogatorio
Siamo
lieti di offrire ai lettori di "Le Ali di Ermes" uno stralcio
dell’intervento finale dell’Autore in occasione del Convegno su “Eresia,
Chiesa e Santa Inquisizione”, nel corso del quale è stato presentato il libro
dal titolo “Inquisizione, questa sconosciuta. Approccio ad una esplorazione
documentaria. Sancta Inquisicion de Ragusa”, edito da “La Biblioteca di
Babele”, pp.110. Il volume è già in distribuzione presso la “Libreria
Paolino” e la Cartolibreria di Via G. Di Vittorio, Ragusa.
Introduzione
alla storia dell’Inquisizione in Sicilia riflessioni dell'Autore, Giuseppe Nativo Lo studio storiografico dell’Inquisizione è una tematica di difficile trattazione per le forti implicazioni di carattere giuridico, sociologico, storico e, non ultimo, ecclesiastico. Chiesa, Eresia, Inquisizione possono essere considerati come i vertici di un triangolo il cui baricentro è costituito dalla secolare lotta della Chiesa contro tutte quelle forme di devianza, l’insieme degli atteggiamenti e pensiero che si sono allontanati dalla ortodossia cattolica. Affrontare il tema dell’Inquisizione, attraverso quella “esplorazione documentaria” su cui ruota il libro, significa intraprendere il cammino della storia mediante quei carteggi, molti dei quali ancora da ricercare e da studiare, le cui testimonianze trasudano ancora di quelle sofferenze patite dagli inquisiti, vittime di quel sistema nonché delle ambizioni perseguite dagli inquisitori. E’ proprio in questo rincorrersi di atteggiamenti, di pensieri, in questo eterno dualismo, che emerge un quadro abbastanza complesso la cui trattazione non può non essere multi-disciplinare. La trattazione della problematica affrontata attraverso il libro non ha la presunzione di essere esaustiva ma quanto meno di accendere i riflettori su un panorama da troppo tempo denso di nubi e per troppo tempo trasformato quasi in leggenda. Due i sono i punti cardini su cui ruota, a mio modesto avviso, tutta la problematica sull’Inquisizione e che certamente costituiscono parte preponderante nella storia di questa struttura: che cosa rappresentò per la nostra isola il Tribunale dell’Inquisizione e come esso si inserì nella realtà siciliana. In una “consulta” inviata al Re il 6 febbraio 1782 (circa un anno prima della distruzione dell’archivio palermitano del Tribunale dell’Inquisizione avvenuta durante il viceregno del Caracciolo), la giunta di Sicilia si esprimeva in favore dell’abolizione del Sant’Uffizio interrogandosi “… e che forse erano miscredenti i Siciliani prima di esservi piantata l’Inquisizione?” ed affermando, con vigore, che “…la Sicilia è stata sempre per grazia dell’Altissimo ferma e costante nella cattolica religione…”.
Alla fine del XV secolo ed agli albori del Cinquecento la Spagna si trova a fronteggiare formidabili problemi di razza, economia e religione, per la presenza sul suo territorio dei mori da poco assoggettati e degli ebrei che attraverso l’industria e commercio controllano nella sua quasi totalità, la ricchezza nazionale. Dopo vari “interventi” parziali, nel marzo del 1493 fu promulgato un editto generale di espulsione dando agli ebrei di Spagna termine fino alla fine del successivo mese di luglio per scegliere tra l’accettazione del battesimo e l’abbandono del paese. Tutto ciò ebbe una forte ricaduta anche sui territori sotto il dominio della corona spagnola e quindi sulla Sicilia in cui, nella seconda metà del XV secolo, si contano ben 57 comunità giudaiche fortemente integrate e “spalmate” in quella eterogeneità socio-culturale siciliana. Molti non si piegarono ed abbandonarono il paese. Altri invece accettarono il battesimo e divennero “conversos”. Nella Sicilia sud-orientale, dunque nei territori afferenti alla Contea di Modica, si verificò il massiccio fenomeno dei “conversos”. Ma ciò non li rese immuni da sospetti. L’accertamento di una conversione non di comodo pose la maggior parte dei “neofiti” sotto inchiesta; se trovati “giudaizzanti”, venivano condannati ed i loro beni confiscati. Fu proprio in relazione al problema dei conversi che fu messa in moto la macchina destinata a sfociare in una inquisizione di nuovo tipo, che, proprio nei primi anni del XVI secolo, trova stabile collocazione a Palermo. L’attività repressiva dell’Inquisizione siciliana, di rito spagnolo, nei confronti dei “conversos”, trovò terreno fertile nel corso del primo trentennio del XVI secolo. Nel breve arco temporale che va dal 1529 al 1532 nelle liste dei condannati numerosi sono i nominativi provenienti dall’area iblea (circa 20 tra Ragusa e Modica). Terminata la “caccia” ai “neofiti giudaizzanti”, l’Inquisizione di Sicilia, tra la fine degli anni trenta e l’inizio degli anni quaranta del Cinquecento, trovava quasi subito un nuovo oggetto degno della sua attenzione: i “luterani”. Sebbene qualche focolaio di “luteranesimo”, anche se di non grande consistenza quantitativa, sia stato realmente presente in alcune zone dell’isola la problematica era interessatamente gonfiata dal Tribunale in quanto questo mirava a conservare e possibilmente accrescere i privilegi di cui lo stesso godeva come “defensor fidei” (“difensore della fede”). L’attività del “santo” Tribunale contro i “luterani”, trovò la sua massima espressione nel corso degli anni sessanta del ‘500. In un arco di tempo che va dagli anni trenta agli anni settanta del Cinquecento furono istruiti oltre 600 processi con altrettanti condannati e 19 “auto da fé”, nei quali cospicuo si rivelò il numero dei nominativi provenienti dall’area iblea. Nel 1547 sono inquisiti alcuni magistrati, quali l’illustre giureconsulto Giovanni Antonio Cannezio. Nella stessa lista sono compresi i vertici politico-istituzionali della Contea: il “capitano di giustizia” di Modica don Baldassarre de Peralta e persino il “governador del contado”, Geronimo de Atienza Finita, o quasi, alla fine degli anni settanta del ‘500 la lotta contro l’”infezione” luterana, negli anni ottanta e lungo tutto il Seicento l’Inquisizione di Sicilia si trovò di fronte ad un mutamento di obiettivo: non più le eresie vere e proprie, ma una serie di comportamenti quali la stregoneria, “magaria”, i sortilegi. Tali pratiche costituirono, per il Santo Tribunale, il terreno fertile su cui sviluppare e continuare la sua attività. Il Tribunale cercò inoltre di allargare, riuscendo nell’intento, le proprie competenze includendo fra i soggetti da giudicare i bestemmiatori, i bigami e tutti coloro i quali esprimevano opinioni discordanti con il dettato ortodosso che, in precedenza, erano giudicati dal Tribunale vescovile. La piena ed estesa facoltà di giudicare simili delitti consentirono alla struttura inquisitoriale di esercitare un controllo fortissimo su tutti gli strati sociali della popolazione siciliana. Controllo, esteso e capillare, che veniva svolto mediante una struttura organizzativa sicuramente non secondaria a nessuna tra quelle pubbliche esistenti nel regno. Il suo apparato burocratico gestiva una amplissima schiera di collaboratori sui quali esercitava giurisdizione civile e penale, dai quali traeva redditi non trascurabili dai loro servigi e per i quali era disposta a battersi senza esclusione di colpi. L’organigramma degli appartenenti al Sant’Uffizio, come si rileva da un documento scoperto circa un decennio fa, risulta costituito, negli anni sessanta del Cinquecento, da un numero complessivo di 539 affiliati, distribuito per oltre 140 centri della Sicilia. Un numero che è destinato a dilatarsi e che secondo il computo dello storico Garufi, nel 1575, sarebbe stato di oltre 1.700 dipendenti: più che triplicato, quindi. Anche a Ragusa operò una struttura inquisitoriale composta, nel 1575, da 18 dipendenti. Persone di tutto rispetto, di alto lignaggio, inserite talvolta in alte cariche civiche, compongono l’organico locale. Fu il rapporto tra inquisitori da un lato e i poteri pubblici dall’altro a costituire l’aspetto, sicuramente più importante, dell’attività del Sant’Uffizio nel regno di Sicilia, a partire dalla fine del Cinquecento. La struttura inquisitoriale, inserita efficacemente in un blocco d’ordine politico e sociale ancor prima che religioso, partecipava al controllo di tutte le attività politico-amministrative dell’isola. Attività che venivano controllate, contabilmente e centralmente, attraverso una frequente corrispondenza epistolare tra l’Inquisitore di stanza a Palermo e gli “officiali” periferici, come emerge da lettere inedite, custodite presso l’Archivio di Stato di Palermo, parti delle quali pubblicate sul libro, facenti parte di comunicazioni intercorse, nel biennio 1578/1579, tra gli ufficiali della capitale del regno e quelli di Ragusa.
Giuseppe Nativo
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Direttore: Pippo Palazzolo Registrazione Tribunale di Ragusa n.8/96 - Direttore Responsabile: Faustina Morgante - Editore A.s.tr.um. Ragusa Ultimo aggiornamento: 21 giugno 2011 |