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Da Pantalica alle grotte dell’Addaura – di Federico Guastella

La necropoli di Pantalica – veduta notturna (foto di Pietro Columba, tratta da Wikipedia)

Il viaggio nelle culture mediterranee non può prescindere da un accenno all’architettura rupestre prima dei greci (quella dei Siculi, specificamente), partendo dalla necropoli di Pantalica1: dal lembo dell’estremo sud-est di Sicilia, dove l’oscurità abissale è strettamente legata alla luminosità del paesaggio. È qui che sembra percepirsi il ritmo di morte e rinascita, di termine e inizio nell’eterna circolarità del tempo.

Pantalica, le tombe – tratto da Wikipedia.org

Ferla, in provincia di Siracusa, è la cittadina più vicina a Pantalica su uno sperone montuoso. Il toponimo è bizantino e significa “Luogo delle grotte”: fortezza inespugnabile di profondi burroni a cinquecento metri sul livello del mare con ripide pareti rocciose e calcaree dove tra il XIII e l’VIII secolo a.C. vennero senza ordine incavate cinquemila tombe a grotticella, aventi forma e dimensioni diverse. Sono occhiaie che evocano le celle dell’alveare e in esse i morti venivano deposti come per un ritorno nel grembo materno. Malgrado gli abitanti dei villaggi posti nel fondo valle, avessero sacralmente sentito il legame con i morti, i pregreci del ramo indoeuropeo non avevano una vera e propria cognizione dell’aldilà alternativo a quello dei viventi. Per loro, il defunto, inumato in una tomba a grotticella artificiale era come se continuasse nella quotidianità con oggetti vari, umili e rozzi: dalle fuseruole alle fibule, dagli anelli alle catenelle, dalle lame agli spilli. Era il profondo, autentico rispetto che il vivente nutriva per la sua morte. La funzione principale del mito era il legame memoriale tra i vivi e i morti: una corda tesa tra la fatica dei giorni e la certezza della morte.

L’isola dei morti, di Arnold Böcklin (1827-1901), quinta versione. Dipinto tratto da Wikipedia.

Da allora ad oggi anche nella pittura si è perpetuata l’esigenza di una rappresentazione dell’evento da non esorcizzare: si potrebbe per esempio ricordare il dipinto L’isola dei morti di Arnold Böcklin, che trae ispirazione dalla trasmigrazione delle anime: raffigura infatti  un isolotto roccioso su una distesa di acqua scura e una piccola barca a remi, il cui conducente, Caronte, trasporta una figura vestita di bianco unitamente a una barca ornata di festoni.

Siamo nel simbolismo, di cui l’onirico e l’invisibile, l’originario e il mitico sono componenti essenziali. Al fondo dello sperone che domina la confluenza dei fiumi Anapo e Calcinara, l’ambiente, dall’impressionante visività d’una natura incontaminata, è impreziosito di colori e odori, di laghetti e gorgoglii d’acqua trasparente e fresca. Lo sguardo s’apre allo stupore nel contemplare la bellezza di un “canyon”. Tutto è magia a Pantalica, dove sembra che il tempo abbia arrestato il suo corso. Il silenzio è rotto soltanto dal volo degli uccelli. Nel componimento “L’Ànapo”, Quasimodo dice: “mansueti animali, / le pupille d’aria, / bevono in sogno”. E nella sinfonia della natura, popolata di ninfe, s’ode il gradevole ronzio delle api che, nutrite di timo, diedero, e continuano a produrre, quel miele tanto prezioso da essere ricordato da poeti quali Virgilio e Seneca, Silio Italico e Ovidio e Teocrito. Anche Vincenzo Consolo ne trasse ispirazione2. 

“Da Pantàlica vogliamo partire, dalla sua necropoli, dalle ripide pareti delle sue voragini traforate al pari d’un alveare da miriadi di celle, in cui pietose mani ponevano accovacciati, come dentro il grembo materno, i morti coi loro umili, primitivi oggetti (fuseruole, fibule, olle, spirali, anelli, dischi, lame, catenelle); vogliamo partire da questo luogo estremo e abissale, da questa soglia per cui si passa dalla scansione della storia all’oscurità del tempo, all’eterno circolare e immoto, dalle acque smemoranti dell’Ànapo, da questo Averno, da questo luogo di ombre trasvolate verso la notte. Poiché Pantàlica è sì un luogo di morte, ma è insieme luogo di resurrezione, di cominciamento: è luogo-simbolo di questa complessa e contrastante terra di Sicilia, della sua storia di ricorrente distruzione e di rinascita. E il simbolo è racchiuso nell’insetto d’oro, nell’ape che dà la cera e dà il miele, la luce e il nutrimento, nell’ape che va sciamando per quei luoghi…”3

Le comunità agricole e pastorali, radicate nel territorio, erano governate dal mitico re Hyblon o Iblone, sovrano siculo che concesse il permesso di fondare, intorno al 728, a. C., la colonia di Megara Hyblea. Visibili i resti delle fondamenta del palazzo. Paolo Orsi l’ha individuato come un “anákotron” che si richiama all’architettura micenea; per altri studiosi, e va citato l’archeologo Sardo, si deve piuttosto pensare al contatto con l’architettura minoica.

Megara Hyblea: i resti delle fondamenta del palazzo (“anákotron”).

Degna di nota l’interpretazione di Pietro Militello: “Il cosiddetto anaktoron di Pantalica, con la sua imponente struttura muraria, la sua pianta complessa con muri rettilinei, e la presenza di un ripostiglio di bronzi ha fatto pensare ad una vera e propria reggia, prova quindi di una struttura politica di tipo evoluto, che si sarebbe ispirata ai prototipi micenei4. Via via le tante grotte sepolcrali furono utilizzate come abitazioni per sfuggire la popolazione alle razzie arabe che nel IX secolo mettevano a ferro e a fuoco la Sicilia. Fu nel Medioevo e nel periodo bizantino che vi sorsero oratori rupestri, abbelliti da un’arte umile e povera: luoghi di culto destinati a ogni villaggio dell’ampia zona. Al totale abbandono di Pantalica dedica un bel capitolo Luigi Bernabò Brea in Pantalica – Ricerche intorno all’anáktron (Naples – Palazzolo Acreide 1990); egli conclude dicendo che la sua distruzione probabilmente è da porsi in relazione con l’espansione di Siracusa nel retroterra, mettendo in crisi l’assetto unitario del mondo siculo. Delle sue complesse vicende Pantalica conserva il fascino del paesaggio: rocce sforacchiate, verdeggianti qua e là, luminose, tortuosi sentieri lungo i torrentelli, e lei è una fata morgana: non scompare all’improvviso, accarezza e si lascia accarezzare regalando indelebili sensazioni. 

Furono le grotte riparo di uomini e animali quando l’incisione precedette l’uso della parola e divenne la prima scuola attraverso il vedere. Dall’immaginazione nacque il simbolo: la prima parola, forte e urgente, rappresentata per esprimere il profondo del sé legato alla vita quotidiana, agli usi, ai costumi, ai riti sacrificali. Un mito “sui generis” l’arte dell’incidere che appare stupefacente: intreccia i fili della vita e li feconda con le immagini, vivendole e abitandole. È l’inizio d’una fantastica facoltà mitopoietica manifestata con l’esercizio dei sensi fino a raggiungere la più alta forma di spiritualità che cantava il destino dei giorni. Il sentimento si immerge nella rappresentazione, lo sguardo mobilita energie mentre i segni si fanno magia e spettacolo, luce ed evento.

Incisione rupestre nelle Grotte dell’Addaura (Palermo) – foto Antonio Randazzo, tratta dal sito www.linformazione.eu

L’incisione rupestre è un altro modo di entrare nel mito, organizzando il “caos” col disegno innocente di animali e di uomini. Le idee si esteriorizzano in visioni e immagini collettive che fanno sfuggire all’oblio. Il disegno è mito e viceversa, la realtà è vista con gli occhi del sogno, dell’incanto, del numinoso. Per la prima volta il mito si tradusse in figura, illuminando i volti sia degli artisti che degli osservatori. Il che avvenne con fine sensibilità e con tecniche adeguate.

Incisioni nelle Grotte dell’Addaura (Palermo) – foto di Antonio Randazzo dal sito www.linformazione.eu

Fu così il simbolo a generare la prima redenzione, la prima forma di liberazione dalle catene esterne. Il segno, linguaggio simbolico, diede inizio alla capacità di comunicazione.

Le grotte dell’Addaura5, di Lescaux, di Tamira sono la vivace testimonianza di questa creatività, di una tensione di elevazione. Goethe, forse per le ammalianti visioni che offriva, definì Monte Pellegrino “il più bel promontorio del mondo”. Domina il golfo di Palermo e i suoi fianchi nascondono numerosi anfratti: uno di essi accoglie il santuario di Santa Rosalia, dea ctonia nel suo antro che richiama Kore o Persefone, vergine cara ai palermitani che nel 1624 arrestò una feroce epidemia di peste. Alcune cavità appartengono alla storia più lontana dell’uomo, avendole abitate già dal Neolitico e nel Mesolitico. I reperti rinvenuti sono conservati nel Museo archeologico della Città, capoluogo di Sicilia.

Le Grotte dell’Addaura (Palermo) – foto di Antonio Randazzo, dal sito www.linformazione.eu

Il complesso di tre grotte naturali sul fianco nordorientale si chiama “Addaura” (o “Daura”, nome del “tenimento” che potrebbe derivare da una corruzione del termine greco “laura” indicante una particolare tipologia di comunità di anacoreti; secondo altri deriverebbe dall’arabo Al-dawrah, che significa “la svolta”, “l’ansa”, o “il giro” con riferimento alla grande curva che il fianco costiero del monte compie in quel punto. In essa furono trovate  ossa e strumenti utilizzati per la caccia. In una delle tre grotte ciò che maggiormente attira è la presenza di uno straordinario complesso di incisioni che ornano le pareti: un caso unico nel panorama dell’arte preistorica. Sono graffiti, poche linee incise con precisione sul calcare, databili fra l’Epigravettiano finale e il Mesolitico. Fu dopo lo sbarco in Sicilia e l’arrivo a Palermo nel 1943 che gli Alleati, in cerca di un sito idoneo, avevano destinato le grotte a deposito di munizioni ed esplosivi. Lo scoppio fortuito dell’arsenale provocò nella grotta principale uno sgretolamento, portandoli casualmente alla luce.

Grotte dell’Addaura – Graffito rupestre (18.000 a.C. ca.) foto tratta dal sito www.artesvelata.it

Le scene raffigurano uomini danzanti e animali. Il movimento impresso ha qualcosa di moderno richiama alla mente la danza di Matisse. In mezzo ad una moltitudine di bovidi, di cavalli selvatici e di cervi, si notano figure umane mascherate e disposte in circolo; due di esse, centrali, sono con il capo coperto e con il corpo fortemente inarcato all’indietro. Le ipotesi degli studiosi sono contrastanti. Secondo alcuni si potrebbe trattare di acrobati colti nel momento in cui effettuano giochi di particolare abilità. Per altri fu descritta la scena di un rito sacrificale guidato da uno sciamano. Interpretazione, questa, resa probabile dalla presenza, intorno al collo e ai fianchi dei due personaggi, di corde che costringono il corpo ad un doloroso inarcamento. Non c’è dubbio che lo scenario rappresenta una prima forma di manifestazione estetica; gli studiosi sono concordi nel ritenere che il trattamento della figura umana, pur nell’ambito di una corrente stilistica presente nel bacino del Mediterraneo (in particolare a Levanzo – “Grotta del Genovese” – e nella provincia franco-cantabrica), si esprime in forma assolutamente nuova6. 

Federico Guastella

Ragusa, 18 novembre 2022

Note

  1. Atti del sesto Convegno internazionale di studio sulla civiltà rupestre medioevale nel Mezzogiorno d’Italia (Catania, Pantalica, Ispica, 7-12 settembre 1981), F. C. Damiano (a cura di), Congedo editore, Lecce 1986.
  2. V. Consolo, Le pietre di Pantalica, Mondadori, Milano, 1988.
  3. V. Consolo (fotografie di G. Leone) La Sicilia passeggiata, Mimesis edizioni, Milano, 2021
  4. P. Militello, I Siculi fra tradizione storica ed archeologia, in L. Guzzardi (a cura di), Civiltà indigene e città greche nella regione iblea, Distretto scolastico 52 Ragusa – Regione Siciliana, Assessorato ai Beni Culturali Ambientali e alla P. I., C.D.B., Ragusa, 1996.
  5. S. Tusa, La Sicilia nella preistoria, Sellerio, Palermo, 1983.
  6. Ammirando questi esperti personaggi danzanti, il pensiero va alla grotta di Lascaux, situata nella regione della Dordogna, nella Francia centro-occidentale. Scoperta nel 1940, apparve subito come uno dei maggiori ritrovamenti artistici dell’età paleolitica (hanno un’età compresa tra i 15.000 e i 20.000 anni). Sulle pareti, e in particolare sul soffitto, sono rappresentati centinaia di animali, dai buoi ai cavalli, dai bisonti agli stambecchi. La tecnica di esecuzione è quella della pittura parietale preistorica, consistente nello stendere direttamente sulle pareti rocciose i colori. C’è  anche la grotta di Altamira a sorprendere (in spagnolo “Cueva de Altamira”): una caverna famosa per le pitture rupestri del Paleolitico superiore raffiguranti mammiferi selvatici e mani umane. Si trova nei pressi di Santillana del Mar in Cantabria, 30 chilometri ad ovest di Santander, nel nord della Spagna. Il Soffitto Multicolore è l’opera più appariscente e mostra un branco di bisonti in differenti posizioni, due cavalli, un grande cervo e probabilmente un cinghiale. Altre immagini raffigurano capre e impronte di mani. Ritengono gli studiosi che sono opere “collettive” completate nell’arco di migliaia di anni.

L’Autore

Federico Guastella

Federico Guastella, abilitato all’insegnamento di Scienze Umane e Scienze umane e storia, è stato Ragusa dirigente scolastico. Apprezzato saggista, ricercatore scrupoloso ed esigente, autore di testi letterari in prosa e in versi, ha al suo attivo anche contributi di pedagogia e didattica, essendo stato impegnato in corsi di aggiornato per docenti della scuola primaria e dell’infanzia. La sua produzione spazia così dalla saggistica alla narrativa alla poesia. Nell’opera Chiaramonte Gulfi – La mia diceria (Ragusa, 2014) ha proposto un itinerario della memoria individuale e collettiva in un serrato dialogo a più voci tra l’attualità e la storia recente, tra le relazioni dei luoghi dell’anima e dei luoghi della natura e del paesaggio. Il libro Colapesce (Ragusa, 2012), scritto in collaborazione, ha valore pedagogico-educativo, oltre che letterario e demologico. Tra le ultime opere pubblicate dall’editore Bonanno di Acireale-Roma, si ricordano: Andrea Camilleri, Guida alla lettura(2015); Fra terra e cielo. Miscellanea di saggi brevi con Gesualdo Bufalino(2016); Serafino Amabile Guastella. La vita e le opere (2017); Il mito e il velo (2017); Viaggio intorno al libro rosso (2018); Ignazio Buttitta e Danilo Dolci, due profili culturali della Sicilia (2019); Luigi Pirandello. I romanzi, i miti (2020). Degno di nota il volume Una rilettura del Gattopardo (Bonanno 2021). Recentemente ha svolto una ricerca sulla Massoneria in provincia di Ragusa che si è conclusa con la pubblicazione del libro Alle radici della Massoneria Iblea (Bonanno, 2021), preceduto dall’opera Pagine esoteriche (Bonanno, 2017). Ha curato la prefazione di più opere; gli sono stati pubblicati articoli in diverse riviste; è stato premiato in più concorsi per la poesia e annualmente si è classificato al primo posto per i saggi anzidetti di cultura siciliana al concorso città di Favara (AG), indetto dal Centro Culturale “R. Guttuso”. E’ uscita recentemente la sua monografia Sguardo su Sciascia (Bonanno, 2022). Studioso di storia locale, attualmente è impegnato nella stesura del volume Il miele dolceamaro degli Iblei. Privilegiando la letteratura dei siciliani, sta altresì lavorando su una monografia dal titolo Sicilia letteraria – Luoghi e volti.

e-mail: federico.guastella@tin.it 

 

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