Il miele degli Iblei – di Federico Guastella
Si chiamano “Iblei” i monti che si estendono nella zona sud-orientale della Sicilia, degradando sino al mare. L’aspetto è unico. I continui movimenti orogenetici provocarono la formazione delle suggestive e selvagge “cave”: una sorta di canyon che in ogni senso solcano il tavolato ragusano. Il carrubo, assieme a qualche bagolaro, al fico selvatico e al gelso, è l’emblema floristico più ricorrente. Lo rappresentano in modo magistrale i dipinti di Piero Guccione; nell’immaginario collettivo viene spesso associato alla ragnatela dei muretti a secco che, per favorire le rotazioni agrarie, separano i campi gli uni dagli altri.
Gli Iblei, copiosi di timo e altre piante spontanee, sono pur sempre un richiamo per le api1. Non era sfuggita la loro importanza a Filippo Garofalo che nella seconda metà dell’Ottocento scriveva:
“La coltivazione dei cereali è sì estesa che ha fatto disboscare tutte le terre anche le più aride e sabbiose, le balze più ripide, e manca il timo, il rosmarino, e la copia di altre erbe odorifere la cui abbondanza in queste terre dava prova dell’Ibla in Ragusa (…). L’aere tiepido della nostra marina favoreggia la nutrizione delle api, ed i nostri maggiori vedevano nelle nicchie sepolcrali esistenti in molte rupi volte a mezzogiorno delle nostre valli, dei naturali alveari, dai quali scorreva profluvio di miele (…), e tutta questa visione poetica altro non era che sciami di api avventuriere nidificanti a caso in quelle cellette. Tuttora però non mancano sciami errabondi, non mancano le api stazionarie, e se si avesse cura di non far mancare artificialmente i fiori come il timo e il rosmarino ed altre erbe, si vedrebbe al primiero stato l’abbondanza del miele e della cera”.
In un tempo lontano vi soggiornarono dunque in abbondanza, producendo un soavissimo miele di cui parlarono Virgilio2, Seneca3, Marziale4, Plinio5, ed altri tra cui Ovidio6. Non a caso Virgilio, che ben conosceva la pratica apistica sviluppata al suo tempo, nel IV libro delle Georgiche racconta la leggenda del pastore Aristeo: il mitico eroe libico, figlio di Apollo e di Cirene che aveva appreso dalle ninfe l’arte di allevare le api.
Antica l’arte del melaio, esperto maestro che padroneggiava strumenti e praticava l’apicoltura, avendo ereditato di generazione in generazione conoscenze legate alla terra e alle erbe. Ancora oggi, sia pure in modo alquanto ridotto, viene esercitata malgrado la paventata estinzione dei preziosi insetti.
Le arnie di ferùla7 (i “vasceddi”) con il loro calore accolgono le misteriose api, timorose del freddo. Nomadi i “milari”: trasportavano le loro arnie nei luoghi della fioritura primaverile e chiamavano con un nome specifico le diverse qualità di miele prodotto: “meli ri satra” (miele di timo), “meli ri çiuri” (miele di fiori), “meli ri carrua” (miele di carrubo).
I melari di Chiaramonte Gulfi, pittoresco paese in provincia di Ragusa, dovettero essere in numero cospicuo al punto da avere i loro statuti come risulta dal testo di Corrado Melfi, Barone di San Giovanni, che si intitola “Capitoli della maestranza dei maestri fascellari d’api della città di Chiaramonte del 15 gennaio 1795” (Tip. “Lo Statuto”, Palermo, 1897).
Dopo la pastorizia, era l’industria del miele a produrre un sufficiente sviluppo in un territorio dallo scarso sfruttamento agricolo: perciò, bisognava regolamentare l’attività al fine di dirimere possibili controversie. Furono gli stessi melari ad avvertire il bisogno di specifici regolamenti, si auto-organizzarono e presso un notaio ne fu dato il crisma della legalità con l’obbligo dell’osservanza. Due Consoli, eletti ogni quattro anni nella chiesa di San Giuseppe, erano addetti alla sorveglianza. Dieci i “capitoli” redatti con un linguaggio fluido e chiaro a testimonianza della sapienza di chi ha vissuto con le api.
Si potrebbe dire che dai melari affiora l’etica d’una civiltà fiorente da Ragusa a Siracusa, di cui vanno menzionati i paesi di Melilli8, Solarino, Noto, Avola, Sortino.
Viene in mente l’avvincente brano in cui Vincenzo Consolo, iniziando da Pantalica il suo viaggio per la Sicilia, descrive l’incontro con il sacro depositario di una cultura tramontata e conservata dall’etnologo di Palazzolo Acreide Antonino Uccello9: “E come un re ci apparve il sapiente melaio di Sortino, Giuseppe Blancato, bianco di nome e bianco di capelli, assiso avanti all’uscio della casipola al centro del suo podere, in faccia alle grotticelle di Pantalica. <<Ho vissuto la mia vita con le api. L’ape e l’apicultura sono scienza in sé; conoscendolo bene, questo insetto, affascina. Nel mio ceppo familiare sono stati tutti apicultori, nonni bisnonni avi e bisavi>> ci disse. Ci portò poi a vedere le sue arnie di fèrula, accatastate sotto una tettoia, e ci offrì in una ciotola un pezzo di favo grondante miele. E disse ancora, guardando intorno per il suo podere: <<Qui ogni pietra è un ricordo per gli insegnamenti e la moralità che mi trasmise mio padre>>. Ci parve allora, Blancato, come uno degli ultimi interpreti di una cultura, di una civiltà pressoché tramontata, un sopravvissuto sacerdote di una religione quasi più da nessuno praticata, la religione della tradizione immutabile legata al mito della terra”10
Lievi sensazioni, eventi e persone trascinati dal tempo nell’anonimato tornano a rivivere come d’incanto nel “Museo Ibleo delle Arti e Tradizioni popolari ” S. A. Guastella”11, che si trova a Modica, ubicato al primo piano dell’ex convento dei Padri Mercedari: “Un’architettura del Settecento rimasta incompleta, elegante e sobria nel suo linguaggio tardo-barocco e rococò ad un tempo nel prospetto esteso lungo la collina di Monserrato”12.
Hanno valenze arcane i vari ambienti che fanno emergere i valori del territorio: sono risorsa e identità, espressione materica che viene da lontano. E qui il fruitore affonda le radici nella propria terra e in essa avvia e sviluppa la propria opera di rivisitazione. Spazi di vita potremmo definire i luoghi del percorso il cui punto di partenza è dato dalla “Masseria” (massaría): un microcosmo semiologico connotato dalla presenza del carretto siciliano e dei muretti a secco (mura a siccu), dal baglio (bagghiu) e dalla casa contadina coi diversi vani: casa ri mannara (cucina rustica), casa ri stari (casa da abitare), stanza ro travagghiu (stanza per la tessitura), stadda (stalla). Chiara l’osmosi tra società contadina e paesana. E sono le botteghe artigiane, allestite ai lati del corridoio, a indicarne l’interdipendenza. Non poteva mancare quella del milaru (apicoltore). Scorrendo con lo sguardo, ecco l’affresco animato dagli attrezzi di lavoro e dalla materia prima per costruire il vascieddu ri ferra (arnia in ferula). C’è il “torchio a vite di legno” per la spremitura dei favi da cui si ottiene il biondo miele e ci sono le ghiarre di creta (giarre), in cui viene conservato per la fragrante cucina dei pasticcieri. Tutto qui sorprende fino al termine del ciclo di lavorazione che può dirsi compiuto quando si ottiene la cera per essere poi lavorata dai cirari. Sciami di api dunque nelle verdeggianti valli dei rocciosi Iblei, lievi ronzii propiziatori fra teneri germogli, fiori spontanei e papaveri rossi che fanno vivere il contatto generoso con la terra e l’aria. Non ci vorrà molta istruzione per ripensare alle tante famiglie che per secoli hanno fatto storia: quella della cultura materiale quale sintesi di esperienza e passione. Gesualdo Bufalino ha scritto: “Storia non è solo quella conservata negli annali del sangue e della forza; bensì quella legata al luogo, all’ambiente fisico e umano in cui ciascuno di noi è stato educato. Storia è il gesto con cui si intride il pane nella madia o si falcia il grano; storia è un nomignolo fulmineo, un proverbio cattivante, l’inflessione d’una voce, la sagoma d’una tegola, il ritornello d’una canzone; tutto ciò, infine, che reca lo stemma del lavoro e della fantasia dell’uomo. Materia che deperisce prima d’ogni altra cosa e di cui nessuno, quasi, si cura di custodire i reperti”13.
Un brano del Mastro-don Gesualdo dà indicazioni su un costume del tutto singolare: “La sala stessa era parata a lutto, qual era rimasta dopo la morte di don Diego, coi ritratti velati e gli alveari coperti di drappo nero torno torno per i parenti venuti al funerale, com’era l’uso nelle famiglie antiche”. L’evento luttuoso era coinciso nella stessa casa, quella dei Trao nobili decaduti, con la nascita di Isabellina: “nella camera di Bianca udivasi un gran trambusto (…); poscia un urlo fece trasalire tutti quanti”. In seguito, il battesimo.
Consolo ha commentato: “Ecco allora che il nero luttuoso dei drappi trascolora nel bianco della vesticciola battesimale, ecco che la morte è vinta dalla vita; e gli alveari, disposti torno torno nella sala come scanni – usanza arrivata nel cuore della Sicilia con gli Spagnoli – simboleggiano questo passaggio, questa metamorfosi, questa vittoria; simboleggiano con l’immagine della “ninfa” o “pupa” (…) la vita che dal buio della cella viene alla luce”.
L’ape, specifica il raffinato scrittore siciliano nell’opera Di qua dal faro14, è “sapiente” e “generosa”: “per noi raccoglie l’energia del mondo e la ridona in vischio saporoso e inebriante”. ll suo miele, “cibo primigenio e incorrotto”, rigenera; è “la divina ambrosia”.
Federico Guastella
Ragusa, 20 aprile 2022
Note
- Per l’approfondimento: S. Burgaretta, Api e miele in Sicilia, Edizioni del museo etnoantropologico della valle del Belice, Gibellina, 1982.
- Da un lato la siepe sul vicino confino di sempre / delibata dalle api iblee nel fiore del salice, / spesso con lieve sussurro ti concilierà il sonno: Bucolica I, Milano 1978, vv. 53-55.
- Né tanti fiori fa nascere l’Ibla in piena / primavera, quando gli sciami s’intrecciano / fitti in alti grappoli: Edipo Re, atto III, vv. 93-94.
- Ibla fiorito si dipinge di vari colori, / quando in primavera è invaso dalle api: Epigrammi, libro II, vv. 1-2.
- E’ sempre l’ottimo miele quello / che le api producono dai calici / dei fiori migliori. Tale è … Ibla: Storia naturale, libro IX, cap. XIII
- Quante sono le lepri del monte Athos / e quante le api che vivono sull’Ibla: Arte d’amare, libro II, vv. 517-518.
- Pianta leggera e porosa, spontanea delle ombrellifere: ha il fusto alto fino a due metri circa, i fiori gialli ad ombrello ed è diffusa in luoghi incolti e nei dirupi. Raccolta a maggio, viene lasciata ad essiccare fino alla stagione invernale per essere manipolata e costruita.
- Sulla facciata del santuario di San Sebastiano si osserva il medaglione in pietra dove sono scolpite arnie e api. Sullo stemma di Melilli (“mel”) o Avola (“apicula”) compare l’ape. E ad Avola antica la produzione di miele era, al pari della canna da zucchero, una delle più redditizie attività del ‘600 -‘700. Nello stemma avolese la presenza di tre api è la testimonianza più evidente della diffusione dell’apicoltura.
- F. Guastella, Il territorio dei padri, “La provincia di Ragusa”, Anno VII, n. 6, dicembre 1992.
- V. Consolo (fotografie di G. Leone), La Sicilia passeggiata, Mimesis edizioni, Milano, 2021.
- G. Dormiente, Il museo ibleo delle arti e tradizioni popolari <<S. A. Guastella> (a cura di Gabriella D’Agostino e Janne Viback con l’introduzione di R. Galazzo e disegni di Duccio Belgiorno), S. T. ASS. s.r.l., Palermo, 1986
- P. Nifosì, Museo vivo, “La Provincia di Ragusa”, Anno III, n. 6, dicembre 1988.
- G. Bufalino, Museo d’ombre, Palermo, Sellerio, 1982.
- V. Consolo, Di qua dal Faro, Mondadori, Milano, 1999.
L’Autore
Federico Guastella, abilitato all’insegnamento di Scienze Umane e Scienze umane e storia, è stato Ragusa dirigente scolastico. Apprezzato saggista, ricercatore scrupoloso ed esigente, autore di testi letterari in prosa e in versi, ha al suo attivo anche contributi di pedagogia e didattica, essendo stato impegnato in corsi di aggiornato per docenti della scuola primaria e dell’infanzia. La sua produzione spazia così dalla saggistica alla narrativa alla poesia. Nell’opera Chiaramonte Gulfi – La mia diceria (Ragusa, 2014) ha proposto un itinerario della memoria individuale e collettiva in un serrato dialogo a più voci tra l’attualità e la storia recente, tra le relazioni dei luoghi dell’anima e dei luoghi della natura e del paesaggio. Il libro Colapesce (Ragusa, 2012), scritto in collaborazione, ha valore pedagogico-educativo, oltre che letterario e demologico. Tra le ultime opere pubblicate dall’editore Bonanno di Acireale-Roma, si ricordano: Andrea Camilleri, Guida alla lettura (2015); Fra terra e cielo. Miscellanea di saggi brevi con Gesualdo Bufalino (2016); Serafino Amabile Guastella. La vita e le opere (2017); Il mito e il velo (2017); Viaggio intorno al libro rosso (2018); Ignazio Buttitta e Danilo Dolci, due profili culturali della Sicilia (2019); Luigi Pirandello. I romanzi, i miti (2020). Degno di nota il volume Una rilettura del Gattopardo (Bonanno 2021). Recentemente ha svolto una ricerca sulla Massoneria in provincia di Ragusa che si è conclusa con la pubblicazione del libro Alle radici della Massoneria Iblea (Bonanno, 2021), preceduto dall’opera Pagine esoteriche (Bonanno, 2017). Ha curato la prefazione di più opere; gli sono stati pubblicati articoli in diverse riviste; è stato premiato in più concorsi per la poesia e annualmente si è classificato al primo posto per i saggi anzidetti di cultura siciliana al concorso città di Favara (AG), indetto dal Centro Culturale “R. Guttuso”. E’ in corso di stampa la sua monografia Sguardo su Sciascia. Studioso di storia locale, attualmente è impegnato nella stesura del volume Il miele dolceamaro degli Iblei. Privilegiando la letteratura dei siciliani, sta altresì lavorando su una monografia dal titolo Sicilia letteraria – Luoghi e volti.