Il segno dei Pesci – di Pippo Palazzolo

Carta astronomica della costellazione zodiacale dei Pesci, dell’inglese Sydney Hall (1788-1831)

Quest’anno il 18 febbraio, alle ore 17.43 ora locale, il Sole è entrato nel segno zodiacale dei Pesci (zodiaco tropicale) e vi è rimasto fino alle ore 16.33 del 20 marzo. Ultimo segno del ciclo annuale, con i Pesci il cerchio dello Zodiaco si chiude, per riaprirsi ad una nuova avventura subito dopo, con l’avvento della primavera, sotto il segno dell’Ariete. Dal punto di vista stagionale, il segno dei Pesci coincide con la fine dell’inverno, è quindi un segno “mobile”, come i Gemelli, la Vergine e il Sagittario. La sua polarità è “femminile” e il suo elemento è l’Acqua. Il governatore tradizionale del segno è Giove, al quale si è aggiunto anche Nettuno, pianeta scoperto nel 1846 dall’astronomo tedesco Johann Gottfried Galle.

L’astronomo tedesco Johann Gottfried Galle (1812-1919)

Per la sincronicità tra Alto e Basso, la scoperta di Nettuno coincide con un periodo storico nel quale emergono aspirazioni che riguardano l’intera umanità, sia dal punto di vista politico (1848, Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels), che da quello spirituale (1875, nasce a New York la Società Teosofica di Helena Petrovna Blavatsky). Nel mondo scientifico si assiste in quegli anni ad un fiorire di invenzioni e scoperte che avrebbero cambiato profondamente la nostra concezione della realtà.

Nettuno – mosaico presso il Museo di Timgad (Algeria)

La signoria di due pianeti dal simbolismo molto diverso fra loro, come Giove/Zeus e Nettuno/Poseidon, rende il segno dei Pesci particolarmente complesso. É un segno che spesso viene associato alla spiritualità, alla religiosità, all’intuizione, alla creatività, all’empatia.

La nascita e la diffusione del Cristianesimo avvengono nell’Era dei Pesci (per il fatto che l’equinozio di primavera cadeva nella costellazione dei Pesci, alla nascita di Gesù). L’elemento Acqua del segno dei Pesci ha un significato diverso da quello che assume in Cancro e Scorpione, gli altri due segni d’Acqua. Se nel segno del Cancro l’Acqua ha più il significato del liquido amniotico (madre, origini) e l’Acqua dello Scorpione è quella torbida delle paludi, nelle quali si combatte e si soffre, l’Acqua dei Pesci è invece quella dell’infinito oceano, delle profondità abissali: l’elemento primordiale dal quale proveniamo e al quale ritorneremo nel momento finale del ricongiungimento con il Tutto.

Non sempre è facile essere del segno dei Pesci! Naturalmente portati all’astrazione, potrebbero finire nella… distrazione, contemplando il cielo potrebbero non vedere gli ostacoli sulla via. D’altra parte i Pesci sanno essere anche molto precisi, ordinati, metodici, qualità delle quali hanno bisogno proprio per non perdersi nell’immensità dei loro pensieri. Se alla nascita Giove è dominante, avremo un Pesci più legato alle regole sociali, più conformista, ma anche più incline a godersi la vita. Se a dominare è Nettuno, avremo una personalità che oscillerà dall’illuminazione mistica alla confusione, dalla sensibilità artistica alla creatività caotica.

Albert Einstein – nato a Ulma, 14 marzo 1879
Santa Teresa d’Avila – nata ad Avila, il 28 marzo 1515 (nel calendario giuliano il 28 marzo corrisponde al 18 marzo del calendario gregoriano attuale)
Fryderyk Chopin – nato a Żelazowa Wola il 22 febbraio 1810

Albert Einstein, santa Teresa d’Avila, Fryderyk Chopin: intuizione geniale, estasi mistica, creatività artistica. Tre personaggi esemplari delle vette che può raggiungere un Pesci con un forte Nettuno. Naturalmente non soltanto chi nasce con il Sole nel segno dei Pesci potrà avere alcune di queste caratteristiche, ma anche chi vi abbia la Luna, l’Ascendente o uno “stellium” (tre o più pianeti). Ricordiamo anche che il segno dei Pesci è presente nel cielo di nascita di ciascuno di noi, ad indicarci in quale settore della vita le sue qualità si manifesteranno maggiormente.

Pippo Palazzolo

Ragusa, 29 marzo 2022

 

…e venne la Contea di Modica – di Federico Guastella

Marchisia Prefoglio – disegno di Andrea Carisi

Scrive Raffaele Solarino: “Federico Musca, figlio a colui che avea diffuso in questa regione il movimento insurrezionale contro i francesi, ebbe assegnata Modica a titolo di Contea, e con il medesimo titolo fu data Ragusa a Giacomo Prefoglio. Si ignora la data delle concessioni : ma quella di Modica deve essere stata fra le prime che fece re Pietro…”.

E’ appena il caso di dire che Marchisia Prefoglio, la quale viveva ad Agrigento, sorella di Giacomo e di Federico conte di Caccamo, aveva sposato Federico Chiaramonte. Diversi i figli, fra i quali: Manfredi e Giovanni, nonché il terzogenito Federico (barone di Racalmuto, di Siculiana e di Favara, territori da lui ripopolati). 

Stemma di casa Chiaramonte

Fu il casato dei Chiaramonte (1286-1392), famiglia originaria di Clermont  e legata per rapporti di parentela a quella di Carlo Magno, ad esprimere la propria potenza, visibile nello stemma che riporta cinque monti d’argento in campo rosso o un monticello a cinque gobbe. Di animo fiero e altero, non persero l’occasione di guerreggiare per estendere il dominio e si deve a loro l’ascesa dinastica in una Sicilia attraversata da accordi e discordie con altri grandi feudatari: Artale Alagona, Francesco Ventimiglia, Guglielmo Peralta. 

Dichiarando la sua fedeltà a Federico II e sostenendolo da valoroso guerriero, Manfredi Chiaramonte 1  riunì sotto il suo comando una delle più consistenti baronie dell’Isola. Per parte di madre fu conte di Ragusa (comprendente Gulfi, “mutandone il nome in quello di Chiaramonte per ricordo imperituro del suo Casato” 2), da lui riconquistata nel 1302 dopo che nel 1299 era caduta in potere degli Angioini. Anche conte di Modica (comprendente Scicli), avendo sposato Isabella Mosca cui era stata affidata detta contea. Amato dai vassalli, unificò le due contee in una sola con la denominazione “Contea di Modica”, avente residenza a Ragusa, unitamente all’amministrazione: “e dalla curia ragusana dipendeva allora l’altra corte di Modica e Caccamo ed altre signorie” 3 .

Così Raffaele Solarino nel 1884 ne descriveva il territorio: “Posto all’estremità più meridionale di Sicilia, (esso) si estende su di un terreno accidentato, che quà si riposa in diffuse e fertili pianure, là s’innalza in monti erti e dirupati, in certi punti s’accumula in vaste masse compatte, che formano altipiano, in altri si squarcia e sprofonda in valli e torrenti…”.

Riproduzione grafica del Castello di Ragusa Ibla

Molti i castelli, fatti edificare a scopo difensivo, sono legati al suo nome e ai discendenti cui si devono molte opere pubbliche che in diverse città migliorarono il decoro e le condizioni di vita. 

La dinastia non mancò di operare anche nell’attività chiesastica: a Ragusa i Chiaramonte accolsero come protettore il normanno San Giorgio e probabilmente, sostiene Giorgio Flaccavento, ne riedificarono il tempio, spostando il sito da quello vicino al castello alla spianata del Corso per renderlo più maestoso. 

Oltre al Lauretta, il cui manoscritto è riportato da Sortino Trono nell’opera I Conti di Ragusa e della Contea di Modica (1907), a parlare del loro palazzo fu un “Anonimo” nel suo manoscritto sulla Ragusa del Seicento, pubblicato da Francesco Garofalo (1980). Leggendo le paginette che gli dedica, vengono in mente alcune foto che riprendono resti consistenti delle strutture murarie prima di essere demolite all’inizio del ‘900 per far posto alla costruzione del Distretto Militare. Dettagliata la descrizione che con le tonalità del fantastico lo presenta munito di tre porte e di una quarta detta ferrea utilizzata per l’accesso, situandolo poco distante dalla via principale: verso il centro della città e sulla parte più alta di essa. 

Ecco appena un accenno:  

Ha all’interno quattro fortissime e altissime torri, le quali tutte sono abitate, e tra l’una e l’altra vi sono mura fortissime e altissime; sopra di esse sono i merli e delle palle rotonde di pietra viva, delle quali a stento un uomo fortissimo potrebbe sollevarne una, e dalla parte di dentro sopra le dette mura si cammina comodamente per la difesa del Castello… Dopo la quarta porta esisteva un porticato attraverso il quale si entra in un cortile, ed in esso è un magnifico palazzo, nel quale abitarono i Chiaramonte, Conti di Ragusa, il qual palazzo viene ora chiamato “lo palazzo dilli Chiaramunti” 

Il palazzo nel castello, dunque. Ed era in un sito di dominio della città tale da consentire una poderosa difesa dagli attacchi esterni. 

D’avviso diverso Leonardo Lauretta che, contraddicendosi, situava il grandioso palazzo nel luogo del Convento di san Francesco: “Sino al dì d’oggi ne appaiono le mergoli delle Torri, corridoi di strade sotterranee, piscine, bivieri, conducendovi le acque della Cava di Velardo… “. E’ stato Filippo Rotolo nell’opera La chiesa di S. Francesco all’Immacolata (1990) a fornire una convincente chiave di lettura, mostrando tanta destrezza nel maneggiare l’argomento. Escludendo che la torre annessa al Convento dei Francescani sia stata di stile chiaramontano, ha ritenuto che dovette essere dell’antica chiesa di San Francesco, all’origine facente un tutt’uno con la facciata di cui si conserva il portale anteriore alla venuta dei Chiaramonte. 

Sull’ubicazione del palazzo, lo studioso condivide le notazioni del Garofalo e gli sembra probabile che sia stato edificato da Manfredi I Chiaramonte. 

Prezioso il passo da cui si apprende il luogo scelto dai frati per stare a contatto con il popolo minuto e viverne la vita:  

Chiesa e convento di S.Francesco all’Immacolata – Ragusa

… a Ragusa i primi ignoti Francescani si sistemarono nella periferia settentrionale della città, che solo dopo il sec. XIII questo sito era certamente, come lo è tuttora, l’estremo limite settentrionale, lontano dal centro costituito dal castello normanno, oggi distrutto. 

In realtà il castello esistette al tempo dei bizantini che eressero mura invalicabili. Gli Arabi, saccheggiatori dei territori, secondo una tradizione popolare, non coincidente con le notizie fornite da Michele Amari che riferiscono dell’abbattimento, tentarono invano di espugnarlo; i normanni con Goffredo lo resero più poderoso e i Chiaramonte con Manfredi I e III vi eseguirono opere imponenti per renderlo più imprendibile. 

Grazie alla ricerca demologica, si è compreso l’interesse appassionato del popolo per i fatti del tempo. Per chiarire il senso di un distico popolare, Serafino Amabile Guastella, nell’opera Canti popolari del Circondario di Modica raccolti e illustrati da S. A. G. (Modica, Lutri&Secagno, 1876), espone un fatto:

Costanza di Chiaramonte

“Costanza, figlia di Manfredo III, settimo conte di Modica e almirante di Sicilia, fu menata sposa a re Ladislao di Napoli; ma il voluttuoso e volubilissimo principe, venutagli, dopo pochi anni, a noia la moglie, bramò impalmare altra donna, e pregò, poi minacciò aspramente il papa a dichiarar nullo il precedente matrimonio. Il papa, ligio in tutto ai reali di Napoli, annullò il matrimonio ma Ladislao, non contento di contrarre altre nozze, volle altresì costringer la Costanza a toglier per secondo marito Andrea di Capua, conte di Altavilla. L’altera donna, terminata appena la cerimonia nuziale, celebrata in Gaeta, rivoltasi ad Andrea, presenti il re e i cortigiani, proruppe in queste fiere parole: Messer Andrea, vi potete tenere il più avventurato cavaliere del regno, perché avete per concubina la moglie legittima di re Ladislao, vostro signore”. Lo stornello, commenta l’antropologo e scrittore di Chiaramonte Gulfi, “ha perduto il significato storico, e si canticchia fra i denti quando si vuol mettere in burla la resistenza inattesa o protratta di una donna del volgo”: 

Viola, viulina, / cunsidira la nostra paisana! // Lu papa ca la sciòisi di rrigina / ci rrissi: figgia mia fa la buttana.

(Viola, violina, / Considera la nostra paesana! // Il papa che la sciolse di regina / le disse: figlia mia fai la puttana). 

Se di Simone, personaggio turbolento e conte di Ragusa nel 1353 dopo la morte del padre Manfredi II, si può dire che dedicò la vita a guerreggiare per l’Isola, diversa per indole filantropica fu sua moglie Venezia (amata dalla gente comune), da lui perseguitata con l’intento di sposare Bianca, sorella di re Federico. Quando il popolo parlava del matrimonio di un’orfana, alludeva a Venezia Palazzi che aveva istituito una dote per le orfanelle del paese. Da qui il distico: 

Vinezia, l’armi santi fannu festa / C’addutàstivu a tutti l’urfaneddi.                                                            (Venezia, le anime sante fanno festa / perché avete cresciuto tutti gli orfanelli). 

Dolorosa, dopo novantatré anni, la fine della dinastia a seguito dell’ingresso degli spagnoli in Sicilia. Andrea Chiaramonte (1391-1392), l’unico a opporvisi a Palermo con fiera resistenza, fu arrestato e processato in modo farsesco. Condannato a morte ad opera di re Martino, venne rapidamente decapitato in Piazza Marina davanti al palazzo Steri dove egli era nato, simbolo del potente casato. 

Affidiamo ora alle parole di Raffaele Solarino la valutazione complessiva sull’operato di questa famiglia che esercitò il dominio in buona parte dell’Isola: 

“Grandi non furono, ma potenti, doviziosi, splendidi. In quel periodo procelloso di fazioni e di lotte, costretti a destreggiarsi con leghe ed alleanze continuamente giurate, rotte e falsate, condannati a combattere sempre per soperchiare l’opposta fazione, per conservare le preminenze ed accrescerle, mostrarono sempre un’energia di carattere, una fierezza indomabile, un valore non comune. Sentivano l’odio ereditario, la pertinace voluttà della vendetta, e sodisfecero sempre all’irrequieta ambizione senza ritegni, né riguardi, né scrupoli, come portavano i tempi” 4.

Spadaccini dunque i Chiaramonte che assoldavano squadre di avventurieri per risolvere le loro questioni; nel contempo, rifuggivano quasi tutti, aggiunge lo studioso, “dalle vie oblique, dai raggiri, dalle astuzie”. E “non sovvertitori dei sudditi” che li tennero in grande considerazione. 

Quelli furono anche gli anni della più luttuosa pandemia. In Sicilia, nell’ottobre 1347 la “peste nera” giungeva forse per l’arrivo di galee genovesi, provenienti dall’Asia: diffusasi ovunque dalla Sicilia in Europa, fa da sfondo al Decameron e fu rappresentata da mano ignota nel famoso dipinto del 1446 Il trionfo della morte di Palazzo Abatellis a Palermo: la festa dei personaggi è colpita dalla Morte rappresentata al centro e quel trionfo è la metafora della caducità della vita!

Federico Guastella

Ragusa, 13 marzo 2022

 

Note:

  1. 1296-1310, date indicanti l’anno d’insediamento e quello della morte.
  2. A Manfredi si deve dunque la nascita di Chiaramonte che cominciò a sorgere all’interno della fortificazione (poi distrutta dal terribile terremoto dell’11 gennaio del 1693). Il piccolo agglomerato formò il quartiere Baglio (il termine deriva dall’arabo bahal, “cortile”, indicante il “piano”, cioè l’area interna di caseggiati feudali, supporto logistico per il lavoro). Oggi è visibile, a nord, la pittoresca porta principale d’ingresso, originariamente chiamata Porta dila chaza e adesso “l’Annunziata”: a forma d’arco (Arcu ra Nunziata) e con le tracce dell’opera, ormai corrosa, di uno scalpellino del tempo, mostra due bassorilievi raffiguranti i momenti dell’Annunciazione: a destra, Maria che prega; a sinistra l’Arcangelo Gabriele. Indicativo il nome riferito alla prima chiesa madre del paese, sorta in data successiva al 1310: quella dell’Annunziata, situata all’interno della cinta muraria subito dopo l’attraversamento dell’arco e alla sinistra di chi procede. Si ipotizza l’esistenza di altre due porte d’accesso: la porta della Guardia o di Ragusa, ad est, che, ubicata nella zona che collega il piano di San Giovanni col piano di Santa Maria del Gesù, metteva in comunicazione la città di Ragusa e con la strada romana Agrigento-Siracusa; la posterla (‘a pusterna, porticella), a sud, che collegava la zona del Ferriero con l’attuale via Porta. A sud del Baglio esisteva il quartiere denominato “Cuba”, così chiamato per la probabile presenza d’una omonima costruzione che forniva acqua e riparo ai viandanti.
  3. F. Garofalo,  Discorsi sopra l’antica e moderna Ragusa, Stabilimento tipografico di Francesco Lao, Palermo, 1856 (Riedizione anastatica, Attesa editrice, Bologna, 1985).
  4. R. Solarino, La Contea di Modica. Ricerche storiche, ristampa anastatica 1973, vol. II, pp. 113-114.

L’Autore

Federico Guastella

Federico Guastella, abilitato all’insegnamento di Scienze Umane e Scienze umane e storia, è stato Ragusa dirigente scolastico. Apprezzato saggista, ricercatore scrupoloso ed esigente, autore di testi letterari in prosa e in versi, ha al suo attivo anche contributi di pedagogia e didattica, essendo stato impegnato in corsi di aggiornato per docenti della scuola primaria e dell’infanzia. La sua produzione spazia così dalla saggistica alla narrativa alla poesia. Nell’opera Chiaramonte Gulfi – La mia diceria (Ragusa, 2014) ha proposto un itinerario della memoria individuale e collettiva in un serrato dialogo a più voci tra l’attualità e la storia recente, tra le relazioni dei luoghi dell’anima e dei luoghi della natura e del paesaggio. Il libro Colapesce (Ragusa, 2012), scritto in collaborazione, ha valore pedagogico-educativo, oltre che letterario e demologico. Tra le ultime opere pubblicate dall’editore Bonanno di Acireale-Roma, si ricordano: Andrea Camilleri, Guida alla lettura (2015); Fra terra e cielo. Miscellanea di saggi brevi con Gesualdo Bufalino (2016); Serafino Amabile Guastella. La vita e le opere (2017); Il mito e il velo (2017); Viaggio intorno al libro rosso (2018); Ignazio Buttitta e Danilo Dolci, due profili culturali della Sicilia (2019); Luigi Pirandello. I romanzi, i miti (2020). Degno di nota il volume Una rilettura del Gattopardo (Bonanno 2021). Recentemente ha svolto una ricerca sulla Massoneria in provincia di Ragusa che si è conclusa con la pubblicazione del libro Alle radici della Massoneria Iblea (Bonanno, 2021), preceduto dall’opera Pagine esoteriche (Bonanno, 2017). Ha curato la prefazione di più opere; gli sono stati pubblicati articoli in diverse riviste; è stato premiato in più concorsi per la poesia e annualmente si è classificato al primo posto per i saggi anzidetti di cultura siciliana al concorso città di Favara (AG), indetto dal Centro Culturale “R. Guttuso”. E’ in corso di stampa la sua monografia Sguardo su Sciascia. Studioso di storia locale, attualmente è impegnato nella stesura del volume Il miele dolceamaro degli Iblei. Privilegiando la letteratura dei siciliani, sta altresì lavorando su una monografia dal titolo Sicilia letteraria – Luoghi e volti.

Giù la maschera! Il processo di disidentificazione nella Psicosintesi – di Pippo Palazzolo

La psicosintesi di Roberto Assagioli, una delle correnti più interessanti della psicologia moderna, ci può aiutare a spogliarci da ruoli stereotipati e spesso superati dalle nostre stesse esperienze. In questo articolo, presentiamo una semplice introduzione ad alcuni dei principi basilari di tale teoria.

Ogni mattina, quasi senza accorgercene, indossiamo la nostra “maschera” e usciamo. Abitudini, lavoro quotidiano, ruoli da svolgere, aspettative degli altri, autoconvinzioni, ci portano gradualmente a consolidare, sul nucleo centrale del nostro Io cosciente, un aggregato psichico, che per comodità possiamo chiamare “Ego”, che ragiona e pensa a se stesso pensante, un centro di consapevolezza.

Ma noi, come ci percepiamo? Dipende da come si è sviluppata la nostra consapevolezza, da quanto si è allargata la sfera del nostro “Io” conscio rispetto all’inconscio che lo avvolge. Può essere utile aver presente lo schema della nostra psiche, ideato da Roberto Assagioli.

L’ovoide della psiche, secondo Roberto Assagioli

Possiamo raffigurare la nostra psiche come un ovoide, al cui centro luminoso si trova la sfera della coscienza. Nella parte bassa c’è il sub-conscio, sede delle funzioni più elementari della psiche: rimozioni, istinti, impulsi. Nella parte alta troviamo l’inconscio superiore, sede delle funzioni più elevate: l’intuito, il pensiero, l’immaginazione. Ogni “Io”, o “Sé”, è collegato con un “Sé” superiore, la parte spirituale che si incarna in un corpo, ma che rimane legato al “Sé transpersonale” (o “Logos”, “Tutto”, “Assoluto”, o comunque si voglia definire l’entità trascendente  che tutto muove e permea).

Ma torniamo al nostro “Io”, così piccolo ma così esigente, a volte arrogante! E’ il nostro strumento, ciò che ci permette di conoscere, sperimentare la vita e relazionarci con l’esterno. Come tutti gli strumenti, di per sé è neutrale, ma può essere un aiuto o un ostacolo alla nostra crescita. Nel corso della crescita, la nostra personalità si forma, si evolve, si modifica, a seconda delle circostanze familiare, delle esperienze, della cultura acquisita.

In ogni stadio della nostra vita, noi adottiamo delle strategie di “sopravvivenza” che, specie da bambini, sono per lo più inconsce. Pensiamo ai bambini “seduttivi”, che ottengono tutto con la dolcezza e, all’opposto, ai bambini “terribili”, che ottengono lo stesso tutto, ma perché strillano e rompono. E, più avanti, lo studente “modello” e il “bullo”, la ragazza “che ci sta” e la “virtuosa”, il “buon padre di famiglia” e lo “scioperato” antisociale, e così via.

Quei comportamenti che noi abbiamo adottato in determinate circostanze, e che allora ci servivano, con il tempo diventano abitudini, riflessi condizionati, abiti  che ci sembrano una seconda pelle. Per questo motivo, noi accumuliamo un certo numero di modelli o maschere comportamentali, che nella psicosintesi vengono chiamate  “sub-personalità”.

E’ come se, all’interno della nostra psiche, ci fosse un piccolo teatro con tanti attori con ruoli diversi. Uno di loro sarà il primo attore, la nostra “maschera” consapevole, l’identità che accettiamo, le altre saranno in secondo piano, ma pur sempre vive e desiderose di attirare l’attenzione. Fino a quando non le “scioglieremo”, riconoscendole e superandole in una “sintesi” più alta, le sub-personalità toglieranno energia ai nostri programmi consapevoli: dobbiamo dare spazio a tutti, perché diversamente nel nostro inconscio una parte (o più) di noi cercherà di andare per conto suo, anche in contrasto con i nostri progetti.

Il primo passo da fare, per liberare le nostre energie e uscire dalle spinte contraddittorie delle sub-personalità, è riconoscere le nostre sub-personalità, capire come si sono formate e se sono ormai superate. A quel punto, potremo cominciare a lavorare per trasformarle, attraverso un lavoro di integrazione, che porterà ad una “sintesi”, alla nascita di una personalità armoniosa e arricchita di nuove componenti.

Sciolte le sub-personalità, diventa importante riaggregare le energie psichiche così liberate in un “modello ideale”, ciò che noi siamo veramente, anche se forse lo abbiamo dimenticato!

Quando nasciamo, tutti noi abbiamo un progetto da realizzare, ma con il passare del tempo a volte lo dimentichiamo. Per fortuna è possibile recuperarlo, ci sono varie tecniche che ci possono riportare sulla “retta via”, quella di una piena realizzazione in questa vita… ma questo è un altro discorso!

Pippo Palazzolo

 

Roberto Assagioli (1888-1974)

Consigliamo a quanti volessero approfondire la conoscenza della Psicosintesi,  di visitare il sito ufficiale dell’Istituto di Psicosintesi, www.psicosintesi.it, che contiene ampie informazioni sia sulla vita di Roberto Assagioli che sulle sue teorie, nonché sulle numerose attività organizzate in tutta Italia.

Un Centro di Psicosintesi molto attivo, in Sicilia, è quello di Catania.

 

 

Gesualdo Motta: da Mastro a Don – di Federico Guastella

In occasione del centenario della morte dello scrittore Giovanni Verga (Vizzini, 1840-Catania 1922), “Le Ali di Ermes” gli rende omaggio pubblicando questo articolo del dott. Federico Guastella, suo grande estimatore, dedicato ad una delle opere maggiori del Verga, il romanzo “Mastro-don Gesualdo” (Ed. Treves, Milano,  1889). 
Giovanni Verga (1840-1922)

Il romanzo, come ‘avantesto’ apparso a puntate nel 1888 sulla  Nuova Antologia, con sostanziali modifiche sul piano formale e dei contenuti verrà pubblicato dall’editore Treves l’anno successivo, ancorché datato 18901. Attento si mostra il Verga ai mutamenti sociali che attraversano la Sicilia tra il 1820 e il 1848, periodo in cui decade l’aristocrazia e si afferma l’ascesa di una nuova classe sociale: quella della borghesia che, venuta dal nulla, dispone della necessaria intraprendenza per guadagnare sempre di più. Dominante la presenza del protagonista che quasi solitaria giganteggia su tutta la folla dei personaggi. Il lettore lo incontra al capitolo I della parte prima in occasione dell’incendio in casa Trao, mentre il paesetto di Vizzini sprofondava nel sonno. Allo scampanio delle chiese, accorrono tutti gli abitanti: “Dalla salita verso la Piazza Grande e dagli altri vicoletti, arrivava sempre gente: un calpestìo continuo di scarponi grossi sull’acciottolato; di tanto in tanto un nome gridato da lontano; e insieme quel bussare insistente al portone in fondo alla piazzetta di Sant’Agata…”. Tra allitterazioni e metonimie, l’incipit manifesta il fascino della parola. E’ un pezzo di bravura timbrica la descrizione del trambusto che si viene a creare: un’occasione che introduce ai diversi personaggi che popolano il romanzo come per esempio il canonico Lupi e don Licciu Papa “il caposbirro”.

Il vicino di casa è Gesualdo, il quale si mostra preoccupato per il possibile estendersi del fuoco ai suoi possedimenti. Il palazzo dei Trao che va in rovina è l’immagine della fine di un prestigio parassitario, mentre la voce stizzosa di Gesualdo Motta già fa capire il suo carattere volitivo che lo configura come il custode della “roba”, accumulata con sacrifici e rinunce. I paesani lo conoscono così: l’infaticabile muratore (“mastro”) che si adopera nei traffici del commercio, spinto dalla sete del guadagno e diventare imprenditore (“don”). Ha fiuto Gesualdo che può permettersi di compiere l’ascesa con l’uso della razionalità economica. Ha preso l’appalto delle strade comunali e la sua attività non conosce soste; tiene sotto controllo gli operai e gli affari e si muove di qua e di là con la voglia del profitto. E’ il demiurgo che al cantiere misura “il muro nuovo colla canna; si arrampica “sulla scala a pioli”; pesa “i sacchi di grano”.

Uomo di successo, dunque, grazie all’instancabile lavoro che gli fa distruggere le barriere della tradizionale abulia impressa come spina genetica, dando vita all’epopea della “roba” con la consapevolezza delle strategie necessarie: osare finché è possibile e mettere in difficoltà l’avversario. Verga incarna in questo personaggio il nuovo tipo di proprietario terriero venuto dal nulla e in gara con i nobili del paese. Negli anni Sessanta del XX secolo, la sostituzione dei ceti era già un fatto compiuto: vincente il don Calogero Sedàra del “Gattopardo” in contrapposizione al principe Salina, l’aristocratico rassegnato che assiste alla decadenza del casato e al passaggio del suo patrimonio al suo affittuario2. L’ascesa sociale di don Gesualdo raggiunge poi il vertice con il matrimonio che si realizza col sacrificio dei sentimenti: sposa Bianca Trao di nobile casato “per avere un appoggio… per far lega coi pezzi grossi del paese”, spiega alla giovane e devotissima serva Diodata, da cui ha avuto figli, “poveri innocenti” che si trovano all’ospizio dei trovatelli.

La stiratrice (1884) – Edgar Degas

E’ nella parte I del cap. IV che è rappresentata la nottata alla “Canziria” (a “circa due ore di notte”), una fattoria della campagna di Vizzini. Coinvolgente la descrizione, il cui paesaggio lunare è evocato da una melodiosa prosa. E Gesualdo si abbandona ai ricordi: la fanciullezza grama, la giovinezza travagliata, le prime lotte per la “roba”. Se ne ricava l’immagine di un uomo intraprendente che è riuscito a creare e ad accumulare ricchezze. Ed è anche un uomo affettuosamente tenero, a suo modo. Al sommesso pianto di Diodata, la quale si sente abbandonata insieme ai loro figli che si trovano all’ospizio dei trovatelli, fa di tutto per confortarla: “Non ti lascerei in mezzo a una strada… Ti cercherei un marito”. Irritato di quel pianto, si mette a bestemmiare come un vitello infuriato: “Santo e santissimo ! Sorte maledetta!… Sempre guai piagnistei!…”.

Durante il colera del 1837, che il popolo ritiene appositamente diffuso, apre “le braccia e i magazzini ai poveri e ai parenti”. A Mangalavite, dove si rifugia e in cui si sente “come un papa fra i suoi beni e i suoi dipendenti”, fa del bene a tutti e gli resta il cruccio “per l’ostinazione dei parenti che non avevano voluto mettersi sotto le sue ali”. Mastro-don Gesualdo ha un intimo rovello e i suoi affetti, tra cui il profondo rispetto per il vecchio padre: per esempio, quando mastro Nunzio sta per morire si mostra raccolto nel dolore senza dire una parola. Non è soltanto segnato dall’avidità della roba; nutre sentimenti fino ai rimorsi che lo inducono ad una rivisitazione interiore. Diodata e Bianca due donne accomunate dal destino infelice, ma diverse nel tenere i rapporti con l’eroe del profitto. La prima, affettuosamente e lealmente dedita al padrone, non si nega mai; la seconda, pur avendo patito come lui la povertà testimoniata dalle sue dita “un po’ sciupacchiate”, ha insanabili difficoltà di comunicazione con lui: i condizionamenti delle origini, di cui Verga ha piena consapevolezza, sono il marchio del sangue.

Rappresentazione teatrale del Mastro-don Gesualdo, Teatro Bellini di Napoli, 2015

Il non poter comunicare è dunque la conseguenza del totale fallimento del matrimonio Motta-Trao, “un affare sbagliato” che lascerà tracce anche nel rapporto di don Gesualdo con la figlia Isabella. E’ il destino di solitudine che prende il sopravvento, quasi mai il successo economico conduce alla felicità quando sono messi da parte gli intimi rapporti domestici. Sicché, l’ombra della solitudine è sempre in agguato quando si gustano i beni materiali invece delle parole d’amore. E felice Mastro don Gesualdo di sicuro non era stato per aver barattato col denaro le ragioni del cuore, malgrado avesse tratto profitto da un fare veloce e intelligente. Felice non era stato dal giorno delle nozze con Bianca Trao: “Nulla, nulla gli aveva fruttato quel matrimonio; né la dote né l’aiuto del parentado, e neppure ciò che gli dava prima Diodata, un momento di svago, un’ora di buonumore, come il bicchiere di vino a un pover’uomo che ha lavorato tutto il giorno, là! Neppur quello!”. L’uomo della fortuna creata con le proprie mani è ormai divorato da quella solitudine che nasce da certe scelte sbagliate, da lui fortemente avvertite.

Poche, ma incisive pennellate mostrano la finezza psicologica di Verga nel rappresentare il dramma familiare dell’incomunicabilità dovuta alla frizione di codici diversi. Fra l’altro, don Gesualdo aveva ostacolato la relazione della figlia con il povero orfano Corrado, imponendole un matrimonio riparatore con il duca di Leyra, cui viene dato buona parte del patrimonio dotale. Verso la fine dei suoi giorni, lo troviamo non più avido di beni: egli ha ormai maturato una consapevolezza: è l’uomo solo con la spina nel cuore di cui non sa darsi pace. Il consuntivo è fallimentare, il turbamento è lacerante, avvertendo l’allontanamento della figlia da lui. Lo scacco è irrisarcibile, malgrado abbia impiegato la vita a staccarsi da una condizione di miseria e cambiare stato sociale.

La solitudine di Mastro don Gesualdo, che è mancanza di affetti e della forza salvifica delle parole, raggiunge il culmine quando, ammalato, si trova nel “palazzone” della figlia. Non è più l’uomo libero d’un tempo; a tavola qualche giorno mangia “in gala (…) legato e impastoiato”. Addirittura viene relegato nelle stanze della foresteria, generalmente riservate agli estranei. L’uomo energico e volitivo, che aveva dedicato la vita ad accumulare ricchezze, è ora profondamente malinconico e trascorre i giorni dietro l’invetriata a veder strigliare i cavalli e lavare le carrozze nella corte vasta quanto una piazza o a contare le tegole dirimpetto. Amaro lo sguardo nel constatare lo sperpero della sua roba in mano a “quell’orda famelica”. Avverte l’inerte vita dell’aristocrazia ingabbiata in vuoti e falsi cerimoniali “di messa cantata”; vorrebbe tornarsene al paese, ma il desiderio non viene soddisfatto. Anche la volontà di fare testamento, pensando di lasciare qualcosa a Diodata e ai suoi figli naturali, viene bloccata malgrado le sue insistenze come atto di energica volontà. Il padrone di tutto è ormai il genero, ipocrita e ingordo. Anche i dottori lo disprezzano date le origini popolari e l’incomunicabilità si fa sempre più acuta con la figlia che resta indifferente alla sua condizione di moribondo, chiusa nel rancore contro di lui, avendola costretta ad un matrimonio non voluto.

Don Gesualdo finisce la sua vita senza neanche poter vedere la figlia, giacché “il servitore che gli avevano messo a dormire nella stanza accanto” non si cura di ascoltarlo. Anziché assisterlo, si mostra infastidito allorquando viene disturbato nel sonno dai rantoli dell’estrema agonia e solo agli ultimi momenti si alza “furibondo, masticando delle bestemmie e delle parolacce”. Muore dunque solo, lontano da ogni affetto e la servitù, appena fa giorno, si mostra irriverente con frasi distaccate (“Mattinata, eh, don Leopoldo? – E nottata pure!”) o ironicamente feroci (“Si vede com’era nato… Guardate le mani!”). E’ la battuta finale che fa toccare con mano il comportamento irriguardoso, irrisorio dei servi, ostili a uno che ha tradito lo stato sociale di provenienza: “Sicuro, eh! E’ roba di famiglia. Adesso bisogna avvertire la cameriera della signora duchessa”.

Muore Don Gesualdo, e scompare con lui un mondo di fatica operosa: la sua solitudine viene così inghiottita nel buco nero dell’arida fugacità d’ogni cosa. Commenta Luigi Russo: “Mai il Verga aveva toccato, così fondo, nel suo pessimismo”. Fallimentare il bilancio, di cui gli resta il rimorso: della roba “nulla gliene importava ormai”. Malgrado i successi economici, gli è stata avara la vita ed egli stesso s’è reso consapevole del suo errore: quello di aver subordinato il sentimento all’interesse economico. E’ il vuoto ad inghiottire Mastro don Gesualdo; è la solitudine a condannarlo ad una disperata oscurità senza un barlume di luce. Squallido il cinismo dei parenti. Anche nel momento della partecipazione all’evento funebre, tutti manifestano indifferenza, cercando il proprio tornaconto. Qui è l’autentica, sostanziale differenza: l’avaro e grottesco Mazarò, vittima delle sue stesse proprietà, è incapace di una riflessione sui propri vissuti; Gesualdo è sì l’accaparratore, ma è l’uomo – ha scritto Francesco Nicolosi – “assetato di affetti che sconta, con la solitudine e con una delusa volontà di amare, l’errore di avere assunto la roba a supremo valore dell’esistenza”3.

Federico Guastella

Ragusa, 2 marzo 2022

 

Note:

  1. G.Verga, Mastro don Gesualdo, Ediz. critica curata da C. Ricciardi, Firenze, Le Monnier, 1993.
  2. F. Guastella, Una rilettura del Gattopardo, Bonanno, Acireale-Roma, 2021.
  3. Dal vol. Il Mastro-don Gesualdo dalla prima alla seconda redazione, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1967.

 

L’Autore

Federico Guastella, abilitato all’insegnamento di Scienze Umane e Scienze umane e storia, è stato Ragusa dirigente scolastico. Apprezzato saggista, ricercatore scrupoloso ed esigente, autore di testi letterari in prosa e in versi, ha al suo attivo anche contributi di pedagogia e didattica, essendo stato impegnato in corsi di aggiornato per docenti della scuola primaria e dell’infanzia. La sua produzione spazia così dalla saggistica alla narrativa alla poesia. Nell’opera Chiaramonte Gulfi – La mia diceria (Ragusa, 2014) ha proposto un itinerario della memoria individuale e collettiva in un serrato dialogo a più voci tra l’attualità e la storia recente, tra le relazioni dei luoghi dell’anima e dei luoghi della natura e del paesaggio. Il libro Colapesce (Ragusa, 2012), scritto in collaborazione, ha valore pedagogico-educativo, oltre che letterario e demologico. Tra le ultime opere pubblicate dall’editore Bonanno di Acireale-Roma, si ricordano: Andrea Camilleri, Guida alla lettura (2015); Fra terra e cielo. Miscellanea di saggi brevi con Gesualdo Bufalino (2016); Serafino Amabile Guastella. La vita e le opere (2017); Il mito e il velo (2017); Viaggio intorno al libro rosso (2018); Ignazio Buttitta e Danilo Dolci, due profili culturali della Sicilia (2019); Luigi Pirandello. I romanzi, i miti (2020). Degno di nota il volume Una rilettura del Gattopardo (Bonanno 2021). Recentemente ha svolto una ricerca sulla Massoneria in provincia di Ragusa che si è conclusa con la pubblicazione del libro Alle radici della Massoneria Iblea (Bonanno, 2021), preceduto dall’opera Pagine esoteriche (Bonanno, 2017). Ha curato la prefazione di più opere; gli sono stati pubblicati articoli in diverse riviste; è stato premiato in più concorsi per la poesia e annualmente si è classificato al primo posto per i saggi anzidetti di cultura siciliana al concorso città di Favara (AG), indetto dal Centro Culturale “R. Guttuso”. E’ in corso di stampa la sua monografia Sguardo su Sciascia. Studioso di storia locale, attualmente è impegnato nella stesura del volume Il miele dolceamaro degli Iblei. Privilegiando la letteratura dei siciliani, sta altresì lavorando su una monografia dal titolo Sicilia letteraria – Luoghi e volti.