Visitando Ragusa – di Federico Guastella

 

Ragusa Ibla – foto di Pippo Palazzolo

“Certamente poche persone che stanno camminando sulle più lisce strade di Londra o Parigi conoscono che molto dell’asfalto con cui queste strade sono pavimentate proviene dalla classica terra di Sicilia, ricavato dalla montagna di Ragusa, una città nel Sud di quell’isola. (…) Certamente Ragusa è un luogo da visitare. Se un viaggiatore prende riposo in una dolce sera primaverile su qualche sperone di roccia o in qualche piazza in miniatura, testimonierà una scena che non può dimenticare e che indugerà a luogo e piacevolmente nella sua memoria. Il sole calante, striando l’orizzonte ad occidente con il porporino, il colore oro e cremisino; e talmente luminoso con splendore è il cielo che gli occhi tornano con sollievo  alla foschia del rosato violetto che ciondola intorno alle valli più lontane. La liscia e grigia roccia delle montagne ripete il violetto colore. In lontananza il mare è un fuoco liquefatto”.

Il brano, desunto da Studi Siciliani (pubblicato la prima volta nel 19151), è di Alexander Nelson Hood (1854-1937), duca di Bronte e pronipote del noto ammiraglio Lord Orazio Nelson, che a Ragusa ha dedicato un capitoletto del suo itinerario in Sicilia. Gaetano Cosentini, curatore della presentazione, ha puntualizzato: “Lo studio della nostra terra fu condotto in modo elegante e non trascurò alcun particolare, anzi profondendosi in ricerche precise come nel caso di Ragusa: non sono momenti letterari ma osservazioni sul preciso andamento della vita sociale e culturale anche nel suo hinterland, come gli spunti su Chiaramonte Gulfi. Sono molto significative le note sul carnevale nel ragusano e sugli usi gastronomici relativi, mentre non mancano le spigolature da Serafino A. Guastella”. 

Il visitatore, già vissuto dal 1870 per lunghi periodi a Taormina nella sua “villa Falconara”, si è documentato in modo scrupoloso prima di arrivarvi; ha letto le notizie che riporta mescolandole alle sue osservazioni e sensazioni e a spiccare è la nota paesaggistica coi colori splendidi della natura e dal gusto bozzettistico.

Sono le pagine sull’asfalto a richiamare l’attenzione. La sua curiosità è alimentata dal mito quando, parlando delle caverne scavate nella roccia, ripensa alle divinità del mondo degli inferi e richiama la vicenda di Persefone; l’immaginazione gli fa incontrare Demetra mentre a lui appare “un veritiero figlio di Efesto” “nelle sue cave di pietra nera”.

Largo San Paolo, Ragusa Ibla – foto di Pippo Palazzolo

Dalla realtà al mito, e viceversa, l’andamento descrittivo si snoda dunque partendo dallo stupore. Era il tempo dell’estrazione della pietra asfaltica da quelle oscure bocche sui fianchi delle colline con un durissimo lavoro che sembra essergli sfuggito.

Sul finire degli anni Cinquanta, il vicentino Guido Piovene rimane suggestionato dal paesaggio roccioso così simile a quello della Terrasanta. Gli sembrava un presepio la città in altura chiusa tra valli scoscese. Il raffinato scrittore ha trovato parole così appropriate che rendono l’idea di un barocco dal riflesso d’Oriente: un respiro, una breve fuga nel capriccioso. Ed eccoci ad un’altra particolarità di quest’angolo di Sicilia più a sud di Tunisi: la pasticceria che offre gusti ai palati più raffinati: “Mi incantai a guardare una pasticceria, la più bella della Sicilia. Quei dolci coloriti, pingui, nutritivi, cassate d’ogni qualità, conchiglie di pistacchio, cavolfiori di crema, fanno parte del bel barocco siciliano. Alcuni nomi ricordano eventi guerrieri. I cavolfiori gonfi si chiamano teste di turco, e procurano facili vittorie sugli infedeli”. Non solamente si lascia sedurre dai tratti pastorali degli Iblei, dalla civiltà della pietra espressa nei muretti a secco o  dalle scenografiche valli. Il suo sguardo accoglie i mutamenti: dalle miniere d’asfalto ai giacimenti petroliferi. E fa un discorso sulle delusioni dei ragusani senza però trascurare la nota di costume di una comunità in transizione: “Certo il petrolio ha portato una scossa, più ancora che all’economia, agli animi ed al costume”. 

Ragusa – Miniere di asfalto (1937) foto www.fondoluce.archivioluce.com

Anche Sciascia, facendo più di vent’anni dopo il suo ingresso nella provincia di Ragusa, esprimeva una predilezione per l’attività dolciaria. Nel suo saggio La Contea di Modica (1983), per restare alla gola, elogiava il cioccolato di Modica assimilato a quello spagnolo di Alicante. E ricordava quei dolci, nel modicano  chiamati ‘Mpanatigghi, “fatti di pasta sottilissima e fragile a contenere un sapiente impasto di carne e cioccolato principalmente”. 

Ragusa – ‘A timpa ro nannu, illuminata dall’artista Franco Cilia.

Felice l’intuizione di Piovene sul panorama che nell’ampiezza della Cava San Leonardo si può osservare dal belvedere della rotonda “Maria Occhipinti”, in fondo a via Roma: gli richiamava la Palestina la nostra terra di quiete e di rocce, del mito di Dafni2 e delle favole, oltre che della storia. A destra dello spettatore si arrampica sul colle l’impareggiabile Ibla dove regna il Duomo di San Giorgio; alla sinistra, dalle pareti macchiate di carrubi e arbusti aromatici spicca a mo’ di sfinge ‘A timpa Ro nannu (“la roccia del nonno”, così chiamata dagli antichi che tramandavano una bizzarra leggenda di tesori nascosti): un monolito pietroso di colore rossiccio, una tessitura in  verticale della materia lavorata dal vento e dalle piogge come ad esprimere il vitale archetipo del femminile (Timpa) nel suo farsi di generazione in generazione (Nannu). Di pulsante energia si mostra in faccia alla città, testimone pressoché monumentale d’una civiltà fluviale tramontata. Nel 1976 la illuminò il noto artista-pittore Franco Cilia e lungo le pareti pose delle vedette che sarebbero piaciute al Pirandello dell’opera teatrale I giganti della montagna: “Le silhouettes, concepite da Franco Cilia e collocate in modo da essere mimetizzate di giorno e risplendere di notte, diventano fuochi virtuali di fantasmatiche teorie di entità telluriche, coordinate di luoghi, destinati a svanire all’alba, icone dell’inquietudine onirica, sentinelle di uno spazio sacro inviolabile, vedette dell’isola di luce abitata dalla Timpa ro nannu”3.

Ragusa – Balcone barocco,  foto di Pippo Palazzolo.

Spettacolare appariva ai nuovi turisti il paesaggio ibleo offerto dalla bellezza aurea del barocco, grazie all’opera di abili intagliatori che avevano amato la tenerezza della pietra per plasmarla con la fantasia nella musicalità di volute, di spirali, di forme placide e gioconde. La finezza di un arcano gioco di prestigio, faticoso e sudato, sta proprio in questo: nell’aver dato “libero corso al molteplice linguaggio della materia”. Dopo Bernard Berenson, Anthony Frederick Blunt, effettuando nel 1965 un viaggio in Sicilia, arrivò a Ragusa. Le sue osservazioni manifestano una dettagliata attenzione verso un ricco patrimonio artistico: la chiesa di San Giorgio a Ragusa Ibla e quella di Modica dedicata allo stesso santo. La prima è documentata come opera del Gagliardi, architetto della città di Noto e dell’intero Val di Noto; la seconda o dello stesso Gagliardi o di un collaboratore. Ecco un frammento che rende il senso e la magia del luogo: 

Duomo di San Giorgio – Ragusa Ibla – foto tratta dal Wikimedia Commons

“In entrambe l’architetto fa un uso brillante della località prescelta per disporre di fronte ad essa un’ampia scalinata, che a Ragusa scende verso una piazza leggermente di sbieco rispetto all’asse della chiesa, mentre a Modica si snoda giù per il declivio con duecentocinquanta gradini fino a raggiungere la strada sottostante (…) in entrambi i casi il disegno tende con spinta ascensionale verso il culmine della torre campanaria che svetta dal corpo centrale e conferisce un vigoroso accento curvilineo all’intero impianto”4.  

D’ora in poi il barocco, rimasto estraneo al Grand Tour sette-ottocentesco, offrirà una visione complementare al territorio rurale delle masserie e dei muri a secco che chiudono spazi, aprendone altri.  

Ragusa – Masseria e muri a secco – foto di Pippo Palazzolo

 Di Dominique Fernandez, romanziere e saggista che in diverse opere ha offerto un cospicuo contributo alla conoscenza della cultura siciliana, vogliamo ricordare Le radeau de la Gorgone (1988 con fotografie di Ferrante Ferranti); Palerme et la Sicilie (1988), dove egli compie inusitati scavi semantici per cogliere rarefatte atmosfere del tempo trascorso. Giungendo a  Ragusa, la percepisce come “una delle più interessanti città della Sicilia”: anche “una delle più protette”. Da colto viaggiatore francese, si sofferma sugli angoli espressi dai valenti artigiani della pietra. 

Sono le descrizioni del Circolo di conversazione di Ibla e del cosiddetto Castello di Donnafugata a destare maggiore interesse. Non lascia indifferenti la densità delle metafore utilizzate: 

“La particolarità di questo circolo, creato in linea di principio per la conversazione, è che sembra destinato piuttosto al silenzio e alla cupa rimuginazione. I posti sono così distanti uno dall’altro che si stenterebbe a sentire, anche se l’atmosfera funebre non inducesse ad un rispettoso mutismo o ad un ovattato torpore. Il centro del salone è vuoto. Ci si va per leggere il giornale, giocare a carte in una saletta adiacente, bere un caffè da soli al bar o vedersi riflessi all’infinito, dal fondo di uno dei canapè, attraverso il gioco degli specchi: odiosa moltiplicazione di un Io che ciascuno porta in Sicilia come una punizione”.

Potrebbero sembrare esagerate le sue osservazioni nate occasionalmente secondo l’ottica psicologica del grottesco. Eppure non può ignorarsi che i circoli, di matrice illuministica, si diffusero in Sicilia nell’Ottocento per promuovere la cultura delle “buone maniere”. Anche per discutere di interessi economici e di politica, tant’è che furono strettamente sorvegliati dalla polizia borbonica. 

Si sa: Perseo aveva donato la sua testa alla dea Atena che la fissò al centro del proprio scudo per terrorizzare i nemici. Ma lo sguardo della Gorgone stavolta non è terrificante perché col suo giornale di viaggio Dominique vuole incantare. Accattivante stavolta, e distante dai precedenti toni un po’ sprezzanti, la narrazione del percorso, visitando la Donnafugata di Corrado Arezzo. 

Il paesaggio è di scena e intorno alla vegetazione si eleva “una mole massiccia”: 

Il Castello di Donnafugata – immagine tratta da Wikipedia

Il “castello”, com’è chiamato enfaticamente a Ragusa, possiede proporzioni monumentali e una severa maestosità addolcite da un fregio di merli (…). Quanto al parco, nulla ne altera la sovrana bellezza (… vi si scorge) il famoso labirinto, costruito su mezzo ettaro, non con cespugli, ma in pietra, con muri alti due metri che impediscono di orizzontarsi. Alcuni viali finiscono in un vicolo cieco; si ritorna sui propri passi senza saperlo; si riparte; ci si perde; si incrociano altri visitatori smarriti. Impossibile ritrovare l’uscita (…).

Labirinto del Castello di Donnafugata – immagine tratta da www.castellodonnafugata.org

Perché questo fantasma di meandri in pieno bagliore solare? Al centro del dedalo non c’è nulla da vedere; questo labirinto non conduce in nessuna parte. Dà forma al vuoto, esalta il niente. Una buona occasione per ricordarsi che i siciliani, e non solo il principe di Lampedusa, guardano al progresso con un occhio più che scettico. Per essi, niente cambia mai. La storia si avvolge su sé stessa, facendo e disfacendo i registri politici con l’indifferenza della natura, ingannando gli uomini con la promessa di magnifici ideali che gli impedisce di realizzare. Labirinto metaforico, di cui questo è l’ipostasi, successione di false speranze che sfociano in inevitabili delusioni.

In città non gli sfuggono le allegorie dei mascheroni: i tre di palazzo Bertini, espressione del potere: 

Ragusa – Balcone barocco di Palazzo Cosentini – foto tratta da Wikipedia

“Il mascherone di destra porta turbante e baffi: rappresenterebbe il commercio, sicuro di sé, senza paura, forte del denaro e del buon andamento degli affari. Quello di mezzo porta il pizzo, sguardo fisso e lontano, alterigia e boria dell’aristocratico, rappresenterebbe il potere che si fa beffe della legge. Quello di sinistra col viso deforme, il naso smisurato, la bocca sdentata, la lingua pendula, rappresenterebbe il contadino, che finisce per averla vinta sugli altri due: il villano, sprovvisto di tutto, per il solo fatto di non avere nulla da perdere, possiede una forza superiore a quella del nobile e del ricco.”

Comunque stiano le cose, dinanzi a questi sassi plautini sorprende la stravaganza barocca nella continua dialettica tra materia e immaginazione. E vengono in mente le bizzarrie di villa Palagonia a Bagheria o le mirabilia di Bomarzo.

Cromie alla cava di asfalto – foto di Silvana Licciardello

E’ la stessa pietra metamorfica che a Francesco Lanza, l’autore dei “Mimi” amato da Leonardo Sciascia, fa assumere atteggiamenti e toni visionari che si mostrano nel contrasto tra il buio e la solarità. Gli capitò infatti di vedere all’ingresso delle miniere di asfalto “Una fanciulla (…) slanciata come uno stelo, bruna, dagli occhi ardenti e colmi, le labbra tumide e sanguigne: perfettamente intonate a questo paesaggio appassionato e severo. Non le manca che un fiorellino in mano, una fronda d’ulivo, una palma per essere così moderna e viva”.   

Questo l’apprezzamento più autentico e più siciliano che si può fare: la bellezza come meta esistenziale. A dirla con Jung, essa richiede occhi nuovi capaci di vederla. Anche un cuore nuovo capace di desiderarla, e ciò lo scrittore di Valguarnera l’aveva compreso.

Federico Guastella

Ragusa, 29 maggio 2022

 

Note:

  1.  A. N. Hood, Studi Siciliani, Rotary International Distretto 2110 Sicilia e Malta Club di Ragusa Anno 2006-2007, Elle Due srl – Ragusa.
  2. F. Guastella, Chiaramonte Gulfi. La mia diceria, tip. Pennacchio, Ragusa, 2014.
  3. S. Stella, in Franco Cilia, ‘A TIMPA RO NANNU, L’opera rivelata, a cura del Comune di Ragusa (in PDF).    
  4. Sulle due facciate oggi sappiamo di più leggendo le seguenti opere: Paolo Nifosì-Giovanni Morana, La chiesa di San Giorgio di Modica (1996); Paolo Nifosì, Modica arte e architettura, (2015). La facciata di San Giorgio di Modica comincia ad essere costruita su progetto di Francesco Paolo Labisi nel 1761. I lavori del primo ordine risultano conclusi nei primi anni ottanta del Settecento e riprenderanno cinquant’anni dopo, negli anni trenta dell’Ottocento, per il secondo e il terzo ordine su progetto probabile di Carmelo Cultraro: saranno terminati nel 1848. Per la facciata ci sarà un cantiere aperto in più fasi per ben 85-novant’anni circa. Senza alcun dubbio il rimando della facciata a quella del San Giorgio a Ragusa Ibla, ma stilisticamente si registra il passaggio da un tardobarocco di quella di Ragusa ad un rococò dell’altra di Modica. 

L’Autore.

Federico Guastella

Federico Guastella, abilitato all’insegnamento di Scienze Umane e Scienze umane e storia, è stato Ragusa dirigente scolastico. Apprezzato saggista, ricercatore scrupoloso ed esigente, autore di testi letterari in prosa e in versi, ha al suo attivo anche contributi di pedagogia e didattica, essendo stato impegnato in corsi di aggiornato per docenti della scuola primaria e dell’infanzia. La sua produzione spazia così dalla saggistica alla narrativa alla poesia. Nell’opera Chiaramonte Gulfi – La mia diceria (Ragusa, 2014) ha proposto un itinerario della memoria individuale e collettiva in un serrato dialogo a più voci tra l’attualità e la storia recente, tra le relazioni dei luoghi dell’anima e dei luoghi della natura e del paesaggio. Il libro Colapesce (Ragusa, 2012), scritto in collaborazione, ha valore pedagogico-educativo, oltre che letterario e demologico. Tra le ultime opere pubblicate dall’editore Bonanno di Acireale-Roma, si ricordano: Andrea Camilleri, Guida alla lettura (2015); Fra terra e cielo. Miscellanea di saggi brevi con Gesualdo Bufalino (2016); Serafino Amabile Guastella. La vita e le opere (2017); Il mito e il velo (2017); Viaggio intorno al libro rosso (2018); Ignazio Buttitta e Danilo Dolci, due profili culturali della Sicilia (2019); Luigi Pirandello. I romanzi, i miti (2020). Degno di nota il volume Una rilettura del Gattopardo (Bonanno 2021). Recentemente ha svolto una ricerca sulla Massoneria in provincia di Ragusa che si è conclusa con la pubblicazione del libro Alle radici della Massoneria Iblea (Bonanno, 2021), preceduto dall’opera Pagine esoteriche (Bonanno, 2017). Ha curato la prefazione di più opere; gli sono stati pubblicati articoli in diverse riviste; è stato premiato in più concorsi per la poesia e annualmente si è classificato al primo posto per i saggi anzidetti di cultura siciliana al concorso città di Favara (AG), indetto dal Centro Culturale “R. Guttuso”. E’ in corso di stampa la sua monografia Sguardo su Sciascia. Studioso di storia locale, attualmente è impegnato nella stesura del volume Il miele dolceamaro degli Iblei. Privilegiando la letteratura dei siciliani, sta altresì lavorando su una monografia dal titolo Sicilia letteraria – Luoghi e volti.

Alla scoperta di Cava d’Ispica – di Federico Guastella

Ricca simbologia quella della roccia, così magistralmente evidenziata da Mircea Eliade: “La sua resistenza, la sua inerzia, le sue proporzioni, come i suoi strani contorni, non sono umani: attestano una presenza che abbaglia, atterrisce e minaccia. Nella sua grandezza e nella suan durezza, nella sua forma e nel suo colore, l’uomo incontra una forma e una realtà appartenenti ad un mondo diverso da quel mondo profano cui fa parte”1. 

Tomba della necropoli di Calicantone, Cava d’Ispica – foto tratta da www.it.wikipedia.org

L’utilizzo della roccia a sepolcreto nel periodo preistorico è un dato costante. Difatti il segno incisivo, il connotato peculiare dell’area iblea è fornito da grotticelle artificiali funerarie che aprono le pareti dei declivi rocciosi. Anche l’ipogeo rispondeva a tali esigenze. A Ragusa, in contrada Calaforno del Comune di Monterosso Almo, il ritrovamento di un ipogeo, rudimentale e inornato, fa pensare a quello maltese di Hal Saflieni ed è un documento dell’attività mineraria di selce, oltre che funeraria. 

Diciamo appena che le fasi – bronzo antico, medio, tardo, finale – vanno dal 2200 all’850 a.C. con l’insediamento prolungatosi fino alla colonizzazione greca intorno al 730 a.C. Probabile che la popolazione fosse distribuita in varie borgate e quasi sicuramente le grotte, vicine le une alle altre, furono utilizzate come abitazione da famiglie dedite alla lavorazione dei campi (“aratores”). 

Uno dei luoghi certamente più noti è “Cava d’Ispica” (il termine “Cava” è da intendersi non come luogo di estrazione, ma come fondovalle). 

Panoramica di Cava d’Ispica – foto di Antonino Lauretta, tratta da www.cavadispica.org 

Insieme a “Pantalica” rappresenta la forma culturale più significativa. Holm la chiamò “La città delle caverne” ed è situata lungo i costoni meridionali dei monti Iblei, a pochi chilometri da Modica e fino alle porte di Ispica2. Grazie alle esplorazioni di Paolo Orsi, avviate nel 1905, è stato possibile conoscerne il percorso di sepolture, ipogei, chiesette. La valle, che ha l’aspetto di canyon, lunga quasi tredici chilometri, larga un centinaio di metri e profonda in qualche suo punto fino a trenta e più metri, riporta a comunità chiuse da un territorio inaccessibile e facile alla difesa da attacchi esterni.

Grotta di Cava d’Ispica – foto di Antonino Lauretta, tratta da www.cavadispica.org

Meta di escursioni e gite scolastiche, Gesualdo Bufalino nell’opera La luce e il lutto ha scritto: “E’ una valle lunga e magra, un termitaio di grotte, loculi, sacelli, che le meteore e gli uomini hanno misteriosamente scavato nei secoli (…). Dopo poche centinaia di metri, senza bisogno di spingervi oltre, vi sentirete già promossi a catecumeni di un felice e verde Aldilà. Senza le verghe, le catene, i lamenti di lemuri, i flosci voli di pipistrelli che accompagnano di norma le trasferte sottoterra di ogni Orfeo, Enea, Vasd’elezione”3.

Non meno accattivante la descrizione dello storico Solarino:

“Ispica è una valle lunga quasi otto miglia, che con varia curvatura si frappone fra Modica e Spaccaforno. In fondo, il piccolo Busaidone qua dorme in piccoli stagni, sotto le tremule foglie del capelvenere, là si risolve in cascatelle: le roccie in certi punti s’avvicinano, e si guardano come i fabbricati che fiancheggiano una via, in certi altri s’allargano e si ripiegano, dando più aria e più luce agli acanti latifolî, agli oleandri e ai carrubi, le cui radici si insinuano fra le loro fenditure. Ma i fianchi di quelle rupi son tutti perforati da innumerevoli grotte, a piani sovrapposti, con sottili spartimenti, con incomodo accesso, e senza alcuno abbellimento nell’interno. Verso l’estremità nord-est se ne trovano più ampie, e più comode, fornite di scale, comunicanti tra loro con qualche corridoio, divise in appartamenti”4.

Toma a finti pilastri, Cava d’Ispica – foto tratta da www.it.wikipedia.org

Vi si insediarono i Sicani (autoctoni o di origine iberica5) che, secondo Solarino, le diedero il nome d’Ispica, la cui radice probabilmente deriva dal celtico ys (“Gli asili della rupe, ovvero la rupe degli asili”: “… Lo si tradusse poi pleonasticamente nel latino Ispicae-fundum, che fra i moderni divenne Spaccaforno”). 

Ai Sicani si sovrapposero i Siculi che arrivarono in Sicilia intorno al 740 a. C.: Sikeloi chiamati dai Greci, di probabile origine egeo-anatolica o africana oppure peninsulare per altri studiosi secondo le fonti di Tucidide, dello storico Dionigi di Alicarnasso, di Diodoro Siculo6. La loro presenza, oltre a Cava d’Ispica, si diffuse in buona parte del territorio, scegliendo pur sempre luoghi imprendibili dell’entroterra per il timore di scorrerie provenienti dal mare: a Ibla e a Canicarao, a Castiglione e a Cava dei Servi, a Chiaramonte, Giarratana, monte Casasia, Modica. 

Raffaele Solarino su una presunta diversità culturale tra l’una e l’altra popolazione ha scritto: “Guarentita da maggior stabilità, e da un nerbo di forze più significante, l’industria agricola cominciò, nell’isola, al tempo dei Siculi, il suo progresso, e deve riferirsi a costoro la leggenda di Cerere, quella di Aristeo, e quella del sangue di Urano, da cui proveniva la fertilità della Sicilia. Come il periodo ciclopico e sicano è rappresentato dal mito di Polifemo, così il periodo siculo viene rappresentato dal mito di Dafni: nell’uno la forza bruta, e selvaggia, che si divertiva a lanciare sassi a’ piè dell’Etna, nell’altro la vita quieta e pastorale, allietata da’ miti amori e dall’arte del canto”7.

Grotte di Cava d’Ispica – foto di Antonino Lauretta, tratta da www.cavadispica.org

Coraggiosi guerrieri e valenti agricoltori i Siculi che introdussero l’uso del cavallo e del rame. Dotati di propri costumi, coltivavano il grano e la vite; oltre all’uso della ceramica e della metallurgia, scavavano le ripide pareti rocciose di calcare tenero, allora raggiungibili per mezzo di corde, di scale, di liane, allo scopo di ottenere tombe a forno destinate ai defunti. E vi ponevano accanto oggetti d’uso quotidiano come armi, anfore, cibi in memoria della vita trascorsa o per un’eventuale credenza nell’anima immortale. 

Ambiente interno del Castello sicano, Cava d’Ispica – foto tratta da www.it.wikipedia.org

Ad affiorare è una immagine di sofferta materialità, fra sopravvivenza e cerimonie funebri, che suggestionò Jaen Laurent Houël, viaggiatore francese del Settecento cui si devono preziose acqueforti sul luogo, riportate nell’opera Le voyage pittoresque de Naples et de Sicile8. Attraversando tortuosi sentieri che conducono alla parte mediana della valle, si incontra, ai piedi di una colonna rocciosa, il cosiddetto “castello”: un bubbone litico dalla geometria miocenica, costituito da almeno quattro ambienti intercomunicanti, che sembra voler governare sulle grotte. Di origine sicana per alcuni studiosi, e lì probabilmente alloggiava il sovrano; descritto dall’Holm, è chiamato “Castello d’Ispica” (u castieddu  rispica), maestoso “tra le montuose grandiosità di quel sito orrendamente bello”9. 

Nel periodo bizantino il luogo costituì un’ancora di salvezza per gli esuli siracusani e per gli anacoreti che vi si fermarono. Affreschi religiosi sono sparsi un po’ dovunque: segni di una tradizione che parla di Ilarione, il santo palestinese di indole tenace che nel 363 d.C., provenendo dall’Egitto approdò a Capo Pachino in “un villaggio del lido ricurvo” e si rifugiò all’interno a venti miglia dal mare, nella Cava, secondo le interpretazioni date allo scritto di San Girolamo, Dottore e Padre della Chiesa, confermate dalla tradizione locale attestata da Vito Amico: “E’ detto da S. Girolamo (Vita Ilarionis) che Ilarione si ritirò in un agellus vicino vicino ad una villa non lontano da una via di transito, coltivando un appezzamento di terreno vicino l’eremo”10. Vi dimorò per due anni, recandosi spesso nel villaggio vicino al mare, detto Ina o Ispa. E anche gli abitanti andavano a trovarlo per essere miracolati.    

In una grotta, dove si svolgeva il suo culto, si è voluta identificare la sua abitazione (una nicchia sul muro forse per deporvi il lumicino ad olio). Forse nei pressi dovette vivere una modesta comunità religiosa. 

Cava d’Ispica, Convento dei Padri Carmelitani – foto tratta www.cavadispica.org

Del processo di bisantizzazione11, il periodo del Monachesimo, che invase ogni angolo della Sicilia dando vita a comunità di religiosi, fu certamente il miglior lascito: “Nella Cava d’Ispica, che bene si prestava all’isolamento ascetico, sorsero più comunità religiose che passavano il tempo ad allargare, modificare, ampliare gli antichi insediamenti rupestri, ricavando dalla viva roccia veri e propri conventi di molte stanze, a più piani, collegati mediante ardite scale a chiocciola e corridoi di collegamento”12. 

La chiesa più nota è quella dedicata a San Pancrati, che si trova fuori della Valle: per gli studiosi dovrebbe essere mantenuta la cronologia del VI secolo, periodo di intensa attività edilizia in in Sicilia. E il culto si riferiva a san Pancrazio, presenza documentata nell’epistolario di Papa Gregorio Magno (509-604). La tradizione lo ricorda come siciliano; per alcuni invece nacque a Simada in Cappadocia e per qualche tempo fu ospite dei fedeli di Cava d’Ispica. Sempre che sia stato lo stesso, nel 304 fu a Roma durante le persecuzioni cristiane e lì morì martire. Soltanto i resti rimangono della chiesa. Devastata dagli arabi e poi riedificata, venne quasi del tutto distrutta dal terremoto del 1693.  

L’ambiente, ricco di vegetazione, ha importanti testimonianze: la “Grotta dei Santi” (‘a rutta re Santi), perfettamente circolare e affrescata da 36 figure bizantine che hanno subito devastazioni e incuria; il convento rupestre di Sant’Alessandra; la grotta di San Nicola coi resti dell’altare, del fonte battesimale, degli affreschi della Madonna col bambino, dell’Annunciazione e del San Nicolò. 

Grotta della Larderia, Cava d’Ispica – foto tratta da www.wikipedia.it

Cava d’Ispica è anche ricettacolo d’un pianeta sotterraneo fatto di nicchie, di sepolcri a baldacchino e di corridoi. E’ la “larderia” (potrebbe significare “canale di acqua”), imponente ipogeo a tre corpi paralleli, che scorrendo per 28 metri testimonia i culti funerari in epoca cristiana (IV-V secolo); la “Spezieria” (‘a bizzarria), anch’essa ipogeica, è l’antica bottega dello speziale, data la sua particolare struttura a scaffali, nicchie, compartimenti. Al centro della grotta principale, un grosso buco sarebbe servito da mortaio che con un pestello di dura roccia gli erboristi utilizzavano per ridurre in poltiglia le erbe curative con cui preparare infusi e decotti. 

 

Torre Fortilitium, Cava d’Ispica – foto tratta www.it.wikipedia.org

Nel sud-est della Cava, procedendo sull’altura, a destra del convento del Carmine, al centro del fondo valle troneggia con la sua megalitica cinta muraria una rupe detta la “Forza”: inaccessibile, remota, interna fortezza. E sulla sua punta si ergeva il “Fortilitium” dai cui torrioni si avvistava l’arrivo del nemico che facilmente poteva essere respinto con il rotolare dei sassi. Vasta l’area protetta dalla natura rocciosa: un altopiano di tre ettari circa, alto da cento metri e oltre, capace di contenere tremila persone13.

Vi si svolgeva la vita dell’allora Spaccaforno, prima del terremoto del 1693. Luogo della memoria collettiva, privilegiato dalle diverse popolazioni succedutesi nel corso di vicende plurimillenarie, conserva le tracce d’una civiltà tenace: dai ruderi della chiesa dell’Annunziata a quelli del castello, al centro della cittadella, nel cui interno sorgeva il palazzo marchionale  (superba, sontuosa dimora dei conti Statella che vi soggiornavano quando si rendevano liberi da impegni e imprese militari). E’ il “Centoscale” nella zona Ovest del parco, ad essere il transito verso il ventre della terra, verso il sotterraneo Plutone. Dell’ardita, spettacolare costruzione – un tunnel ipogeico scolpito nella roccia – sono 238 gli scalini che fanno raggiungere il fondovalle fin sotto il tetto del torrente. E’ probabile che l’opera sia servita per approvigionare di acqua e viveri il gran castello, specialmente nei periodi di presenze minacciose. A poca distanza l’eremo di S. Maria della Cava, nel cui pittoresco spazio esterno si svolgevano le fiere14. Di fronte c’era la “Conceria” (“Cunzeria”), una grotta di vasche in successione, dove si lavoravano le pelli. Della chiesa dell’Annunziata, sull’estremo sperone meridionale del fortilizio, rimangono soltanto i tagli delle fondazioni nella roccia: il piano pavimentale veniva occupato da fosse sepolcrali per i notabili, le loro famiglie, i preti. 

Vegetazione di Cava d’Ispica – foto di Antonino Lauretta, tratta da www.cavadispica.org

Siamo in luoghi scenograficamente suggestivi dove fin dall’età del bronzo si costruirono villaggi; siamo nel sito rinascimentale del feudo e della preghiera ai santi che avevano soppiantato divinità scadute come Poseidone e Diana, del lavoro e dell’ingegnosità d’una comunità contadino-pastorale e artigianale in un territorio di ripidi pendii e verdeggianti vallate. Certo è che il paesaggio con una architettura tenace e cosparso di segni etnologici, oltre a offrire di sé le peculiarità più diverse e inconfondibili, comunica un’energia dirompente; tranquilla valle luminosa oltre la quale sta uno splendido mare: fra i sentieri di piante arboree (il platano, il bagolaro, il fico selvatico…) ed erbacee (l’edera, l’orchidea, il ficodindia…), si riesce a sentire il fascino della bella natura.

Federico Guastella

Ragusa, 6 maggio 2022

Note

  1. M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino, Torino: Bollati Boringhieri, 1999 (1949-64).
  2. S. Minardo, Cava d’ispica, Tip. Piccitto&Antoci, Ragusa, 1905; G. Di Stefano – D. Belgiorno, Cava Ispica: recenti scavi e scoperte, Modica 1983; G. Di Stefano, Piccola guida delle stazioni preistoriche degli iblei, Ragusa 1984; G. Di Stefano, Recenti indagini sugli insediamenti rupestri nell’area ragusana, in La Sicilia rupestre nel contesto delle civiltà mediterranee, atti del sesto Convegno internazionale di studio sulla civiltà rupestre medioevale nel Mezzogiorno d’Italia (Catania, Pantalica, Ispica, 7-12 settembre 1981), F. C. Damiano (a cura di), Congedo editore, Lecce 1986; M. Trigilia, Storia e guida di Ispica (con stradario di Corrado Monaca), Casa Editrice So. Ge. Me., CI. DI. BI., Ragusa, 1988; P. Nifosì, Guida di Ispica, Comune di Ispica, Litografia La Grafica – Modica, 1989. 
  3. G. Bufalino, La luce e il lutto, Sellerio, Palermo, 1988.
  4. R. Solarino, La Contea di Modica. Ricerche storiche (ristampa anastatica 1973, vol. I stampato nel 1885 tre anni dopo la pubblicazione dell’opuscolo I Comuni del Circondario di Modica).
  5. Trascrivo il prezioso contributo di Giuseppe Cocchiara: “I primi colonizzatori greci, secondo la testimonianza di Tucidide, al loro arrivo in Sicilia (VIII sec. a.C.) trovarono popolazioni di quattro gruppi etnici distinti: i Sicani, gli Elimi, i Siculi, i Fenici. A parte gli Elimi, stanziati in un territorio limitato ai distretti di Segesta e di Erice, e i Fenici, che avevano stabilito nella seconda metà del IX secolo i loro empori commerciali sulle coste e successivamente si consolidarono a Palermo, Solunto e Mothia, i Sicani e Siculi si dividono il dominio dell’Isola. I Sicani sono i più antichi abitatori della Sicilia di cui la storia abbia serbato il ricordo. Dapprima diffusi per tutta la regione, che avevano occupato nel III millennio a.C., furono respinti dai Siculi, sopraggiunti due millenni più tardi dall’Italia, nella parte occidentale (…). Per l’ “Odissea” i Sicani abitavano la Sicilia e i Siculi il continente della Penisola, in una regione probabilmente sulla costa della Puglia, dove da Itaca si poteva approdare con facilità (…). Al fondo autoctono e mediterraneo della Sicilia, rappresentato dai Sicani, gli archeologi riconoscono l’appartenenza di alcune belle armi di ossidiana o di basalto, la ceramica decorativa a motivi lineari e i vasi colorati degli scavi di Matrensa e di Stentinello (…). I Siculi, che in origine erano di razza e lingua ugualmente mediterranea, ma italicizzati nella lingua e nel costume della sovrapposizione di popolazioni proto latine, risospinti dagli Opici, rifluirono in Sicilia cacciando i Sicani nella parte occidentale dell’Isola (G. Cocchiara, “Non chiamatela Isola”, in “Cronache Parlamentari Siciliane”, 20.2.1991, pp. 44-45). C’è altresì da dire che nella fascia sud-orientale della Sicilia, prima dei Sicani si ebbe una fitta rete di centri di <<Castelluccio>> (1800-1400 a. C.), un sito tra Noto e Siracusa, indagato da Paolo Orsi.
  6. Per l’approfondimento: P. Militello, I Siculi fra tradizione storica ed archeologia, in L. Guzzardi (a cura di), Civiltà indigene e città greche nella regione iblea, Distretto scolastico 52 Ragusa – Regione Siciliana, Assessorato ai Beni Culturali Ambientali e alla P. I., C.D.B., Ragusa, 1996.
  7. R. Solarino, La Contea di Modica. Ricerche storiche (ristampa anastatica 1973, vol. I, op. cit.
  8. Hélèn Tuzet, Jaen Houël, pittore di corte, in Guy De Maupassant, La Sicilia, Sellerio, Palermo, 1990.
  9. S. Bellisario, Cava d’Ispica (La città delle caverne, vol. II, La tartaruga editrice, Ispica, 1987.
  10. G. Di Stefano – G. Leone, La regione camarinese in età romana, Edizioni del Comitato per le Chiese di Ibla, Litografia LA GRAFICA, Modica Alta, 1985.
  11. Affermano molti storici che la Sicilia fu dominata dai bizantini nel 535, l’anno in cui i Goti vennero cacciati da Belisario. Sicché, i siculi si accrebbero con l’arrivo dei romèi di Costantinopoli (immigrati provenienti dalla Grecia e dall’Asia minore). Attratti dal territorio (risorse naturali e attività produttive), vi rimasero per circa trecento anni (535-827), senza però arrecare benefici. Un “Prefetto Pretore” governava l’Isola servendosi di funzionari imperiali e di certo il malgoverno, tra cui la fiscalità dell’amministrazione, fu la loro impronta. L’abbandono delle città favorì lo sviluppo di villaggi rurali dalle povere condizioni di vita e come abitazioni si utilizzarono le grotte naturali. Anche quelle delle necropoli preistoriche o sicule. Sul piano religioso il culto bizantino divenne preponderante, unitamente alla cultura greca, anche se la popolazione era stata ormai romanizzata Gregorio Magno (590-604), che viaggiò per la Sicilia, raccolse in comunità gli anacoreti e fondò 6 monasteri: il sesto secondo il Pirri tra Ragusa e Modica, in località Buscello.
  12. S. Belisario, Cava d’Ispica (La città delle caverne), vol. I, Tipolitografia “Moderna”, Modica, 1988.
  13. R. Fronterrè Turrisi, Il Fortilitium di Spaccaforno, ed. Comune di Ispica, Tipolitografia Martorina, Ispica, 1972.
  14. R. Fronterrè Turrisio, La Chiesa di S. Maria della Cava di Ispica (già Spaccaforno), ed. Comune di Ispica, Tipografia Martorina, Ispica, 1978.

Le foto sono tratte dai siti: www.cavadispica.org e www.it.wikipedia.org.

L’Autore

Federico Guastella

Federico Guastella, abilitato all’insegnamento di Scienze Umane e Scienze umane e storia, è stato Ragusa dirigente scolastico. Apprezzato saggista, ricercatore scrupoloso ed esigente, autore di testi letterari in prosa e in versi, ha al suo attivo anche contributi di pedagogia e didattica, essendo stato impegnato in corsi di aggiornato per docenti della scuola primaria e dell’infanzia. La sua produzione spazia così dalla saggistica alla narrativa alla poesia. Nell’opera Chiaramonte Gulfi – La mia diceria (Ragusa, 2014) ha proposto un itinerario della memoria individuale e collettiva in un serrato dialogo a più voci tra l’attualità e la storia recente, tra le relazioni dei luoghi dell’anima e dei luoghi della natura e del paesaggio. Il libro Colapesce (Ragusa, 2012), scritto in collaborazione, ha valore pedagogico-educativo, oltre che letterario e demologico. Tra le ultime opere pubblicate dall’editore Bonanno di Acireale-Roma, si ricordano: Andrea Camilleri, Guida alla lettura (2015); Fra terra e cielo. Miscellanea di saggi brevi con Gesualdo Bufalino (2016); Serafino Amabile Guastella. La vita e le opere (2017); Il mito e il velo (2017); Viaggio intorno al libro rosso (2018); Ignazio Buttitta e Danilo Dolci, due profili culturali della Sicilia (2019); Luigi Pirandello. I romanzi, i miti (2020). Degno di nota il volume Una rilettura del Gattopardo (Bonanno 2021). Recentemente ha svolto una ricerca sulla Massoneria in provincia di Ragusa che si è conclusa con la pubblicazione del libro Alle radici della Massoneria Iblea (Bonanno, 2021), preceduto dall’opera Pagine esoteriche (Bonanno, 2017). Ha curato la prefazione di più opere; gli sono stati pubblicati articoli in diverse riviste; è stato premiato in più concorsi per la poesia e annualmente si è classificato al primo posto per i saggi anzidetti di cultura siciliana al concorso città di Favara (AG), indetto dal Centro Culturale “R. Guttuso”. E’ in corso di stampa la sua monografia Sguardo su Sciascia. Studioso di storia locale, attualmente è impegnato nella stesura del volume Il miele dolceamaro degli Iblei. Privilegiando la letteratura dei siciliani, sta altresì lavorando su una monografia dal titolo Sicilia letteraria – Luoghi e volti.