Visitando Ragusa – di Federico Guastella
“Certamente poche persone che stanno camminando sulle più lisce strade di Londra o Parigi conoscono che molto dell’asfalto con cui queste strade sono pavimentate proviene dalla classica terra di Sicilia, ricavato dalla montagna di Ragusa, una città nel Sud di quell’isola. (…) Certamente Ragusa è un luogo da visitare. Se un viaggiatore prende riposo in una dolce sera primaverile su qualche sperone di roccia o in qualche piazza in miniatura, testimonierà una scena che non può dimenticare e che indugerà a luogo e piacevolmente nella sua memoria. Il sole calante, striando l’orizzonte ad occidente con il porporino, il colore oro e cremisino; e talmente luminoso con splendore è il cielo che gli occhi tornano con sollievo alla foschia del rosato violetto che ciondola intorno alle valli più lontane. La liscia e grigia roccia delle montagne ripete il violetto colore. In lontananza il mare è un fuoco liquefatto”.
Il brano, desunto da Studi Siciliani (pubblicato la prima volta nel 19151), è di Alexander Nelson Hood (1854-1937), duca di Bronte e pronipote del noto ammiraglio Lord Orazio Nelson, che a Ragusa ha dedicato un capitoletto del suo itinerario in Sicilia. Gaetano Cosentini, curatore della presentazione, ha puntualizzato: “Lo studio della nostra terra fu condotto in modo elegante e non trascurò alcun particolare, anzi profondendosi in ricerche precise come nel caso di Ragusa: non sono momenti letterari ma osservazioni sul preciso andamento della vita sociale e culturale anche nel suo hinterland, come gli spunti su Chiaramonte Gulfi. Sono molto significative le note sul carnevale nel ragusano e sugli usi gastronomici relativi, mentre non mancano le spigolature da Serafino A. Guastella”.
Il visitatore, già vissuto dal 1870 per lunghi periodi a Taormina nella sua “villa Falconara”, si è documentato in modo scrupoloso prima di arrivarvi; ha letto le notizie che riporta mescolandole alle sue osservazioni e sensazioni e a spiccare è la nota paesaggistica coi colori splendidi della natura e dal gusto bozzettistico.
Sono le pagine sull’asfalto a richiamare l’attenzione. La sua curiosità è alimentata dal mito quando, parlando delle caverne scavate nella roccia, ripensa alle divinità del mondo degli inferi e richiama la vicenda di Persefone; l’immaginazione gli fa incontrare Demetra mentre a lui appare “un veritiero figlio di Efesto” “nelle sue cave di pietra nera”.
Dalla realtà al mito, e viceversa, l’andamento descrittivo si snoda dunque partendo dallo stupore. Era il tempo dell’estrazione della pietra asfaltica da quelle oscure bocche sui fianchi delle colline con un durissimo lavoro che sembra essergli sfuggito.
Sul finire degli anni Cinquanta, il vicentino Guido Piovene rimane suggestionato dal paesaggio roccioso così simile a quello della Terrasanta. Gli sembrava un presepio la città in altura chiusa tra valli scoscese. Il raffinato scrittore ha trovato parole così appropriate che rendono l’idea di un barocco dal riflesso d’Oriente: un respiro, una breve fuga nel capriccioso. Ed eccoci ad un’altra particolarità di quest’angolo di Sicilia più a sud di Tunisi: la pasticceria che offre gusti ai palati più raffinati: “Mi incantai a guardare una pasticceria, la più bella della Sicilia. Quei dolci coloriti, pingui, nutritivi, cassate d’ogni qualità, conchiglie di pistacchio, cavolfiori di crema, fanno parte del bel barocco siciliano. Alcuni nomi ricordano eventi guerrieri. I cavolfiori gonfi si chiamano teste di turco, e procurano facili vittorie sugli infedeli”. Non solamente si lascia sedurre dai tratti pastorali degli Iblei, dalla civiltà della pietra espressa nei muretti a secco o dalle scenografiche valli. Il suo sguardo accoglie i mutamenti: dalle miniere d’asfalto ai giacimenti petroliferi. E fa un discorso sulle delusioni dei ragusani senza però trascurare la nota di costume di una comunità in transizione: “Certo il petrolio ha portato una scossa, più ancora che all’economia, agli animi ed al costume”.
Anche Sciascia, facendo più di vent’anni dopo il suo ingresso nella provincia di Ragusa, esprimeva una predilezione per l’attività dolciaria. Nel suo saggio La Contea di Modica (1983), per restare alla gola, elogiava il cioccolato di Modica assimilato a quello spagnolo di Alicante. E ricordava quei dolci, nel modicano chiamati ‘Mpanatigghi, “fatti di pasta sottilissima e fragile a contenere un sapiente impasto di carne e cioccolato principalmente”.
Felice l’intuizione di Piovene sul panorama che nell’ampiezza della Cava San Leonardo si può osservare dal belvedere della rotonda “Maria Occhipinti”, in fondo a via Roma: gli richiamava la Palestina la nostra terra di quiete e di rocce, del mito di Dafni2 e delle favole, oltre che della storia. A destra dello spettatore si arrampica sul colle l’impareggiabile Ibla dove regna il Duomo di San Giorgio; alla sinistra, dalle pareti macchiate di carrubi e arbusti aromatici spicca a mo’ di sfinge ‘A timpa Ro nannu (“la roccia del nonno”, così chiamata dagli antichi che tramandavano una bizzarra leggenda di tesori nascosti): un monolito pietroso di colore rossiccio, una tessitura in verticale della materia lavorata dal vento e dalle piogge come ad esprimere il vitale archetipo del femminile (Timpa) nel suo farsi di generazione in generazione (Nannu). Di pulsante energia si mostra in faccia alla città, testimone pressoché monumentale d’una civiltà fluviale tramontata. Nel 1976 la illuminò il noto artista-pittore Franco Cilia e lungo le pareti pose delle vedette che sarebbero piaciute al Pirandello dell’opera teatrale I giganti della montagna: “Le silhouettes, concepite da Franco Cilia e collocate in modo da essere mimetizzate di giorno e risplendere di notte, diventano fuochi virtuali di fantasmatiche teorie di entità telluriche, coordinate di luoghi, destinati a svanire all’alba, icone dell’inquietudine onirica, sentinelle di uno spazio sacro inviolabile, vedette dell’isola di luce abitata dalla Timpa ro nannu”3.
Spettacolare appariva ai nuovi turisti il paesaggio ibleo offerto dalla bellezza aurea del barocco, grazie all’opera di abili intagliatori che avevano amato la tenerezza della pietra per plasmarla con la fantasia nella musicalità di volute, di spirali, di forme placide e gioconde. La finezza di un arcano gioco di prestigio, faticoso e sudato, sta proprio in questo: nell’aver dato “libero corso al molteplice linguaggio della materia”. Dopo Bernard Berenson, Anthony Frederick Blunt, effettuando nel 1965 un viaggio in Sicilia, arrivò a Ragusa. Le sue osservazioni manifestano una dettagliata attenzione verso un ricco patrimonio artistico: la chiesa di San Giorgio a Ragusa Ibla e quella di Modica dedicata allo stesso santo. La prima è documentata come opera del Gagliardi, architetto della città di Noto e dell’intero Val di Noto; la seconda o dello stesso Gagliardi o di un collaboratore. Ecco un frammento che rende il senso e la magia del luogo:
“In entrambe l’architetto fa un uso brillante della località prescelta per disporre di fronte ad essa un’ampia scalinata, che a Ragusa scende verso una piazza leggermente di sbieco rispetto all’asse della chiesa, mentre a Modica si snoda giù per il declivio con duecentocinquanta gradini fino a raggiungere la strada sottostante (…) in entrambi i casi il disegno tende con spinta ascensionale verso il culmine della torre campanaria che svetta dal corpo centrale e conferisce un vigoroso accento curvilineo all’intero impianto”4.
D’ora in poi il barocco, rimasto estraneo al Grand Tour sette-ottocentesco, offrirà una visione complementare al territorio rurale delle masserie e dei muri a secco che chiudono spazi, aprendone altri.
Di Dominique Fernandez, romanziere e saggista che in diverse opere ha offerto un cospicuo contributo alla conoscenza della cultura siciliana, vogliamo ricordare Le radeau de la Gorgone (1988 con fotografie di Ferrante Ferranti); Palerme et la Sicilie (1988), dove egli compie inusitati scavi semantici per cogliere rarefatte atmosfere del tempo trascorso. Giungendo a Ragusa, la percepisce come “una delle più interessanti città della Sicilia”: anche “una delle più protette”. Da colto viaggiatore francese, si sofferma sugli angoli espressi dai valenti artigiani della pietra.
Sono le descrizioni del Circolo di conversazione di Ibla e del cosiddetto Castello di Donnafugata a destare maggiore interesse. Non lascia indifferenti la densità delle metafore utilizzate:
“La particolarità di questo circolo, creato in linea di principio per la conversazione, è che sembra destinato piuttosto al silenzio e alla cupa rimuginazione. I posti sono così distanti uno dall’altro che si stenterebbe a sentire, anche se l’atmosfera funebre non inducesse ad un rispettoso mutismo o ad un ovattato torpore. Il centro del salone è vuoto. Ci si va per leggere il giornale, giocare a carte in una saletta adiacente, bere un caffè da soli al bar o vedersi riflessi all’infinito, dal fondo di uno dei canapè, attraverso il gioco degli specchi: odiosa moltiplicazione di un Io che ciascuno porta in Sicilia come una punizione”.
Potrebbero sembrare esagerate le sue osservazioni nate occasionalmente secondo l’ottica psicologica del grottesco. Eppure non può ignorarsi che i circoli, di matrice illuministica, si diffusero in Sicilia nell’Ottocento per promuovere la cultura delle “buone maniere”. Anche per discutere di interessi economici e di politica, tant’è che furono strettamente sorvegliati dalla polizia borbonica.
Si sa: Perseo aveva donato la sua testa alla dea Atena che la fissò al centro del proprio scudo per terrorizzare i nemici. Ma lo sguardo della Gorgone stavolta non è terrificante perché col suo giornale di viaggio Dominique vuole incantare. Accattivante stavolta, e distante dai precedenti toni un po’ sprezzanti, la narrazione del percorso, visitando la Donnafugata di Corrado Arezzo.
Il paesaggio è di scena e intorno alla vegetazione si eleva “una mole massiccia”:
Il “castello”, com’è chiamato enfaticamente a Ragusa, possiede proporzioni monumentali e una severa maestosità addolcite da un fregio di merli (…). Quanto al parco, nulla ne altera la sovrana bellezza (… vi si scorge) il famoso labirinto, costruito su mezzo ettaro, non con cespugli, ma in pietra, con muri alti due metri che impediscono di orizzontarsi. Alcuni viali finiscono in un vicolo cieco; si ritorna sui propri passi senza saperlo; si riparte; ci si perde; si incrociano altri visitatori smarriti. Impossibile ritrovare l’uscita (…).
Perché questo fantasma di meandri in pieno bagliore solare? Al centro del dedalo non c’è nulla da vedere; questo labirinto non conduce in nessuna parte. Dà forma al vuoto, esalta il niente. Una buona occasione per ricordarsi che i siciliani, e non solo il principe di Lampedusa, guardano al progresso con un occhio più che scettico. Per essi, niente cambia mai. La storia si avvolge su sé stessa, facendo e disfacendo i registri politici con l’indifferenza della natura, ingannando gli uomini con la promessa di magnifici ideali che gli impedisce di realizzare. Labirinto metaforico, di cui questo è l’ipostasi, successione di false speranze che sfociano in inevitabili delusioni.
In città non gli sfuggono le allegorie dei mascheroni: i tre di palazzo Bertini, espressione del potere:
“Il mascherone di destra porta turbante e baffi: rappresenterebbe il commercio, sicuro di sé, senza paura, forte del denaro e del buon andamento degli affari. Quello di mezzo porta il pizzo, sguardo fisso e lontano, alterigia e boria dell’aristocratico, rappresenterebbe il potere che si fa beffe della legge. Quello di sinistra col viso deforme, il naso smisurato, la bocca sdentata, la lingua pendula, rappresenterebbe il contadino, che finisce per averla vinta sugli altri due: il villano, sprovvisto di tutto, per il solo fatto di non avere nulla da perdere, possiede una forza superiore a quella del nobile e del ricco.”
Comunque stiano le cose, dinanzi a questi sassi plautini sorprende la stravaganza barocca nella continua dialettica tra materia e immaginazione. E vengono in mente le bizzarrie di villa Palagonia a Bagheria o le mirabilia di Bomarzo.
E’ la stessa pietra metamorfica che a Francesco Lanza, l’autore dei “Mimi” amato da Leonardo Sciascia, fa assumere atteggiamenti e toni visionari che si mostrano nel contrasto tra il buio e la solarità. Gli capitò infatti di vedere all’ingresso delle miniere di asfalto “Una fanciulla (…) slanciata come uno stelo, bruna, dagli occhi ardenti e colmi, le labbra tumide e sanguigne: perfettamente intonate a questo paesaggio appassionato e severo. Non le manca che un fiorellino in mano, una fronda d’ulivo, una palma per essere così moderna e viva”.
Questo l’apprezzamento più autentico e più siciliano che si può fare: la bellezza come meta esistenziale. A dirla con Jung, essa richiede occhi nuovi capaci di vederla. Anche un cuore nuovo capace di desiderarla, e ciò lo scrittore di Valguarnera l’aveva compreso.
Federico Guastella
Ragusa, 29 maggio 2022
Note:
- A. N. Hood, Studi Siciliani, Rotary International Distretto 2110 Sicilia e Malta Club di Ragusa Anno 2006-2007, Elle Due srl – Ragusa.
- F. Guastella, Chiaramonte Gulfi. La mia diceria, tip. Pennacchio, Ragusa, 2014.
- S. Stella, in Franco Cilia, ‘A TIMPA RO NANNU, L’opera rivelata, a cura del Comune di Ragusa (in PDF).
- Sulle due facciate oggi sappiamo di più leggendo le seguenti opere: Paolo Nifosì-Giovanni Morana, La chiesa di San Giorgio di Modica (1996); Paolo Nifosì, Modica arte e architettura, (2015). La facciata di San Giorgio di Modica comincia ad essere costruita su progetto di Francesco Paolo Labisi nel 1761. I lavori del primo ordine risultano conclusi nei primi anni ottanta del Settecento e riprenderanno cinquant’anni dopo, negli anni trenta dell’Ottocento, per il secondo e il terzo ordine su progetto probabile di Carmelo Cultraro: saranno terminati nel 1848. Per la facciata ci sarà un cantiere aperto in più fasi per ben 85-novant’anni circa. Senza alcun dubbio il rimando della facciata a quella del San Giorgio a Ragusa Ibla, ma stilisticamente si registra il passaggio da un tardobarocco di quella di Ragusa ad un rococò dell’altra di Modica.
L’Autore.
Federico Guastella, abilitato all’insegnamento di Scienze Umane e Scienze umane e storia, è stato Ragusa dirigente scolastico. Apprezzato saggista, ricercatore scrupoloso ed esigente, autore di testi letterari in prosa e in versi, ha al suo attivo anche contributi di pedagogia e didattica, essendo stato impegnato in corsi di aggiornato per docenti della scuola primaria e dell’infanzia. La sua produzione spazia così dalla saggistica alla narrativa alla poesia. Nell’opera Chiaramonte Gulfi – La mia diceria (Ragusa, 2014) ha proposto un itinerario della memoria individuale e collettiva in un serrato dialogo a più voci tra l’attualità e la storia recente, tra le relazioni dei luoghi dell’anima e dei luoghi della natura e del paesaggio. Il libro Colapesce (Ragusa, 2012), scritto in collaborazione, ha valore pedagogico-educativo, oltre che letterario e demologico. Tra le ultime opere pubblicate dall’editore Bonanno di Acireale-Roma, si ricordano: Andrea Camilleri, Guida alla lettura (2015); Fra terra e cielo. Miscellanea di saggi brevi con Gesualdo Bufalino (2016); Serafino Amabile Guastella. La vita e le opere (2017); Il mito e il velo (2017); Viaggio intorno al libro rosso (2018); Ignazio Buttitta e Danilo Dolci, due profili culturali della Sicilia (2019); Luigi Pirandello. I romanzi, i miti (2020). Degno di nota il volume Una rilettura del Gattopardo (Bonanno 2021). Recentemente ha svolto una ricerca sulla Massoneria in provincia di Ragusa che si è conclusa con la pubblicazione del libro Alle radici della Massoneria Iblea (Bonanno, 2021), preceduto dall’opera Pagine esoteriche (Bonanno, 2017). Ha curato la prefazione di più opere; gli sono stati pubblicati articoli in diverse riviste; è stato premiato in più concorsi per la poesia e annualmente si è classificato al primo posto per i saggi anzidetti di cultura siciliana al concorso città di Favara (AG), indetto dal Centro Culturale “R. Guttuso”. E’ in corso di stampa la sua monografia Sguardo su Sciascia. Studioso di storia locale, attualmente è impegnato nella stesura del volume Il miele dolceamaro degli Iblei. Privilegiando la letteratura dei siciliani, sta altresì lavorando su una monografia dal titolo Sicilia letteraria – Luoghi e volti.
È stato un piacere leggerlo.