Dal volume “Il Mito e il Velo”, di Federico Guastella – parte seconda

Il rapporto tra mito e simbolo è ineludibile; quest’ultimo con ogni probabilità precede il primo, essendo il mito un intreccio di simboli. Se il mito è un racconto organico dove agiscono personaggi e per lo più divinità che danno luogo ad eventi, il simbolo è un segno o anche un termine, una cosa o una persona che possiede connotati nascosti oltre al significato ovvio e convenzionale: esso, pertanto, implica qualcosa di vago, di sconosciuto o di inaccessibile. Perciò, quando la mente lo esplora, entra in contatto con idee che stanno al di là dell’immediatezza conoscitiva; ogni apparenza rinvia a qualcos’altro da sé, ignoto, più ampio e indefinibile.

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Il simbolo – dal greco Symballein, che vale a dire “unificare o connettere”, indica due metà di un oggetto che riavvicinate lo ricompongono. Nell’antica Grecia esso era un segno di riconoscimento e di controllo fra due o più persone legate da una comunanza di interessi. L’accorgimento era realizzato spezzando in due o più parti un oggetto, in genere una moneta o una tavoletta di metallo oppure un anello; un frammento, poi, veniva consegnato ad ogni interessato. Il possessore di una delle parti poteva così farsi riconoscere dai possessori delle altre, mostrando come le diverse parti fra loro combaciassero. Si trattava dunque di un oggetto che permetteva di riunire persone un tempo unite da un vincolo di amore o di amicizia e successivamente divise dalle circostanze per poi ricostituirsi.

Con il trascorrere del tempo questa funzione fu sostituita con un ruolo rappresentativo: il simbolo venne, cioè, interpretato come qualcosa che sta al posto di un’altra: ad esempio, la bilancia che rappresenta la giustizia.

La simbologia è quindi la scienza dei significati nascosti: essa si stacca dal concreto per rappresentare conoscenze totalmente astratte e lascia a ciascun soggetto la libertà dell’interpretazione. Il simbolo possiede una funzione di allusione e, pur appartenendo perfettamente al mondo reale, rimanda a una sfera superiore. In sostanza, il suo ruolo è quello di offrire la chiave per comprendere il mondo spirituale. In tale ottica, i simboli sono generatori di energie capaci di fornire all’interprete opportunità, direttamente proporzionali al grado di conoscenza, che lo riorientano a una più ampia comprensione.

La dimensione religiosa ed esoterica emerge chiaramente dalla stretta connessione del mito con il rito: non c’è mito senza simbolo e senza rito; i tre termini sono consunstanziali. Il rito, che al mito è strettamente connesso, non è altro che la “resurrezione narrativa d’una realtà primordiale” (Malinowski).

Il termine ‘Rito’, che proviene dal latino “Ritus”, indica attività formalizzate che si svolgono secondo regole o procedure specificate da una tradizione collettiva e riconosciute da tutti. Potrebbe dirsi che, da un’esigenza arcaica della psiche, esso assolva alla funzione di generare il passaggio da una condizione all’altra. Il rito è una porta attraverso la quale si entra in un gruppo, in un nuovo livello di conoscenza, in un nuovo stato mentale e comportamentale. E’ la ritualità che stabilisce regole ripetitive, vincolanti e correttamente eseguite con l’obiettivo di assicurare

Prof. Arnold Van Gennep (1873-1957) https://sociologia.tesionline.it/sociologia/img/dossier/0802/foto1.jpg

coesione e stabilità al gruppo d’appartenenza. Nel suo studio Les rites de passage (1909), Arnold Van Gennep identificò riti che scandiscono le fasi del ciclo di vita (nascita, morte, pubertà…), le cerimonie di ospitalità e quelle di insediamento. Pur nella loro eterogeneità, tutti questi riti presentano una struttura, o forma comune costituita dall’articolazione in tre fasi: la prima segna la separazione dal precedente status sociale; la seconda è una fase liminare o di transizione; laterza è quella che immette nel nuovo status o il completamento della transizione. Per cambiarlo i soggetti devono superare una prova di morte: il novizio muore per essere trasformato e raggiungere un livello superiore a quello che aveva prima. Il rito così segna il cambiamento e istituisce il nuovo ordine, assegnando ai meritevoli che hanno dato prova di coraggio, la nuova identità desiderata. I riti si tramandano, preservano e rafforzano valori e vincoli di solidarietà, stimolano la produttività e l’agire cooperativo, incentivano la creatività, suscitano l’entusiasmo collettivo e l’emulazione. Le celebrazioni rituali riaffermano le credenze e gli ideali della comunità. Molti di essi possono essere paragonati a un socio-dramma che influisce emotivamente e intellettualmente sugli attori e sugli spettatori. Le reazioni variano a seconda degli interessi, dei livelli di attenzione o di distrazione, del grado di istruzione, dell’abitudine alla riflessione.

Essi richiedono l’allestimento del luogo di rappresentazione, la preparazione di materiali, l’addestramento degli attori, una regia in base alla quale si svolge l’azione. L’esecuzione si fonda inoltre sull’uso di determinati gesti, parole, segni di riconoscimento, oggetti e simboli rappresentati graficamente. La scelta dello spazio, dell’orientamento e del tempo è rilevante perché si riceva un’influenza spirituale. Lo spazio, che inerisce alla geofisica sacra, è dato dalla scelta d’una località in cui le forze ctonie favoriscano stati superiori di coscienza; riguardo al tempo, i rituali solari, solstiziali ed equinoziali, erano legati all’aumento o alla diminuzione della luce, mentre quelli lunari alle modificazioni della luna.

Si potrebbe dire che i riti hanno sempre lo scopo di mettere l’uomo in rapporto con qualcosa che supera la sua individualità, introducendolo nella sfera del sacro. Il punto centrale, o il nucleo del problema, è di creare un «rapporto», una relazione, tra rito e realizzazione spirituale.

In particolare, nelle civiltà greco-ellenistica e romana, grande importanza rivestivano i culti di Eleusi e di Dioniso, senza dimenticare che anche in altre epoche e in altri contesti si svilupparono culti e riti, quali Iside e Osiride in Egitto, la Grande Madre Cibele e Attis in medio oriente, Mitra in Persia e poi nell’antica Roma.

Laminette orfiche. https://www.touringclub.it/evento/napoli-museo-archeologico-collezione-epigrafica

Laminette orfiche, conservate al Museo archeologico di Napoli, riportano indicazioni relative al percorso che l’iniziato al culto di Orfeo doveva effettuare. Ai misteri spesso alludono anche i filosofi e alcuni autori greci e latini. Intorno al 600 a.C., Clistene di Scione rese ufficiali in Atene altre celebrazioni in onore di Dioniso. E’ Aristofane a raccontarle negli “Arcanesi”. La testimonianza della villa di Pompei è ineguagliabile, in merito. E’ dalle scene rappresentate che deriva il nome di “Villa dei misteri”: secondo le interpretazioni più accreditate, il composito e articolato affresco raffigura l’iniziazione delle spose ai misteri dionisiaci.

A Talete si attribuisce il motto “Conosci te stesso”, riportato a Delfi sul frontone del Tempio di Apollo e a Pitagora, come anche ad Empedocle, l’appartenenza all’orfismo. Miti, simboli e riti, dunque: entrambi accomunati indissolubilmente alla purificazione dell’anima per sottrarla alla “ruota delle rinascite”, cioè alla trasmigrazione nel corpo di altri viventi. L’insegnamento fondamentale che l’orfismo conteneva era il concetto per cui la vita è un cammino, cioè una ricerca. Fu questo il clima nel quale poté nascere e fiorire la filosofia greca: quello, cioè, preparato dai miti e dai simboli che a loro volta confluivano nelle scuole iniziatiche.

Nell’Ellade fu l’aedo a diffondere il mito.

Costui era il cantore professionista, una figura sacra al pari di un profeta che, tradizionalmente ritratto come cieco per non essere distratto da niente e da nessuno, grazie alle straordinarie capacità immaginative poteva entrare in contatto direttamente con le divinità e sentirne le voci. Erano gli occhi dell’anima a ispirarlo e a vedere oltre i sensi. Possedeva la sapienza dell’ “invasato”, di chi aveva il dio dentro. Le Muse parlavano attraverso di lui ed egli, in modo chiaro e immediato, narrava a brani le sue ampie composizioni conservate nella memoria individuale.

Era la memoria storica della comunità e della civiltà in genere e possedeva conoscenze del passato, del presente e del futuro. Vi erano scuole di aedi che si tramandavano di generazione in generazione i loro canti mitici e misteriosi; particolarmente famosa fu quella degli Omeridi, nell’isola di Chio, cosidetti, perché si vantavano di discendere da Omero.

Con il mito progressivamente si è fatta strada l’idea di liberazione e di perfezionamento. La nascita dell’eroe, cioè di colui che affronta rischi per incontrare l’anima e procedere nella sua crescita. Numerosi miti di tutti i contesti culturali si concentrano su questo nucleo fondante, si pensi a Perseo che libera Andromeda incatenata ad uno scoglio o a Dioniso che salva Arianna abbandonata da Teseo in un’isoletta deserta, oppure a San Giorgio che libera dal drago la principessa di Berito. Paul Ricoeur, uno degli ultimi grandi filosofi del 900, ebbe a dire: «Il mondo ha bisogno di grandi simboli per cercare il filo conduttore del labirinto umano» e ha evidenziato il discorso profondo del mito che costituisce l’ambito privilegiato dei fondamentali problemi esistenziali, tant’è che di esso si sono serviti i compositori di tragedie nel mondo greco, rivendicando la natura problematica della psiche.

Il mito parla della creazione dell’anima, della sua destinazione, dei sui compiti. Affascina ancora la lettura di quello che Platone affida a “Er” e non si resta indifferenti dinanzi alla problematica dell’amore presentata nel “Simposio”. Joseph Campbell, nella pregevole opera Le figure del mito1 , rifacendosi al concetto di Jung sull’immaginazione attiva, si affida ad alcune citazioni che di seguito riporto:

• Siamo fatti di quella materia / di cui sono fatti i sogni e la nostra breve vita / è circondata da un sonno (Shakespeare, La tempesta).

• C’è un sogno che ci sta sognando (Un boscimano del Kalahari).

• Il saggio cinese Chuang-tzu sognò di essere una farfalla. Svegliandosi, non sapeva più se egli era un uomo che aveva sognato di essere una farfalla o se invece era una farfalla che stava sognando di essere un uomo.

• Che veniamo su questa terra per vivere non è vero: veniamo solo per dormire, per sognare (Poesia azteca, anonimo).

• La vita è sogno (Titolo di una commedia di Calderon).

L’aveva già detto esplicitamente nella sua prefazione:

“I sogni aprono una porta sulla mitologia, poiché i miti sono della stessa natura del sogno. Come i sogni emergono da un mondo interiore sconosciuto alla coscienza di veglia, così avviene per i miti. Così avviene, in verità, per la vita stessa2”.

E’ la porta onirica ad aprire verso il mondo meraviglioso del mito. A dirla con Jung, le parole che 1 J. Campbell, Le figure del mito, Red edizioni, Como, 1991. 2 Ivi, p. XIII. vengono dal profondo si possono esprimere soltanto con la visione . “Veda”, la scienza sacra tradizionale della cultura indiana, ha la radice “vid” che significa “vedere” e, nello stesso tempo, “sapere”: la vista è presa come simbolo della conoscenza superiore. Dalla tradizione orientale a quella greco-occidentale, il percorso giunge a Platone.

Nel Fedro egli dice:

“La bellezza splendeva di vera luce … l’abbiamo afferrata con il più luminoso dei nostri sensi, luminosa e risplendente. Perché la vista è il più acuto dei sensi permesso al nostro corpo”.

Poi Aristotele. Per lo stagirita, noi amiamo usare la vista più d’ogni altro senso perché ci offre maggiori informazioni e ci rende manifeste parecchie differenze. Tutta la filosofia di Giordano Bruno sulla conoscenza si fonda sullo sforzo di “vedere” l’invisibile. Non per niente egli sostiene che “Conoscere” significa anzitutto vedere per “immagini” e l’immaginazione è da lui considerata il più potente dei sensi interiori. Grazie ad essa il divino comunica con l’umano. Nel De imaginum signorum et idearum compositione, la luce è il tramite per il quale le immagini e i segni divini vengono impressi nel mondo interiore. Essa non è quella per cui le normali impressioni colpiscono la vista, bensì una luce interiore unita alla profondissima contemplazione. I mutamenti di civiltà comportati dal confronto (incontro-scontro) tra cultura visiva e cultura uditiva. Solo quando funzionano bene in simultanea si spicca il volo.

Un bell’esempio di associazione del vedere con l’udire si può trovare in Ermete Trimegisto. Nel Pimandro all’iniziato appare il “Nous”, l’intelletto supremo, che lo avvia alla conoscenza. Tutte le cose diventano luce, ed egli se ne innamora. Il punto di partenza è, dunque, la presenza di una divinità trascendente, la cui conoscenza è il vertice più alto del sapere a cui aspira Ermete Trimegisto secondo un processo cognitivo che muove da una particolare rivelazione. Alla cecità dei sensi si contrappone la capacità di vedere dell’uomo interiore, il quale si avvale dell’occhio dell’anima, nonché dell’ascolto per realizzare un particolare processo di rigenerazione spirituale. Dal sogno dunque sembra provenire la nascita del mito, autorevolmente assunto come sacro, essendo i sogni voluti dalle divinità: narrato facendo leva sul meraviglioso, pur considerato estremamente reale, conservato, tramandato e arricchito3 . Sicché, col mito, il passato viene trasferito nel presente e il presente nel passato medesimo entro la misura della verità sancita dal rapporto col sacro.

Federico Guastella

Ragusa, 27 marzo 2018

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  1. J. Campbell, Le figure del mito, Red edizioni, Como, 1991.
  2. Ivi, p. XIII.
  3. C. Calame, Mito e storia nell’antica Grecia, 1996

 

Il volume è disponibile presso le librerie Paolino e Flaccavento di Ragusa e può essere acquistato on-line sul sito www.mondadoristore.it .

 

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HÒLOS, poesia inedita di Fabio Strinati

HÒLOS

Agli occhi vi si creano somme di parti,
un colore d’aria che sferza e spira
dove mente e corpo,
sono un tutt’uno col “ comportamento emergente ”.
Integro: indiviso tronco mescolato
che nasce e procrea la sua forma
al microscopio che non varia né sfuma
fra il suolo e i biomi:
intero e tutto figli di una scatola, ( uno scatolone? )
unità – totalità che al ritmo della vita
è vivente come il piccolo pensiero
che nel “ complesso corpo “
si assembla e si trasforma,
nell’infinitamente e perpetuo moto,
quel mutamento ch’è anima “ X ”
e intimamente,
energica ch’è l’evoluzione.

Fabio Strinati

Marzo 2018

 

Spartiti di musica visiva contemporanea

Per contattare l’Autore, scrivere a strinati.fabio@tiscali.it

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Il Mito – dal volume “Il Mito e il Velo” di Federico Guastella

Le divinità nacquero in un tempo indefinito e con loro gli esseri umani raggiunsero la consapevolezza di una sfera soprannaturale, essendo pervenuti ad un alto grado di civiltà. Agli dèi eressero templi per esprimere l’aspirazione all’Ordine universale e con la recinzione d’uno spazio sacro, considerato un “centro”, o “il cuore del mondo” che fa superare la condizione umana per il recupero di quella divina, divisero l’interno da tutto l’esterno.

Pasolini nel film “Medea” pone in evidenza la ricerca insopprimibile di un centro, l’omphalós, luogo sacro dell’insediamento. Quando gli Argonauti giungono nella spiaggia di Iolco e piantano le loro tende, producono la ribellione di Medea per non avere essi dapprima svolto il rito richiesto dalla Tradizione:

“Questo luogo sprofonderà perché senza sostegno! Aaaah! Non pregate Dio, perché benedica le vostre tende! Non ripetete il primo atto di Dio … Voi non cercate il centro. No! Cercate un albero, un palo, una pietra! Ah.”.

Tempio di Zeus – immagine tratta da http://www.archart.it/olimpia-tempio-di-zeus.html

E’ la stessa etimologia della parola a suggerirne il significato: “Tempio” deriva, infatti, dal latino “Templum”, che in origine, designava il tratto di cielo circoscritto dall’auriga con il lituo, isolandolo idealmente dal resto. La radice “Tem” si ritrova nella lingua greca, dove “Tèmenos” vuol dire recinto sacro e “Tèmno”, tagliare: cioè, separare, dividere. In questo senso, il Tempio è stato forse considerato come una “centrale energetica”, dove aveva luogo la rigenerazione spirituale. Essenziale era circoscrivere uno spazio “sacro” e sentirne la “vibrazione spirituale” allo stesso modo di Anfione il quale col semplice suono della lira eresse le mura possenti della città di Tebe.

Nel Tempio, che spesso sorgeva accanto al Teatro (il sacro nel sacro), si svolgevano culti e riti di purificazione e fu dalla partecipazione esoterica (i riti riservati agli iniziandi) ed essoterica (la fede della popolazione che portava gli “ex-voto” nel periodo delle feste), che si sviluppò la cultura del mito, inteso come “parola”, “discorso”, “racconto”, “narrazione”1. L’intreccio tra Tempio e mito si rende concreto nel prologo dell’ Edipo re a Colono, a cui si accosta Furio Jesi2: Edipo, cieco e mendicante, si trova nel boschetto sacro delle Erinni; appena il coro dei vecchi di Colono vi scorge la sua presenza, senza nemmeno chiedergli chi fosse lo invitano ad uscire. La sfera sacrale non può essere violata dai profani: soltanto l’iniziato può fare il suo ingresso in un’altra sfera in cui è protetto da sguardi indiscreti ciò che può essere colto da tutti.

Forse i miti nacquero per un bisogno di rassicurazione, perché l’uomo potesse ripararsi dall’angoscia del vuoto, dall’oscurità dell’origine e della fine.

Nasceva così il tempo sacro delle cosmogonie come visione d’insieme sulla formazione del cosmo, come svolgimento dal Caos all’ordine3 unitamente ai miti degli dei cui seguiva il ciclo dell’eroe – l’homo novus – per il bisogno di avere figure esemplari in grado di indicare il sentiero dell’affermazione, di provocare l’insorgenza del sentimento della grandezza attraverso la lotta interiore che conduce a un orizzonte di vita superiore. Il mito, quindi, come prova da superare e come ricerca dell’immortalità. Non è forse la ricerca un mezzo insostituibile per tentare di ritrovare ciò che si è perduto? Non ci si mette in cammino quando si vuole approdare al luogo che custodisce il segreto delle origini? Del resto, in tutte le tradizioni si parla di qualcosa che è stata perduta e nascosta: è il Graal che i Cavalieri di Uthere di Arturo

Il Sacro Graal – tratto da http://www.crystalinks.com/

cercano affannosamente; è il vedico Soma, la bevanda di immortalità che in altre forme ritroviamo nei misteri greci; è il mazdeico Haoma; è la pronuncia del gran “Nome” presso gli Ebrei; è la Verità, insomma, della Tradizione iniziatica. Non importa che la divinità risorta si fosse chiamata in altri contesti Rha, Osiride, Attis, Dioniso, Bacco o in qualunque altro modo: il significato è identico e rimane immutato; c’è sempre un Dio che viene ucciso, ma che alla fine risorge. Tutti i personaggi citati, cui a titolo esemplificativo vanno aggiunti Orfeo, Mitra, Cristo, Krishnna, sono riconducibili al ciclo cosmico e vegetativo: cioè, al mito del Sole che scompare e ogni volta rinasce, mentre la Luna, inconsolabile vedova, lo va cercando nella notte stellata. Il mito è così discesa e ascesa, un viaggio in discesa e in salita come insegna il cammino che Dante compie dallo stato di peccamonisità a quello ascetico attraverso la percorribilità dei tre regni. La condizione di beatitudine è una conquista che procede dall’abisso alla luce, dalle apparenze della caverna platonica alle essenze dell’alto e della rinascita.

Campbell ha scritto che l’universo diventava così “un’immagine sacra”. La volta celeste4, luogo privilegiato dell’osservazione, educava e alimentava il bisogno di grandi trasformazioni che conducevano al superamento di prove aventi come tappa finale il ristabilimento dell’equilibrio violato, cioè la conquista di una potenza originaria perduta.

Il mito – si sa – è parola che si fonda sul “Vedere” rispetto al “Logos” che coinvolge il processo razionale. Se il pensiero razionale è per sua natura analitico e discorsivo, quello mitologico o simbolico è sintetico e crea un mondo aperto di significati, rendendo così accessibile al microcosmo l’universale. In quanto essenza dell’universo, è presenza di potenza nella storia, giacché è stato il primo passo illuminante intorno alla rappresentazione del mondo; si può dire che l’uomo pre-filosofico l’abbia concepito come affabulazione sacra relativa a contenuti religiosi coi quali si tenevano legati i membri della comunità. Ciascuno poteva ritrovarsi nelle narrazioni in cui il cielo si congiungeva con la terra. Essi si conoscevano, vi si riconoscevano, dandosi una spiegazione sul mistero dell’esistenza, ovvero sul senso nascosto delle cose. Poi l’arte e le religioni ne veicoleranno i significati grazie anche agli apporti dell’archeologia. Via via che gli archeologi scavavano nelle viscere del passato, ci si poteva trovare a contatto con statue, con disegni, con templi, con lingue che comunicavano le antiche credenze. Il Mito, quindi, che è intreccio di memoria e di parola, racconta eventi sulla formazione del cosmo elaborati attraverso l’intuizione e l’immaginazione. Con esso l’uomo ha narrato se stesso, il proprio dramma, l’anelito che l’attraversa, proiettandosi in una dimensione di eternità. Si potrebbe dire che il complesso dei miti di una determinata civiltà costituisca un vero e proprio libro sacro, l’“ubi consistam”, il punto di riferimento e di stabilità. Le leggende non avevano il carattere della conclusività: venivano dinamicamente accresciute o ridotte. Esse, come gli dèi, viaggiavano da un paese all’altro, da un’epoca all’altra, dando luogo alla rielaborazione sincretica di varie tradizioni.

Il mito è universale, è patrimonio collettivo dei popoli, coinvolge ogni civiltà e ogni epoca. Dal paleolitico al neolitico, dall’induismo al buddismo, dai tibetani agli egiziani, dal mondo iranico a quello ebraico, la mitologia ha da sempre fornito racconti e liturgie. Esso esula dal tempo e dallo spazio, non è inchiodato a una specifica civiltà, anche se in questa sede il discorso viene prevalentemente focalizzato sulle manifestazioni della cultura egizia e greca.

Nella bella presentazione al volume di Robert Graves I miti greci, Umberto Albini scrive:

“Il mito è il bisogno di spiegare la realtà, di superare e risolvere una contraddizione della natura (come nasca il primo uomo, per esempio), il mito è spiegazione di un rito, di un atto formale che corrisponde a esigenze della tribù (l’invocazione della pioggia), il mito è struttura delle credenze di un gruppo, di un etnos (la condanna dell’incesto) ecc. ecc. Ma, come dice la parola, il mito è innanzitutto un racconto; c’è una storia da presentare, che ha lati terribili, ma anche spesso risvolti patetici, ci sono dei personaggi in azione, una trama che si snoda5”.

I miti potrebbero essere pensati come storie sacre che diedero origine ai riti e alla drammaturgia: essi infatti rifluivano nelle tragedie e si concretizzavano nello spazio teatrale, dando agli spettatori, che già li conoscevano, l’opportunità d’una partecipazione più intensa. Così come può essere fondativo di un rito, un rito stesso può generare un ciclo mitologico e letterario6.

“Misterico” è parola che proviene dall’Ellade antica e designa quegli aspetti della “pòlis” indicanti segreti religiosi. Il termine sarebbe collegato con quello di “meyn”, che significa “chiudere la bocca”, ovvero “mantenere il segreto”, dato che il mito confluiva in particolari riti d’entrata in manifestazioni sapienziali, estranee alle credenze comuni. Senza lo psico-dramma, il mito avrebbe perso la sua essenza; senza poterlo rivivere in un cerimoniale in cui gli adepti sono attori e protagonisti ad un tempo, si sarebbe ridotto a favola che, per quanto educativa, è basata soltanto sull’ascolto senza essere rivissuta e partecipata.

Federico Guastella

Ragusa, marzo 2018

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  1. M. Bettini, Racconti romani “che sono lili’u”, in L. Ferro e M. Monteleone, Miti romani, Torino, 2010, pp. V-XXIX.
  2. F. Jesi, Mito, Isedi, Milano, 1973.
  3. L’architettura del cosmo, probabilmente elaborata dai discepoli di Orfeo, fa esplicito riferimento all’uovo cosmico. Suggestivo è il mito secondo cui la “Notte” profonda, come assenza di luce e di limiti, senza fecondazione produsse un Uovo d’argento, primordiale, da cui nacque Eros “colmo di desiderio”: aveva ali che stillavano oro ed era paragonato ai vortici sollevati dal vento. Per effetto di Eros, accoppiatosi nottetempo con Abisso, si produssero i diversi elementi costitutivi del cosmo: il cielo, l’oceano, la terra e anche la razza indistruttibile degli dèi. E’ questa la testimonianza che si trova nella parabasi degli Uccelli di Aristofane. Secondo un’altra tradizione, reinterpretata in senso neoplatonico nel Trattato sui Primi Principi del bizantino Damascio (V secolo), in origine esistevano tre forze primordiali: Kronos (il Tempo), Aither (l’Aria) e Chàos. La creazione ebbe inizio quando Kronos pose all’interno di Aither un Uovo, da cui uscì Phànes, il Brillante, lo splendente, ossia la Luce che poi si accoppierà con la buia Notte dando origine al Cielo e alla Terra. Nella versione attribuita a Ieronico ed Ellanico, Eros ha un carattere bisessuale, formato dal maschile e dal femminile, oltre a un Dio alato che, avente un corpo doppio e teste taurine, è l’ordinatore del cosmo. Costui è Protogonos, ma anche Zeus o Pan, creatore di tutte le cose dalla luce che emana (C. Calame, I Greci e l’Eros – Simboli, pratiche e luoghi, Editori Laterza, Roma-Bari, 2010, pp. 146-150) .
  4. Un accenno merita il personaggio Atlante, denominato Atlas nella mitologia romana, di cui esistono diverse versioni sulla sua nascita. Per la maggior parte di queste, egli è il figlio del titano Giapeto e della ninfa Climene. Altre leggende invece, narrano di lui come il frutto dell’amore tra Zeus e Climene; per altre ancora risulta figlio di Poseidone e Clito. Nel mito egli è il pilastro della porta del cielo. Quando Zeus decise di affrontare il padre Crono per spodestarlo e prendere il suo posto come re degli Dei, dovette costringerlo con la forza a rigettare tutti i fratelli che, alla nascita, erano stati divorati proprio a causa di una profezia della quale Crono stesso era ossessionato. Durante tale rappresaglia anche i Titani vi presero parte, ma ebbero la peggio perdendo il sanguinoso scontro. In conseguenza di ciò, Zeus condannò Atlante, in quanto Titano, a sostenere con la nuca e la sola forza delle braccia l’emisfero celeste chálkeos (“bronzeo”), sidéreos (“ferreo”) e asteróeis (“stellato”). 
  5. R. Graves, I miti greci, Longanesi&C., Milano, 1963, p. V.
  6. A. Panaino, Riflessioni su alcuni aspetti esoterici ed iniziatici dei Misteri Eleusini, “Hiram”, 3/2014, pp. 13-15.

Il volume è disponibile presso le librerie Paolino e Flaccavento di Ragusa e può essere acquistato on-line sul sito www.tipheret.org

 

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