Taccuino di viaggio

Siracusa, sabato 25 giugno 2005

Antigone di Sofocle

Il bianco e nero della raffinata scenografia di Irene Papas. Le silenziose ed enigmatiche statue di un bianco che sembra luce materializzata, impalpabili archetipi magicamente visibili.

Il teatro greco, il multicolore pubblico sulle millenarie gradinate, mute testimoni del succedersi delle generazioni, del fluire del tempo.

Nella calura del tardo pomeriggio, aspettando l’inizio della rappresentazione, trovo un po’ di refrigerio nell’antro di una grotta, dove da una fonte l’acqua sgorga copiosa.

Lo spettacolo inizia, irrompe sulla scena Antigone (la bravissima Galatea Ranzi).
Le musiche di Vangelis, con un’amplificazione perfetta, creano subito un clima di “sospensione” del tempo e dello spazio, esaltato da una scenografia in cui dominano le bianche e immobili “presenze”; attorno ad esse, si agitano le sagome nere dei personaggi, nel vano tentativo di sfuggire ad un umano destino già scritto, contro il quale a nulla serve opporsi.

I demoni e gli dei che agiscono gli uomini, non si fanno impietosire. Amore, orgoglio, paura, rabbia, fanno dell’uomo un semplice strumento che consente di mettere in scena le loro storie. 

L’Antigone mi riporta agli anni ’70, quando si ripropose ancora una volta l’antico dilemma fra il rispetto della “legge dello Stato” e quella della coscienza (il “caso Moro”: trattare o non trattare per salvare una vita umana? Vale più la vita di un uomo o il rispetto sacrale delle leggi dello Stato?).

Il sole tramonta, le ombre si allungano sulla scena; il povero re Creonte comincia a rendersi conto delle rovine che lui stesso ha contribuito a creare intorno a sé; Creonte, un re sofferente, così come l’interpretazione di Haber è sofferta e grande, e l’inevitabile accento bolognese ce lo rende solo un po’ più umano.

Il buio della notte scende, come un sipario, e copre tutto con il suo manto di oblio. 

P.P

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