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Master
Tarot: la struttura
di
Dario Distefano
Seconda
parte |
I
Discepoli (n. IX)
“Quando
il discepolo è pronto , è pronto anche il Maestro”.
È solo dopo avere affrontato il faccia a faccia con i nostri demoni che
può cominciare l’insegnamento, che possiamo diventare discepoli o a
nostra volta insegnanti.
Il
gruppo di dodici uomini e donne raffigurato nella Carta n. IX, i Discepoli
appunto, ci parla della necessità e dell’opportunità offerta dal
gruppo, dalla comunità, dal sangha e della forza che questo fornisce ai
singoli individui.
Ma
diventare membro di un gruppo, così come il diventare discepolo,
paradossalmente richiede che almeno alcune delle nostre tentazioni siano
state affrontate, magari non sconfitte ma affrontate sicuramente, viste,
guardate. In particolar modo la tentazione del “faccio tutto da solo”,
“non ho bisogno di nessuno”, “nessuno mi può aiutare”, “non ho
niente da dare a nessuno”, “non sono in grado di aiutare nessuno”.
Allora
è possibile fare quel primo passo che ci porta dentro un lavoro di gruppo
di qualsiasi genere sia, terapeutico, spirituale. Il gruppo diventa un
moltiplicatore di energie.
“Un
gruppo è un mezzo molto efficace per aiutare le persone. Che il sangha
sia temporaneo o duraturo, la crescita deriva dalla partecipazione. Fare
parte di un tale gruppo è un’esperienza di grande efficacia. La vera
comunità è terapeutica. Una persona che vive lo zen è in comunità
anche quando è solo, ed è solo anche in mezzo agli altri.” (D.
Brazier, Terapia zen, p. 246)
Se
osserviamo meglio la carta n. IX, i Discepoli, vediamo che ci sono dodici
individui, sei maschi da un lato e sei femmine dall’altro, e magari
qualcuno, come me, potrebbe pensare che sarebbe meglio se maschile e
femminile fossero stati mischiati insieme. Però, nella fase del
discepolo, forse è meglio che maschile e femminile, pur re-stando
insieme, siano distinti l’uno dall’altro, in modo tale da evidenziare
le differenze per dare loro eguale valore. Le cose valgono, hanno valore
perché sono differenti.
C’è
anche un momento successivo in cui questa differenziazione può essere
trascesa o unificata. Tra le Carte minori ve n’è una, la n. 14, Un
Unico Essere, che si richiama al versetto 22 del Vangelo di Tommaso: “Quando
del due farete uno, e il dentro come il fuori, e il superiore come
l’inferiore, e quando farete del maschio e della femmina un unico
essere, così che l’uomo non sarà più uomo né la donna donna –
allora entrerete nel Regno”.
Fermiamoci
un momento.
Fin
qui abbiamo esaminato le Carte Maggiori a gruppi di quattro. Vorrei
continuare ad esaminare un altro gruppo di quattro carte dalla n. IX, i
Discepoli, alla n. XII, la Frusta. Questo modo di procedere non è
l’unico, o il migliore, o quello giusto: è uno schema e ognuno può
trovarne altri.
Disposizioni
dei Tarocchi per quattro.
Vi invito a
provare questa disposizione delle Carte Maggiori su cinque file verticali
composta ognuna da quattro carte in orizzontale.
Prima
di procedere alla disposizione, togliamo la Carta n. 0, la Cometa, e la
Carta n. XXI, la Galassia: queste due
Carte non entrano a far parte di questo schema perché l’ordine a cui si
riferiscono è altro rispetto all’ordine del quaternario di cui ci
stiamo occupando e che sostanzialmente si rifà al potere del quattro, il
cubo, la stabilità, la solidità, i quattro elementi. La Cometa e la
Galassia contengono questo schema ma non ne sono contenute e quindi
possiamo collocare la Cometa in alto e la Galassia in basso e poi
disponiamo le prime quattro carte orizzontalmente, sotto altre quattro e
così via fino all’ultima carta, la n. XX
Apocalisse.
Osservate
ora le file verticali che si sono ottenute:
I
IL FIGLIO DELL’UOMO |
II
L’ANGELO |
III
LA MADRE |
IV
IL PADRE |
V
IL TEMPIO |
VI
IL PROFETA |
VII
MADDALENA
|
VIII
TENTAZIONE |
IX
DISCEPOLI |
X
MIRACOLO |
XI
PERDONO
|
XII
LA FRUSTA |
XIII
LA CENA |
XIV
AMATEVI L’UN L’ALTRO |
XV
IL BACIO |
XVI
URLO |
XVII
QUI E ORA |
XVIII
CELEBRAZIONE |
XIX
LO SPIRITO |
XX
APOCALISSE |
La
prima comincia con il Figlio dell’Uomo (n. I) e comprende il Tempio (n.
V), i Discepoli (n. IX), la Cena (n. XIII) e la croce del Qui e Ora (n.
XVII). Potremmo dire che la vita terrena di ogni individuo si sviluppa
lungo questa direttrice nell’opera di individuazione e di realizzazione:
si fa parte di una data struttura sociale; ci si sforza di creare il
nostro gruppo o comunità entro cui vivere la propria vita; si condivide
con gli altri il pane e il vino; si completa il percorso in accordo con la
croce dello spazio-tempo, nel senso che ogni vita umana può svilupparsi
entro i limiti di uno spazio-tempo dato.
Il Miracolo -
n.X |
La
seconda fila verticale comincia con l’Angelo (n. II) che abbiamo
detto rappresenta la “vocazione” o “l’ispirazione”
individuale, il messaggio che ognuno di noi porta. Seguono il
Profeta (n. VI), il Miracolo (n. X), Amatevi l’un l’altro (N.
XIV), Celebrazione o Festa (n. XVIII).
Il
Profeta è il concretizzarsi della voce della vocazione o
dell’ispirazione, è colui che ci sveglia alla nostra missione
individuale, “voce di uno che grida nel deserto”;
seguire la voce della vocazione è quello che ci permette di
realizzare il Miracolo della nostra vita, o i miracoli nella
nostra vita; il Miracolo più grande è quello di amarsi l’un
l’altro, di servire con umiltà o come dice il primo voto del
bodhisattva: “infiniti sono gli esseri senzienti, faccio voto
di salvarli tutti”. Dal lavoro a favore dell’altro, con
gli altri e fidandosi/affidandosi all’altro nasce la vera gioia,
la festa della risurrezione.
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La
terza fila, che inizia con la Madre (n. III), ci mostra subito in sequenza
l’altro archetipo femminile di questi tarocchi, Maddalena (n. VII), e
ancora sotto il volto e il corpo di un’altra donna, l’adultera, della
carta Perdono (n. XI). La carta il Bacio, (n. XV) ci parla del tradimento
e di tutti i tradimenti che facciamo e che subiamo, ma anche il tradimento
come necessario: “Secondo questa interpretazione del racconto la
situazione di fiducia primaria non favorisce la vita: se Dio e la
creazione non erano sufficienti per Adamo ed era necessaria Eva, questo
significa che il tradimento era necessario. Sembra che il tradimento e la
cacciata fossero l’unica via per uscire dal Giardino, come se il codice
della fiducia non potesse essere trasformato in altro modo. Ci troviamo
così di fronte a una verità essenziale sulla fiducia e sul tradimento:
l’uno contiene l’altro.” (J. Hillman: Il Tradimento in Senex et
Puer, Marsilio p. 98).
Tutto
questo bellissimo saggio di Hillman sul tradimento, sul rapporto paterno,
sull’integrazione dell’Anima e sulla centralità di questi temi nella
storia evangelica come paradigma della nostra vita individuale, andrebbe
letto con attenzione per capire il profondo significato della Carta XIX,
lo Spirito, come carta conclusiva di questa fila che comincia dal
femminile, passa per il tradimento e arriva all’apertura e alla discesa
dello Spirito.
L’ultima
fila, infine, è la via del Padre (n. IV) che preghiamo affinché “non
ci induca in tentazione”, carta n. VIII, in nome del quale, Padre-Logos,
ci ribelliamo o contro il quale ci ribelliamo, contro le strutture erette
in nome suo, la Frusta (n. XII). Il Padre-Logos dal quale ci sentiamo
abbandonati o che abbandoniamo, l’Urlo (n. XVI9 e solo allora possiamo
accedere a quella trasformazione/esplosione globale, Apocalisse (n. XX)
che spezza i limiti egocentrici per permetterci l’esperienza della
totalità.
Ritorniamo
al nostro percorso da cui abbiamo deviato.
Il
Miracolo (n. X)
È
solo dopo la creazione di un gruppo, di un sangha che può compiersi il
Miracolo (n. X). Allora i ciechi tornano a vedere, i paralitici a
camminare, l’acqua si trasforma in vino. Però, a mio parere, non
bisogna avere una concezione troppo “miracolistica” della via. Lo
stesso Maestro Gesù in più occasioni ebbe a dire. “Voi credete perché
avete visto, beati quelli che crederanno anche senza aver visto”. Molte,
o forse tutte, le religioni sembrano quasi volere fondare la loro “verità”
sull’esistenza del miracolo: poiché sono la vera religione, la vera
rivelazione, la vera incarnazione del divino, per questo opero i miracoli.
I
maestri zen che direi programmaticamente hanno rifiutato e combattuto
questa impostazione, risponderebbero che “il mio miracolo è: mangio
quando ho fame, dormo quando ho sonno”. Come a dire che il vero miracolo
è la presenza consapevole nella vita quotidiana, ordinaria e che questa
stessa vita che consideriamo ordinaria e quotidiana se ci pensiamo bene è
un vero miracolo. Presenza consapevole che ci permette di vedere, secondo
l’espressione di Suzuki-Roshi, le cose cosi come è.
In
questo caso i miracoli mi sembra acquistino un altro sapore: siamo tutti
ciechi e paralitici e senza vino e già morti. Tutti abbiamo bisogno di
vedere, camminare, gustare il vino della vita, rinascere. Allora, forse, i
miracoli non sarebbero più così miracolosi ma, sempre per usare una
tipica espressione zen, “niente di speciale”.
Come dice il
Maestro, nel vangelo di Giovanni, alla fine dell’episodio della
guarigione del cieco nato, ai farisei che chiedevano. “Che forse siamo
ciechi anche noi?” Disse loro Gesù: “Se foste ciechi, non avreste
colpa. Invece voi dite: noi vediamo. La vostra colpa perciò rimane.” (Giovanni
9,41).
Queste parole mi
sembrano diano il valore reale del miracolo, non lì e allora, ma qui ed
ora nella nostra vita di tutti i giorni.
Perdono (n. XI)
Il miracolo di
ritornare a vedere o di vedere per la prima volta sembra essere la
condizione per accedere alla dimensione del perdono.
Anche
qui guardiamo attentamente la carta: la natura colorata, fiorita e ricca
della carta precedente lascia il posto alle dune tondeggianti e spoglie;
in primo piano una mano aperta e, più in basso, la figura di una donna in
ginocchio, i lunghi capelli al vento; le guance e le labbra rosse; il seno
prosperoso. Dietro una piccola folla di soli maschi, vecchi e giovani, con
in mano forconi, falci e bastoni. Il primo del gruppo sembra stia per
cadere in ginocchio e dalle mani aperte cadono le pietre.
La
mano del Maestro non sembra minacciosa; quella stessa mano che mentre
quella folla gli chiedeva se fosse da lapidare l’adultera, secondo
quanto prescritto dalla legge di Mosè... “Ora Gesù, curvatosi in
basso, scriveva con il dito per terra.” (Giovanni 8, 6)
Per
aprire gli occhi al cieco impasta saliva e terra, ora scrive per terra con
il dito: il Maestro usa le mani ed è connesso pienamente alla terra e la
terra, questa terra, lo sorregge e ne è arricchita.
Le
mani, le mani, ci servono per operare nella realtà così come tutto il
nostro corpo. Le mani, la terra, i piedi, c’è forse qualcosa di noi che
non è ”perfetto cosi come è”?
“Chi
di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra” (Giovanni, 8,7).
Non
disquisizioni teologiche, legali, filosofiche, alti principi morali,
sottigliezze e distinguo, appelli o parole retoriche: “Chi di voi è
senza peccato...”
Chi
può, onestamente, pronunciare questa semplicissima frase non a qualcun
altro, ma rivolgerla a se stesso, al nostro auto-condannarci, al nostro
spietato giudizio verso noi stessi, i nostri genitori, gli altri, la
società, il mondo.
Mi
piace pensare ad un altro contesto, lontano nel tempo e nello spazio da
questa storia:
“Uccidere
dovrebbe essere il compito
soltanto
del grande carnefice.
Cercare
di sostituirlo sarebbe
Come
cercare di tagliare il legno
Al
posto del maestro carpentiere:
ci
si ferirebbe soltanto la mano.”
(Tao Te Ching, cap. 7)
“Neppure
io ti condanno, va’ e da ora in poi non peccare più” (Giovanni 8,11)
I
nostri piccoli io non possono condannare o auto-condannarsi.
“Il
peccato consiste nel condurre una vita di sacrifici e sofferenza. Dunque
bisogna abbandonare la sofferenza. È necessario dominare l’Io,
estirpare il desiderio di possesso, l’odio e la paura.” (Jodo, Vangeli per guarire, p. 335)
La
Frusta (n. XII)
Ancora un
braccio e una mano in primo piano: questa volta impugnano una frusta.
Siamo
tornati nel Tempio (carta n. V) ma quale differenza!
Monete
per aria, colombe volano, frammenti di costruzione cadono, un uomo ai
piedi della scalinata cerca di proteggersi, sullo sfondo fulmini rossi,
una colonna appare lesionata.
Ricordate
il processo che dalla carta n. V, il Tempio, dove tutto è ordine, potere,
sovrastruttura ci ha portati fin qui. In particolare le ultime due carte
che abbiamo incontrato, il Miracolo (n. X) e il Perdono (n. XI). Abbiamo
aperto gli occhi, abbiamo visto che nessuna legge, nessuna norma, anche se
certificata dalla autorità della tradizione, può essere superiore alla
“consapevolezza”, quel semplice gesto (scrivere con il dito per terra)
e quella semplice frase (chi è senza peccato...). Abbiamo incontrato la
forza del perdono, non quello di cui si riempiono le prediche, i media, tv
e giornali, ma quello, nelle parole di Jodo “Cosa significa
perdonare? Comprendere l’altro, mettersi al suo posto.”(p. 196)
Quella
piccola ma potente frase che usiamo, p. es., in psicodramma “inversione
di ruolo”. Ora diventi tuo padre, tua madre, il tuo nemico, il tuo o la
tua amante, ora vedi l’altro “con i suoi occhi”, cambi prospettiva,
capisci che cambiando posizione, cambia anche la percezione. Se fossimo
nati in Palestina, o ebrei, o arabi, o cinesi, o americani, penseremmo
ancora allo stesso modo, vedremmo il mondo allo stesso modo, ubbidiremmo
alle stesse leggi o tradizioni o religioni?
Ecco
il significato del fare pulizia nel proprio tempio interiore: creare uno
spazio vuoto, scoprire lo spazio vuoto dove non c’è bisogno di
sacrificare, comprare indulgenze, di sensi di colpa, di obblighi inutili.
La
Frusta vuol dire anche “mettersi o essere messo alla frusta”, spronare
noi stessi a fare pulizia dentro; nessuno la può fare al posto nostro.
Come diceva un maestro zen: “mi dispiace ma non posso bere, mangiare o
fare un piccolo peto al posto vostro”.
Portiamo
attenzione, la nuda attenzione, ai nostri concetti, credenze, abitudini,
tradizioni: la frusta come la spada di diamante che taglia dai due lati
della tradizione buddhista, o come il bastone del maestro zen Tokusan:
“se non riuscite a parlare, vi darò trenta colpi di bastone. E se
riuscirete a parlare, vi darò trenta colpi di bastone”.
Spazziamo
via quello che non è necessario. Liberiamo il nostro tempio dai mercanti.
E
così siamo tornati a quello che il tempio significava, il nostro incontro
con il sociale, ma ora siamo in grado di vedere come il potere della
sovrastruttura ha nascosto e corrotto l’insegnamento di base, il volto
originario o il dio interiore se preferite.
Possiamo
tornare a una diversa e per me più bella definizione di tempio:
“Chaou-chou
era entrato in un tempio deserto insieme con un suo discepolo. Questi gli
domandò: “Che cos’è un tempio?” Il maestro rispose: “Tu ed
io.” “E chi c’è in un tempio?” “Tu ed io”.
Dario
Distefano
Nota:
la terza parte sarà pubblicata sul numero di Aprile de "Le Ali di
Ermes".