Uno sguardo su Sciascia, di Federico Guastella – intervista all’Autore, a cura di Pippo Palazzolo

È da poco uscito per le edizioni Bonanno un importante saggio sull’opera di Leonardo Sciascia, dal titolo “Uno sguardo su Sciascia”. L’autore, Federico  Guastella, è un nome noto ai lettori di “Le Ali di Ermes”, che hanno potuto apprezzare i numerosi articoli da lui dedicati a diversi aspetti storici e culturali del territorio siciliano. Quest’ultimo lavoro, davvero ampio e approfondito, ci presenta la figura e l’opera di Sciascia nelle sue molteplici sfaccettature, in un modo particolarmente efficace, anche per la gran mole di informazioni fornite. Fra i numerosi pregi dell’opera, vi è quello di avere tracciato un percorso nel quale sono presenti le voci di autorevoli esegeti e biografi sciasciani, fra i quali spiccano Matteo Collura e Claude Ambroise. Inoltre, Federico Guastella in questo percorso usa una scrittura che si colloca tra la saggistica e la narrativa, evitando modi pedanti e noiosamente accademici. D’altra parte, avendo letto tutte le sue opere, egli può parlare di Sciascia con  grande proprietà, ripresentandolo in modo leggero – la leggerezza di Calvino – e non sacrificando la profondità dell’interpretazione. Il libro rappresenta così una guida sicura nell’universo di Sciascia, che non mancherà di catturare il lettore.

Abbiamo chiesto all’Autore di rispondere ad alcune nostre domande sul suo libro e siamo quindi lieti di pubblicare di seguito l’intervista che ci ha gentilmente rilasciato e per la quale lo ringraziamo. 

D. Dal suo libro emerge la sua grande passione per l’opera di Leonardo Sciascia. Quando e perché è nata?

R. Le opere di Sciascia hanno influito molto sulla mia formazione culturale, fin dai suoi primi scritti. Ricordo che quando uscivano i suoi libro io li leggevo passo passo, anche perché la sua scrittura aveva un carattere di denuncia sociale, oltre ad essere innovativa, anticonformista, oserei dire polemista. Nei suoi scritti si puntualizzava il rapporto tra la letteratura e la verità. Lui assegnava alla letteratura il compito di smascherare le ipocrisie, i compromessi e soprattutto l’ingranaggio del potere mafioso, il suo connubio con la politica. Nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa la Sicilia è irredimibile. Ma le cause venivano ricercate soprattutto nelle componenti  geografiche del paesaggio, che portava i siciliani ad una forma di indifferenza, vissuta nelle forme del sogno, una forma quasi di estraniazione rispetto alla realtà. Sciascia invece sviluppa questo discorso della Sicilia irredimibile, ma lo sposta verso l’organizzazione mafiosa. 

“Il giorno della civetta” – locandina del film di Damiano Damiani, 1968

E’ stato il primo a farlo in modo dirompente, ad esempio nel romanzo “Il giorno della civetta”. I miei interessi, gli interessi della mia generazione, che proveniva dalla scuola del neorealismo, si sono focalizzati attorno a questa voce innovativa e per quei tempi rivoluzionaria, che coglieva anche le sofferenze della sua comunità di origine. Un paese di zolfatari, Racalmuto. Sciascia e la sua scrittura si giustificano, come per Pirandello, perché provengono dall’ambiente di zolfatari e di salinari, quegli stessi ultimi che, abbandonati dalla politica, per guadagnare qualche soldo andavano anche a fiancheggiare le truppe franchiste, non avendo coscienza dell’azione che stavano intraprendendo. Il mio è uno sguardo complessivo delle sue opere: le ho rilette per raccontarne gli aspetti che aiutano alla comprensione del suo e del nostro presente. Dai suoi scritti viene fuori l’immagine di una Sicilia frastagliata e dominata. La sua Sicilia è quella sulfurea degli zolfatari e dei salinari, quella fatalista dei contadini e delle rivolte, agli snodi storici, del potere demoniaco e onnipervasivo. E anche quella dei siciliani di poche parole e di “tenace concetto” che custodiscono dentro il cuore la verità del Mediterraneo. 

D. Il giudizio di Sciascia sul “Gattopardo” non fu inizialmente positivo, perché non ne condivideva l’idea di irredimibilità della Sicilia, anche se poi lo rivalutò…

R. Il suo giudizio inizialmente negativo fu influenzato dal Vittorini, che addirittura si oppose alla pubblicazione del “Gattopardo”, alla Mondadori non avevano capito gli aspetti innovativi di questo romanzo. Sciascia poi modifica il suo giudizio e vi si accosta con uno sguardo nuovo, riconoscendone i pregi, tra cui l’aver posto in evidenza che la storia è una avvicendamento di élite, di classi sociali. L’irredemibilità della Sicilia, che per Tomasi di Lampedusa è prevalentemente dovuta a motivi climatici e all’accidia degli amministratori, trova in Sciascia una spiegazione più profonda,  individuata nell’organizzazione della mafia e nella lottizzazione del potere. 

Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino – foto di Giuseppe Leone

D. Diversi romanzi di Sciascia hanno avuto delle famose trasposizioni cinematografiche. Quale è la sua valutazione in merito?

“A ciascuno il suo” – locandina del film di Elio Petri, 1967

R. Da “A ciascuno il suo” a “Il giorno della civetta”, tanto per citarne due, il regista e gli attori hanno saputo dare una interpretazione magistrale. A me interessa cogliere un aspetto del rapporto di Sciascia con il cinema, che lo accomunava a Gesualdo Bufalino: entrambi erano soliti annotare i film che vedevano e ad esprimere una valutazione.Sciascia soprattutto, si commosse a vedere il film di Giuseppe Tornatore “Nuovo Cinema Paradiso” e ci restano delle pagine preziose su questo argomento. C’è anche un suo saggio di Sciascia sul cinema in Sicilia, nel quale si parla del film di Francesco Rosi, “Salvatore Giuliano”. Lui aveva visto il film in compagnia di contadini, minatori, gente del popolo. Quando avviene la strage di Portella della Ginestra, rimangono  stupiti: può essere che Salvatore Giuliano possa essere stato l’artefice di questo eccidio? E finirono di applaudire, con una espressione quasi di turbamento. E perché avviene questo? Perché nel film il volto di Giuliano non si vede mai, rimane anonimo, proprio come il potere, che non ha volto, è invisibile. Se la gente avesse visto il volto, si sarebbe rassegnata, perché allora Giuliano era un mito, una speranza di riscatto, una sorta di Robin Hood.

D. Passiamo all’aspetto più prettamente politico dell’opera di Sciascia, ad esempio il suo rifiuto dei “compromessi” (anche di quelli “storici”…), una tendenza radicale e libertaria.

 R. Sciascia era antidemocristiano per eccellenza, anche anticlericale, non a caso i suoi personaggi più loschi sono ecclesiastici e mafiosi come l’Arciprete in “A ciascuno il suo” e Don Gaetano che, in “Todo Modo”, manovra i politici in apparenza riuniti per gli esercizi spirituali, ma sostanzialmente per la cura dei loro affari. Il rifiuto del compromesso storico?  Forse questo aspetto potrebbe essere anche un limite, a seconda di come si guardano le cose. Non comprese appieno l’operazione innovativa del compromesso storico che avrebbe dovuto unire due forze politiche

“Todo Modo” – locandina del film di Elio Petri, 1976

popolari, la DC e il PCI? Chissà! Un fatto è certo, la Democrazia cristiana era su posizioni abbastanza conservatrici ed io ritengo che quell’intesa avrebbe avuto una durata di breve corso. Sicuramente giocò un ruolo nella sua posizione anche l’esperienza amministrativa di Sciascia nel Consiglio Comunale di Palermo e la lottizzazione del potere che in quegli anni si stava realizzando fra i due partiti. Sciascia lasciò il PCI e si avvicinò al Partito Radicale, soprattutto per le lotte sui diritti civili, che gli stavano molto a cuore. Anche nel campo della giustizia, egli mette in primo piano l’umanità, come vediamo ne ”L’affaire Moro”, dove si schiera contro i partiti di maggioranza, escluso il PSI, che scelsero la Ragion di Stato, abbandonando Moro al suo destino e ritenendo farneticanti le lettere scritte di suo pugno.

D: Le posizioni politiche di Sciascia a volte si contraddicono…

R: Sì, ma lui rivendica il diritto alla contraddizione intesa come spinta dinamica alla ricerca della verità. La ricerca della verità e il coraggio della libertà sono due punti fermi della sua personalità, in quanto non ingabbiato in specifici schemi ideologici. A proposito della sua posizione sul “caso Moro”, respinge l’etichetta di filo craxiano, dichiarandosi libero da appartenenze partitiche. La difesa di Moro non nasceva da una simpatia politica, ma dalla difesa della persona umana, dall’umanità che si deve difendere a tutti i costi. In realtà, nessuno allora voleva Moro libero, lo stesso Papa, che pure spese tante parole accorate rivolgendosi ai brigatisti, al tempo stesso chiedeva loro una liberazione senza condizioni. Sciascia invece si schiera in difesa dell’uomo solo, abbandonato da tutti, in nome dell’umanità da salvaguardare ad ogni costo.

D: Passiamo allo Sciascia scrittore. Quali sono gli autori che lui avrebbe salvato in caso di Diluvio Universale?

Pier Paolo Pasolini e Leonardo Sciascia – foto Fondazione Leonardo Sciascia

R: Innanzitutto Pier Paolo Pasolini, ma anche tutti gli autori dell’Illuminismo, senza però mitizzarli (più vicino a Diderot che a Voltaire). Il rapporto con Pasolini è stato particolarmente importante, per tanti motivi: due personaggi a volte divergenti (Pasolini non era a favore dell’aborto, Sciascia sì), ma accomunati dal senso della rivolta contro la stupidità e la malizia; due eretici libertari e nello stesso tempo operante in loro un’ansia metafisica: le pascaliane ragioni del cuore e l’invalicabile senso del mistero.

D: In cosa consiste l’attualità  dell’opera di Sciascia?

R: La sua attualità credo debba ritrovarsi nel rapporto tra letteratura e verità sociale. La narrativa per Sciascia non deve essere un orpello esteriore, ma deve piuttosto incarnarsi nella storicità degli eventi, deve saper leggere il dramma che la società attraversa con i terribili problemi della miseria, della paura, della guerra. Dell’amministrazione della giustizia in particolare. Nonostante la sua vena di pessimismo va soprattutto evidenziato il suo guardare, nonostante tutto, con ottimismo alla possibilità di raggiungere una verità per approssimazioni successive. Anche se essa per lui è imprendibile e sfugge di mano, tuttavia la ricerca libera, che nella scrittura si concretizza, può  avvicinarcela sempre più. Per esempio, nei suoi romanzi cosiddetti gialli, dov’è prevalente la passione investigativa, non si riesce mai a stabilire chi sia il colpevole, però il il fatto stesso che egli scriva – come più volte diceva – è un segno di ottimismo, perché la scrittura è una forma di smascheramento di ogni forma di ipocrisia e di ingiustizie. La sua attualità a mio avviso consiste nel togliere le “maschere” a quel potere distanziato dai bisogni del popolo, mostrando il vero volto del potere. Di tutti i poteri contro la dignità dell’uomo. Mi piace riferire un suo pensiero sul valore civile della letteratura: “Quando lo scrittore serve, è unicamente nel senso che ci aiuta a vivere nella verità; e questo è il gioco, il grande gioco della letteratura e dell’arte”.

(Intervista a cura di Pippo Palazzolo)

Ragusa, 6 dicembre 2022

 

Federico Guastella

Federico Guastella, abilitato all’insegnamento di Scienze Umane e Scienze umane e storia, è stato Ragusa dirigente scolastico. Apprezzato saggista, ricercatore scrupoloso ed esigente, autore di testi letterari in prosa e in versi, ha al suo attivo anche contributi di pedagogia e didattica, essendo stato impegnato in corsi di aggiornato per docenti della scuola primaria e dell’infanzia. La sua produzione spazia così dalla saggistica alla narrativa alla poesia. Nell’opera Chiaramonte Gulfi – La mia diceria (Ragusa, 2014) ha proposto un itinerario della memoria individuale e collettiva in un serrato dialogo a più voci tra l’attualità e la storia recente, tra le relazioni dei luoghi dell’anima e dei luoghi della natura e del paesaggio. Il libro Colapesce (Ragusa, 2012), scritto in collaborazione, ha valore pedagogico-educativo, oltre che letterario e demologico. Tra le ultime opere pubblicate dall’editore Bonanno di Acireale-Roma, si ricordano: Andrea Camilleri, Guida alla lettura(2015); Fra terra e cielo. Miscellanea di saggi brevi con Gesualdo Bufalino(2016); Serafino Amabile Guastella. La vita e le opere (2017); Il mito e il velo(2017); Viaggio intorno al libro rosso (2018); Ignazio Buttitta e Danilo Dolci, due profili culturali della Sicilia (2019); Luigi Pirandello. I romanzi, i miti (2020). Degno di nota il volume Una rilettura del Gattopardo (Bonanno 2021). Recentemente ha svolto una ricerca sulla Massoneria in provincia di Ragusa che si è conclusa con la pubblicazione del libro Alle radici della Massoneria Iblea (Bonanno, 2021), preceduto dall’opera Pagine esoteriche (Bonanno, 2017). Ha curato la prefazione di più opere; gli sono stati pubblicati articoli in diverse riviste; è stato premiato in più concorsi per la poesia e annualmente si è classificato al primo posto per i saggi anzidetti di cultura siciliana al concorso città di Favara (AG), indetto dal Centro Culturale “R. Guttuso”. E’ uscita recentemente la sua monografia Sguardo su Sciascia (Bonanno, 2022). Studioso di storia locale, attualmente è impegnato nella stesura del volume Il miele dolceamaro degli Iblei. Privilegiando la letteratura dei siciliani, sta altresì lavorando su una monografia dal titolo Sicilia letteraria – Luoghi e volti.

e-mail: federico.guastella@tin.it 

Da Pantalica alle grotte dell’Addaura – di Federico Guastella

La necropoli di Pantalica – veduta notturna (foto di Pietro Columba, tratta da Wikipedia)

Il viaggio nelle culture mediterranee non può prescindere da un accenno all’architettura rupestre prima dei greci (quella dei Siculi, specificamente), partendo dalla necropoli di Pantalica1: dal lembo dell’estremo sud-est di Sicilia, dove l’oscurità abissale è strettamente legata alla luminosità del paesaggio. È qui che sembra percepirsi il ritmo di morte e rinascita, di termine e inizio nell’eterna circolarità del tempo.

Pantalica, le tombe – tratto da Wikipedia.org

Ferla, in provincia di Siracusa, è la cittadina più vicina a Pantalica su uno sperone montuoso. Il toponimo è bizantino e significa “Luogo delle grotte”: fortezza inespugnabile di profondi burroni a cinquecento metri sul livello del mare con ripide pareti rocciose e calcaree dove tra il XIII e l’VIII secolo a.C. vennero senza ordine incavate cinquemila tombe a grotticella, aventi forma e dimensioni diverse. Sono occhiaie che evocano le celle dell’alveare e in esse i morti venivano deposti come per un ritorno nel grembo materno. Malgrado gli abitanti dei villaggi posti nel fondo valle, avessero sacralmente sentito il legame con i morti, i pregreci del ramo indoeuropeo non avevano una vera e propria cognizione dell’aldilà alternativo a quello dei viventi. Per loro, il defunto, inumato in una tomba a grotticella artificiale era come se continuasse nella quotidianità con oggetti vari, umili e rozzi: dalle fuseruole alle fibule, dagli anelli alle catenelle, dalle lame agli spilli. Era il profondo, autentico rispetto che il vivente nutriva per la sua morte. La funzione principale del mito era il legame memoriale tra i vivi e i morti: una corda tesa tra la fatica dei giorni e la certezza della morte.

L’isola dei morti, di Arnold Böcklin (1827-1901), quinta versione. Dipinto tratto da Wikipedia.

Da allora ad oggi anche nella pittura si è perpetuata l’esigenza di una rappresentazione dell’evento da non esorcizzare: si potrebbe per esempio ricordare il dipinto L’isola dei morti di Arnold Böcklin, che trae ispirazione dalla trasmigrazione delle anime: raffigura infatti  un isolotto roccioso su una distesa di acqua scura e una piccola barca a remi, il cui conducente, Caronte, trasporta una figura vestita di bianco unitamente a una barca ornata di festoni.

Siamo nel simbolismo, di cui l’onirico e l’invisibile, l’originario e il mitico sono componenti essenziali. Al fondo dello sperone che domina la confluenza dei fiumi Anapo e Calcinara, l’ambiente, dall’impressionante visività d’una natura incontaminata, è impreziosito di colori e odori, di laghetti e gorgoglii d’acqua trasparente e fresca. Lo sguardo s’apre allo stupore nel contemplare la bellezza di un “canyon”. Tutto è magia a Pantalica, dove sembra che il tempo abbia arrestato il suo corso. Il silenzio è rotto soltanto dal volo degli uccelli. Nel componimento “L’Ànapo”, Quasimodo dice: “mansueti animali, / le pupille d’aria, / bevono in sogno”. E nella sinfonia della natura, popolata di ninfe, s’ode il gradevole ronzio delle api che, nutrite di timo, diedero, e continuano a produrre, quel miele tanto prezioso da essere ricordato da poeti quali Virgilio e Seneca, Silio Italico e Ovidio e Teocrito. Anche Vincenzo Consolo ne trasse ispirazione2. 

“Da Pantàlica vogliamo partire, dalla sua necropoli, dalle ripide pareti delle sue voragini traforate al pari d’un alveare da miriadi di celle, in cui pietose mani ponevano accovacciati, come dentro il grembo materno, i morti coi loro umili, primitivi oggetti (fuseruole, fibule, olle, spirali, anelli, dischi, lame, catenelle); vogliamo partire da questo luogo estremo e abissale, da questa soglia per cui si passa dalla scansione della storia all’oscurità del tempo, all’eterno circolare e immoto, dalle acque smemoranti dell’Ànapo, da questo Averno, da questo luogo di ombre trasvolate verso la notte. Poiché Pantàlica è sì un luogo di morte, ma è insieme luogo di resurrezione, di cominciamento: è luogo-simbolo di questa complessa e contrastante terra di Sicilia, della sua storia di ricorrente distruzione e di rinascita. E il simbolo è racchiuso nell’insetto d’oro, nell’ape che dà la cera e dà il miele, la luce e il nutrimento, nell’ape che va sciamando per quei luoghi…”3

Le comunità agricole e pastorali, radicate nel territorio, erano governate dal mitico re Hyblon o Iblone, sovrano siculo che concesse il permesso di fondare, intorno al 728, a. C., la colonia di Megara Hyblea. Visibili i resti delle fondamenta del palazzo. Paolo Orsi l’ha individuato come un “anákotron” che si richiama all’architettura micenea; per altri studiosi, e va citato l’archeologo Sardo, si deve piuttosto pensare al contatto con l’architettura minoica.

Megara Hyblea: i resti delle fondamenta del palazzo (“anákotron”).

Degna di nota l’interpretazione di Pietro Militello: “Il cosiddetto anaktoron di Pantalica, con la sua imponente struttura muraria, la sua pianta complessa con muri rettilinei, e la presenza di un ripostiglio di bronzi ha fatto pensare ad una vera e propria reggia, prova quindi di una struttura politica di tipo evoluto, che si sarebbe ispirata ai prototipi micenei4. Via via le tante grotte sepolcrali furono utilizzate come abitazioni per sfuggire la popolazione alle razzie arabe che nel IX secolo mettevano a ferro e a fuoco la Sicilia. Fu nel Medioevo e nel periodo bizantino che vi sorsero oratori rupestri, abbelliti da un’arte umile e povera: luoghi di culto destinati a ogni villaggio dell’ampia zona. Al totale abbandono di Pantalica dedica un bel capitolo Luigi Bernabò Brea in Pantalica – Ricerche intorno all’anáktron (Naples – Palazzolo Acreide 1990); egli conclude dicendo che la sua distruzione probabilmente è da porsi in relazione con l’espansione di Siracusa nel retroterra, mettendo in crisi l’assetto unitario del mondo siculo. Delle sue complesse vicende Pantalica conserva il fascino del paesaggio: rocce sforacchiate, verdeggianti qua e là, luminose, tortuosi sentieri lungo i torrentelli, e lei è una fata morgana: non scompare all’improvviso, accarezza e si lascia accarezzare regalando indelebili sensazioni. 

Furono le grotte riparo di uomini e animali quando l’incisione precedette l’uso della parola e divenne la prima scuola attraverso il vedere. Dall’immaginazione nacque il simbolo: la prima parola, forte e urgente, rappresentata per esprimere il profondo del sé legato alla vita quotidiana, agli usi, ai costumi, ai riti sacrificali. Un mito “sui generis” l’arte dell’incidere che appare stupefacente: intreccia i fili della vita e li feconda con le immagini, vivendole e abitandole. È l’inizio d’una fantastica facoltà mitopoietica manifestata con l’esercizio dei sensi fino a raggiungere la più alta forma di spiritualità che cantava il destino dei giorni. Il sentimento si immerge nella rappresentazione, lo sguardo mobilita energie mentre i segni si fanno magia e spettacolo, luce ed evento.

Incisione rupestre nelle Grotte dell’Addaura (Palermo) – foto Antonio Randazzo, tratta dal sito www.linformazione.eu

L’incisione rupestre è un altro modo di entrare nel mito, organizzando il “caos” col disegno innocente di animali e di uomini. Le idee si esteriorizzano in visioni e immagini collettive che fanno sfuggire all’oblio. Il disegno è mito e viceversa, la realtà è vista con gli occhi del sogno, dell’incanto, del numinoso. Per la prima volta il mito si tradusse in figura, illuminando i volti sia degli artisti che degli osservatori. Il che avvenne con fine sensibilità e con tecniche adeguate.

Incisioni nelle Grotte dell’Addaura (Palermo) – foto di Antonio Randazzo dal sito www.linformazione.eu

Fu così il simbolo a generare la prima redenzione, la prima forma di liberazione dalle catene esterne. Il segno, linguaggio simbolico, diede inizio alla capacità di comunicazione.

Le grotte dell’Addaura5, di Lescaux, di Tamira sono la vivace testimonianza di questa creatività, di una tensione di elevazione. Goethe, forse per le ammalianti visioni che offriva, definì Monte Pellegrino “il più bel promontorio del mondo”. Domina il golfo di Palermo e i suoi fianchi nascondono numerosi anfratti: uno di essi accoglie il santuario di Santa Rosalia, dea ctonia nel suo antro che richiama Kore o Persefone, vergine cara ai palermitani che nel 1624 arrestò una feroce epidemia di peste. Alcune cavità appartengono alla storia più lontana dell’uomo, avendole abitate già dal Neolitico e nel Mesolitico. I reperti rinvenuti sono conservati nel Museo archeologico della Città, capoluogo di Sicilia.

Le Grotte dell’Addaura (Palermo) – foto di Antonio Randazzo, dal sito www.linformazione.eu

Il complesso di tre grotte naturali sul fianco nordorientale si chiama “Addaura” (o “Daura”, nome del “tenimento” che potrebbe derivare da una corruzione del termine greco “laura” indicante una particolare tipologia di comunità di anacoreti; secondo altri deriverebbe dall’arabo Al-dawrah, che significa “la svolta”, “l’ansa”, o “il giro” con riferimento alla grande curva che il fianco costiero del monte compie in quel punto. In essa furono trovate  ossa e strumenti utilizzati per la caccia. In una delle tre grotte ciò che maggiormente attira è la presenza di uno straordinario complesso di incisioni che ornano le pareti: un caso unico nel panorama dell’arte preistorica. Sono graffiti, poche linee incise con precisione sul calcare, databili fra l’Epigravettiano finale e il Mesolitico. Fu dopo lo sbarco in Sicilia e l’arrivo a Palermo nel 1943 che gli Alleati, in cerca di un sito idoneo, avevano destinato le grotte a deposito di munizioni ed esplosivi. Lo scoppio fortuito dell’arsenale provocò nella grotta principale uno sgretolamento, portandoli casualmente alla luce.

Grotte dell’Addaura – Graffito rupestre (18.000 a.C. ca.) foto tratta dal sito www.artesvelata.it

Le scene raffigurano uomini danzanti e animali. Il movimento impresso ha qualcosa di moderno richiama alla mente la danza di Matisse. In mezzo ad una moltitudine di bovidi, di cavalli selvatici e di cervi, si notano figure umane mascherate e disposte in circolo; due di esse, centrali, sono con il capo coperto e con il corpo fortemente inarcato all’indietro. Le ipotesi degli studiosi sono contrastanti. Secondo alcuni si potrebbe trattare di acrobati colti nel momento in cui effettuano giochi di particolare abilità. Per altri fu descritta la scena di un rito sacrificale guidato da uno sciamano. Interpretazione, questa, resa probabile dalla presenza, intorno al collo e ai fianchi dei due personaggi, di corde che costringono il corpo ad un doloroso inarcamento. Non c’è dubbio che lo scenario rappresenta una prima forma di manifestazione estetica; gli studiosi sono concordi nel ritenere che il trattamento della figura umana, pur nell’ambito di una corrente stilistica presente nel bacino del Mediterraneo (in particolare a Levanzo – “Grotta del Genovese” – e nella provincia franco-cantabrica), si esprime in forma assolutamente nuova6. 

Federico Guastella

Ragusa, 18 novembre 2022

Note

  1. Atti del sesto Convegno internazionale di studio sulla civiltà rupestre medioevale nel Mezzogiorno d’Italia (Catania, Pantalica, Ispica, 7-12 settembre 1981), F. C. Damiano (a cura di), Congedo editore, Lecce 1986.
  2. V. Consolo, Le pietre di Pantalica, Mondadori, Milano, 1988.
  3. V. Consolo (fotografie di G. Leone) La Sicilia passeggiata, Mimesis edizioni, Milano, 2021
  4. P. Militello, I Siculi fra tradizione storica ed archeologia, in L. Guzzardi (a cura di), Civiltà indigene e città greche nella regione iblea, Distretto scolastico 52 Ragusa – Regione Siciliana, Assessorato ai Beni Culturali Ambientali e alla P. I., C.D.B., Ragusa, 1996.
  5. S. Tusa, La Sicilia nella preistoria, Sellerio, Palermo, 1983.
  6. Ammirando questi esperti personaggi danzanti, il pensiero va alla grotta di Lascaux, situata nella regione della Dordogna, nella Francia centro-occidentale. Scoperta nel 1940, apparve subito come uno dei maggiori ritrovamenti artistici dell’età paleolitica (hanno un’età compresa tra i 15.000 e i 20.000 anni). Sulle pareti, e in particolare sul soffitto, sono rappresentati centinaia di animali, dai buoi ai cavalli, dai bisonti agli stambecchi. La tecnica di esecuzione è quella della pittura parietale preistorica, consistente nello stendere direttamente sulle pareti rocciose i colori. C’è  anche la grotta di Altamira a sorprendere (in spagnolo “Cueva de Altamira”): una caverna famosa per le pitture rupestri del Paleolitico superiore raffiguranti mammiferi selvatici e mani umane. Si trova nei pressi di Santillana del Mar in Cantabria, 30 chilometri ad ovest di Santander, nel nord della Spagna. Il Soffitto Multicolore è l’opera più appariscente e mostra un branco di bisonti in differenti posizioni, due cavalli, un grande cervo e probabilmente un cinghiale. Altre immagini raffigurano capre e impronte di mani. Ritengono gli studiosi che sono opere “collettive” completate nell’arco di migliaia di anni.

L’Autore

Federico Guastella

Federico Guastella, abilitato all’insegnamento di Scienze Umane e Scienze umane e storia, è stato Ragusa dirigente scolastico. Apprezzato saggista, ricercatore scrupoloso ed esigente, autore di testi letterari in prosa e in versi, ha al suo attivo anche contributi di pedagogia e didattica, essendo stato impegnato in corsi di aggiornato per docenti della scuola primaria e dell’infanzia. La sua produzione spazia così dalla saggistica alla narrativa alla poesia. Nell’opera Chiaramonte Gulfi – La mia diceria (Ragusa, 2014) ha proposto un itinerario della memoria individuale e collettiva in un serrato dialogo a più voci tra l’attualità e la storia recente, tra le relazioni dei luoghi dell’anima e dei luoghi della natura e del paesaggio. Il libro Colapesce (Ragusa, 2012), scritto in collaborazione, ha valore pedagogico-educativo, oltre che letterario e demologico. Tra le ultime opere pubblicate dall’editore Bonanno di Acireale-Roma, si ricordano: Andrea Camilleri, Guida alla lettura(2015); Fra terra e cielo. Miscellanea di saggi brevi con Gesualdo Bufalino(2016); Serafino Amabile Guastella. La vita e le opere (2017); Il mito e il velo (2017); Viaggio intorno al libro rosso (2018); Ignazio Buttitta e Danilo Dolci, due profili culturali della Sicilia (2019); Luigi Pirandello. I romanzi, i miti (2020). Degno di nota il volume Una rilettura del Gattopardo (Bonanno 2021). Recentemente ha svolto una ricerca sulla Massoneria in provincia di Ragusa che si è conclusa con la pubblicazione del libro Alle radici della Massoneria Iblea (Bonanno, 2021), preceduto dall’opera Pagine esoteriche (Bonanno, 2017). Ha curato la prefazione di più opere; gli sono stati pubblicati articoli in diverse riviste; è stato premiato in più concorsi per la poesia e annualmente si è classificato al primo posto per i saggi anzidetti di cultura siciliana al concorso città di Favara (AG), indetto dal Centro Culturale “R. Guttuso”. E’ uscita recentemente la sua monografia Sguardo su Sciascia (Bonanno, 2022). Studioso di storia locale, attualmente è impegnato nella stesura del volume Il miele dolceamaro degli Iblei. Privilegiando la letteratura dei siciliani, sta altresì lavorando su una monografia dal titolo Sicilia letteraria – Luoghi e volti.

e-mail: federico.guastella@tin.it 

 

Viaggi in Sicilia: Goethe e Maupassant

di Federico Guastella

Conosci la terra dei limoni in fiore,
dove le arance doro splendono tra le foglie scure,
dal cielo azzurro spira un mite vento,
quieto sta il mirto e lalloro è eccelso,
la conosci forse?
Laggiù, laggiù io
andare vorrei con te, o amato mio!

Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832), ritratto di Joseph Karl Stieler (1828)

Sono i famosi versi che Goethe fa pronunciare a Mignon  nel suo Wilheim Meister Lehrjahre, pubblicato fra il 1795 e il 1796. Fanno pensare al viaggio in Italia, da lui realmente compiuto dal 1786 al 1788, spingendosi verso la Sicilia, l’isola dalle antichissime origini. “La Sicilia mi richiama l’Asia e l’Africa; trovarsi nel centro meraviglioso, dove convergono tanti raggi della storia universale, non è cosa da nulla” dice Goethe alla vigilia della sua partenza per l’Isola.  L’opera in cui descrive il “tour” si intitola Viaggio in Italia1. Leggendo le pagine che egli dedica alla patria della scuola poetica del volgare italiano alla corte di Federico II di Svevia (1194-1250, re di Sicilia dal 1198 e imperatore dal 1220), suggestionano di certo le annotazioni scritte nel maggio del 1787: 

Chi si collochi nel punto più alto, occupato un tempo dagli spettatori, non può fare a meno di confessare che forse mai il pubblico dun teatro ha avuto innanzi a sé uno spettacolo simile. A destra, sopra rupi elevate, sorgono dei fortilizi; laggiù in basso la città (…). Lo sguardo abbraccia inoltre tutta la lunga schiena montuosa dellEtna, a sinistra la spiaggia fino a Catania, anzi fino a Siracusa (…). Se poi da questo spettacolo si volge locchio (…), ecco a sinistra tutte le pareti della roccia, e fra queste ed il mare la via che serpeggia fino a Messina, e gruppi e ammassi di scogli nello stesso mare, e la costa della Calabria nellultimo sfondo (….). Non è da dimenticare che abbiamo goduto la vista di questa bella spiaggia sotto il cielo più puro, dallalto dun balconcino, fra rose che occhieggiavano e usignoli che cantavano. 

L’Etna vista dal Teatro Antico di Taormina – foto di Pippo Palazzolo

La descrizione si riferisce a Taormina, l’ammaliante cittadina fondata da coloni greci che, dopo l’eccidio di Naxos del 403 a. C., si attestarono sulle pendici del vicino colle “dalla forma di toro”, a strapiombo sul mare Jonio (Il nascente centro abitato prese il nome di “Tauromenion”, toponimo composto da “Toro” e dalla forma greca “Menein” che significa “Rimanere”2).  Lo stile è confidenziale, egli descrive parlando; racconta come se usasse il pennello. Il fascino del luogo sicuramente dovette agire nel suo animo irrequieto: di certo l’antico mito, a seguito della discesa agli inferi, conduce alla luminosa e rinnovata Demetra. Come pellegrino che trova una poetica disposizione di spirito, alla vigilia della partenza per la “grande”, “bella”, “impareggiabile Isola”, egli osserva: “La Sicilia è per me un preannuncio dell’Asia e dell’Africa…”. Una sorta di musa ispiratrice in cui gli si rivelano storia e civiltà aperte ad altre culture. Nota è ormai la sua perentoria affermazione “L’Italia senza la Sicilia non lascia alcuna idea nell’anima: qui si trova la chiave di tutto”. Le pagine sono suggestive, trasparenti, animate da uno sguardo puntato sia al mare che ai monti: “La purezza dei contorni, la morbidezza di ogni cosa, la cedevole scambievolezza delle tinte, l’unità armonica del cielo col mare e del mare con la terra… chi li ha visti una sola volta, li possederà per tutta la vita.”

Monte Pellegrino, Palermo – foto di Giorgio Sommer (1834-1914) tratta da Wikipedia

A Palermo resta incantato dalla visione di monte Pellegrino: “il più bel promontorio del mondo”. Tanta la dolcezza e la mitezza che gli faceva sentire l’aria profumata, anche se non manca di rilevare la presenza d’immondizia per le strade. Il materiale è vario, fresco e vivace. Vale la pena di accennare alla visita che egli compie alla caverna dove furono scoperte le ossa di santa Rosalia che lì si era chiusa in romitaggio: “Una bella giovinetta mi apparve allora, al chiarore di due lampade tranquille. Sembrava come rapita in estasi, gli occhi a metà velati, il capo mollemente abbandonato sulla mano destra, carica di anelli. Non potevo saziarmi dal contemplarla, come se avesse avuto un fascino del tutto singolare”. Si vorrebbe fermare l’attenzione sulla visita che egli, massone, fa nella presunta abitazione del leggendario Cagliostro, visto come “uomo straordinario”.

Tempio della Concordia, Agrigento – foto tratta da Wikipedia

E si riterrebbe significativo soffermarsi sui paesaggi di Alcamo, di Segesta e di Girgenti, l’attuale Agrigento che gli si mostra con l’esuberante bellezza della “valle dei templi”. A Catania visita il palazzo Biscari e il Convento dei Benedettini.

Giardino dei novizi – Monastero dei Benedettini – foto di Nicolò Arena (Wikipedia)

Poi vuole raggiungere la cima dell’Etna come avrebbe voluto fare il suo precursore l’inglese Brydone.  Era il 6 maggio del 1787 quando il poeta di Weimar, celebre in tutta Europa, salì sui suoi Monti Rossi (cicatrici di un’eruzione laterale del vulcano alle sue propaggini meridionali): “… la mattina per tempo ci siam messi in cammino e rivolgendoci sempre a guardare indietro, dall’alto dei nostri muli, abbiam raggiunto la zona delle lave non ancora domate dal tempo. Blocchi e lastre frastagliate ci presentavano le loro masse irrigidite, attraverso le quali le nostre cavalcature si aprivano a caso un sentiero.

Etna – antica incisione con il percorso delle colate laviche dell’eruzione del 1669 (tratto da Wikipedia)

Giunti alla prima vetta d’una certa importanza, abbiamo fatto sosta. Il Kniep ha riprodotto con grande esattezza ciò che si presentava innanzi a noi dalla parte della montagna: le masse di lava in primo piano, le vette gemelle dei Monti Rossi a sinistra, e di rimpetto a noi la selva di Nicolosi, sopra la quale si ergeva il cono dell’Etna ricoperto di neve e leggermente fumante… Avevo sott’occhio tutta la distesa della spiaggia da Messina a Siracusa, con le sue insenature e i suoi golfi, ora completamente libera, ora un po’ nascosta da qualche scoglio sulla riva…”. Il viaggio termina nella Messina disastrata dal sisma con una riflessione sull’impossibilità di conoscere un luogo in ogni dettaglio: “Davvero ci vorrebbe tutta una vita umana, anzi la vita di parecchi uomini, che man mano si trasmettessero le loro conoscenze”.                                

Henri-René-Albert-Guy de Maupassant (1850-1893) – ritratto di Hippolyte Bellangé (1800-1866) – tratto da Wikipedia

Guy De Maupassant (Tourville-sur-Arques, 5 agosto 1850 – Parigi, 6 luglio 1893), lo scrittore di Bel-Ami, visita la Sicilia nel 1885, a 35 anni, quasi un decennio prima della sua morte. La traversata è quella da Napoli a Palermo, capitale dell’Isola, cui egli dedica buona parte dell’attenzione. Lì  alloggia all’Hôtel des Palmes. Il resoconto ha il gusto elegante e umoroso del dettaglio. E’ possibile leggerlo nell’opera La Sicilia (Sellerio, Palermo, 1990) con l’introduzione di Gesualdo Bufalino3, cui segue una nota di Giuseppe Scaraffa. Venticinque tavole, tratte dal “Viaggio in Sicilia” di Jean Houël (di cui si parla nella seconda parte del libro), impreziosiscono la pubblicazione. Il francese si mostra attratto dalle bellezze naturali e artistiche dell’Isola, corteggiata e amata da diversi popoli al punto da combattersi per possederla e arricchirla  in modo sorprendente. Profondamente sedotto dalla luce e dai colori, così decisamente afferma all’inizio del suo resoconto: “E’ come la Spagna, il paese degli aranci, la terra fiorita la cui aria in primavera è tutta un profumo e accende ogni sera al di sopra dei mari il mostruoso faro dell’Etna, il più grande vulcano d’Europa. Ma ciò che sopratutto fa di essa una terra che è indispensabile visitare e unica al mondo, è il fatto che la Sicilia è, da un capo all’altro, uno strano e divino museo d’architettura”. Dalle influenze più varie è potuta scaturire un’arte singolare fra paesaggi di incomparabile suggestione.

Palermo, Cappella Palatina – foto tratta da www.federicosecondo.org

Il giorno stesso del suo arrivo, assapora a Palermo la bellezza “colorata” e “calma” della Cappella Palatina che gli comunica un fascino sensuale. All’albergo, un viaggiatore gli racconta che Wagner vi aveva dimorato tre anni prima per un lungo inverno, scrivendo le ultime note del “Parsifal”. Egli vuole visitare l’appartamento occupato dal geniale musicista e dall’albergatore che l’accompagna apprende il “nonnulla” delle “abitudini segrete” legate alla vita intima dell’uomo. Per esempio, Wagner era solito riporre la biancheria nell’armadio a specchio dopo averla impregnata dell’essenza di rose. Maupassant ne respira la fragranza racchiusa in quel mobile e gli sembra di ritrovare qualcosa dell’anima e del desiderio dello stesso compositore.

Catacombe di Palermo – foto di fine ‘800 di Roberto Rive – tratta da Wikipedia

Luce e tenebre in Sicilia, metafora dell’ossimoro della vita, una e multipla nel contempo! Maupassant si trova faccia a faccia con il lutto, visitando la Cripta dei cappuccini, luogo che racchiude una “sinistra collezione di morti”, un “immenso cimitero sotterraneo” con i corpi imbalsamati di uomini e di donne, di prelati e persino di interi gruppi familiari. Così gli si presenta il macabro spettacolo: “Ad un tratto davanti a noi una immensa galleria larga e alta, i cui muri sopportano una vera e propria popolazione di scheletri vestiti in maniera bizzarra e grottesca”. La visione lo turba. Poi, come a volere esorcizzare l’immagine della morte, si immerge nella magnificenza della cattedrale e del chiostro di Monreale.

Chiostro di Monreale – foto tratta da Wikipedia

A Siracusa, cui giunge dopo avere attraversato la Sicilia maledetta dello zolfo, egli porta le sue “devozioni” a una delle più belle Veneri del mondo: la Venere scoperta ottantuno anni prima da Saverio Landolina4. Della statua, che si vorrebbe stringere in un amplesso, aveva già una conoscenza indiretta: “Nell’album di un viaggiatore avevo visto la fotografia di questa sublime femmina di marmo e me ne ero innamorato come ci si innamora di una donna.

Venere di Siracusa – la statua venne scoperta nel 1804 dall’archeologo Saverio Landolina Nava (1743-1814)

Fu forse per lei che mi decisi ad intraprendere questo viaggio; di lei parlavo e sognavo in ogni istante, prima ancora di averla vista”. La descrizione coinvolge, ne viene fuori il fascino di una femminilità ammaliante: “La Venere di Siracusa è una donna, ed è anche il simbolo della carne (…). Non ha testa! Che importa? Il simbolo ne è diventato più completo. E’ un corpo di donna che esprime tutta l’autentica poesia della carezza (…), la donna che nasconde e rivela l’incredibile mistero della vita”. La poesia visiva del francese si evidenzia nel lungo brano disegnativo e melodico che conduce alla bella immagine del papiro che nel corso di millenarie stagioni ha lasciato testimonianza di sé5. Più che al mare, Maupassant sembra interessato alle pittoresche zone montuose, ai vulcani delle Eolie alla vista dell’Etna gigantesco che da lontano sembra guardare “i propri figli e nipoti, ai profumi dei campi e dei giardini”. Un’escursione sull’Etna gli fa dire: ” Tutta la Sicilia è nascosta da brume che si fermano vicino alla costa velando uniformemente la terra, in modo che ci sentiamo in pieno cielo, in mezzo ai mari, al di sopra delle nuvole, così in alto che pure il Mediterraneo, che si stende ovunque a perdita d’occhio, ha l’aria di essere ancora cielo azzurro.

L’azzurro quindi ci avvolge da ogni parte. Stiamo in piedi su un monte sorprendente, uscito fuori dalle nuvole ed annegato nel cielo, che si stende sulle nostre teste, sotto i nostri piedi, dappertutto”. A suggestionarlo è il fascino di un luogo particolare e sempre amatissimo: “Se qualcuno dovesse trascorrere un giorno solo in Sicilia e domandasse: che cosa bisogna vedere? Gli risponderei senza esitare: Taormina.

Teatro Antico di Taormina – foto tratta da Wikipedia

Non è altro che un paesaggio, ma un paesaggio dove si trova tutto ciò che sulla terra sembra fatto per sedurre gli occhi, lo spirito e la fantasia”. Non gli sfugge, parlando di uomini e cose di Catania, il comportamento arabo dei siciliani che differisce da quello dei napoletani, dove sempre si trovano tre quarti di Pulcinella. Il napoletano gesticola, si appassiona, si dimostra furbo e gentile; nel siciliano, invece, si trova la gravità del portamento unita a una vivacità di spirito: 

Il suo orgoglio natìo, il suo amore per i titoli, la natura della sua fierezza, la fisionomia stessa del viso lo avvicinano anzi pi allo spagnolo che allitaliano. Tuttavia, quel che continuamente, non appena si mette piede in Sicilia, dà limpressione profonda di trovarsi in Oriente, è il timbro della voce, lintonazione nasale dei venditori ambulanti (….). E la cantilena languida, monotona e dolce, ascoltata di sfuggita dalla porta aperta di una casa, è proprio la stessa, nel ritmo e nellaccento, di quella cantata dal cavaliere vestito di bianco che guida i viaggiatori attraverso i grandi spazi del deserto. 

Si rivela generoso quando, percorrendo le vie delle città o il territorio siciliano, osserva la tranquillità dell’ambiente che si mostra sicuro al viaggiatore: “In questo paese si possono percorrere le strade di giorno e di notte, senza scorta e senza armi; si incontrano soltanto persone piene di attenzioni nei confronti del forestiero, ad eccezione di alcuni impiegati delle poste e dei telegrafi. Ma del resto parlo solo per quelli di Catania”. Attuale quest’ultima osservazione se riferita all’apatia della burocrazia che è anche assenteismo dal lavoro! E i briganti? Maupassant, in sintonia con quanto la gente dice, scrive che non ce ne sono più, fatta eccezione di reati comuni ad opera di malfattori isolati e, non come una volta, di bande organizzate. Secondo la sua percezione sono gli stessi siciliani ad esagerare quando amplificano le storie di briganti che essi raccontano, e di certo lo fanno per spaventare gli stranieri al punto da scoraggiarli di giungere in Sicilia; al contrario, l’Isola è tranquilla come la Svizzera. Esagera forse in certe sue annotazioni come queste e ha ragione Bufalino che, alla fine dell’introduzione, scrive:

”Il fatto è che il viaggio in Sicilia rappresenta un viaggio totale nelle radici nere e vermiglie del mondo. Un viaggio necessario com’è necessaria la pubertà per crescere uomini. Ché, se non mancano macchie di sangue sul sole radioso dellisola; se tuttora a dispetto dei certificati di buona condotta che Maupassant benevolmente dispensa, un fantasma facinoroso saggira fra noi e degrada la qualità della nostra vita, perfino questa sagra dinfamie non è esente da una sua fosca grandezza. Tale essendo, anche nel male, il destino duplice della nostra isola magnanima e misera, da quando emerse dal mare e vi sancorò, zattera e arca quaternaria, per inzupparsi di tempo e di storia. Terra che, malgrado tutto, non v’è nessuno che non abbia eletta una volta per seconda madre e patria dellanima sperimentando, anche al di là del diritto di nascita, il difficile lusso desser siciliani”.   

Federico Guastella

Ragusa, 9 settembre 2022

Note

  1. Goethe, Viaggio in Italia, Sansoni, Firenze, 1959.
  2. Per l’approfondimento di storia e leggende sulla Taormina di ieri e di oggi: Toto Roccuzzo, Taormina, lisola nel cielo, Maimone, Catania, 1992.
  3. Lo scrittore di Comiso coglie l’occasione per dire la sua sulla Sicilia: “balsamo d’un clima ineffabile”, “un belvedere di variatissime scenografie naturali”, “una storia in progress leggibile (…) nelle più monumentali reliquie (…), “un palinsesto di civiltà, un concentrato ed economico giacimento di natura e cultura (…): graffiti dell’Addaura, necropoli di Pantalica, templi di Segesta e Agrigento, Cappella Palatina, cattedrale di Cefalù”. Una caleidoscopica fonte di ispirazione per i visitatori: “per attingervi, non dico la verità, ma almeno una plausibile verifica, giustificazione e consolazione di quella fortuita insensatezza ch’è il vivere”. Presentandola come l’emblema di un dissidio, scrive: “E’ una terra, la nostra, dove vita e morte attingono insieme e subito il culmine; una terra iperbolica, che coniuga imparzialmente la pompa con lo squallore, l’urlo con il silenzio, sotto un sole che non tramonta. Sta qui, forse, in questa fertile disuguaglianza, in questo ossimoro ininterrotto, il segreto dell’attrattiva che l’isola ha esercitato nel corso dei secoli sull’inconscio collettivo dell’occidente”.
  4. Scultura marmorea, copia romana di un originale greco della prima metà del I secolo a.C., conservata presso il Museo archeologico  di Siracusa. Rinvenuta in un ninfeo negli Orti Bonavia, poi Giardino Spagna da Saverio Landolina Nava, nel 1804.
  5. (…) quindi salgo subito in barca per andare a salutare, dovere di scrittore, i papiri dell’Anapo. Si attraversa il golfo da una riva all’altra e si scorge, sulla riva piatta e nuda, la foce di un piccolissimo fiume, quasi un ruscello, in cui si inoltra il battello. La corrente è impetuosa e difficile da risalire. A volte si rema, volte ci si serve della pertica per scivolare sull’acqua che scorre veloce tra due sponde coperte di fiori gialli e splendenti, due sponde d’oro. Ecco delle canne che si piegano al nostro passaggio, si inclinano e si rialzano, poi, con lo stelo nell’acqua, degli iris blu, di un blu intenso, sui quali volteggiano innumerevoli libellule dalle ali trasparenti, madreperlacee e frementi, grandi come uccelli-mosca. Adesso, sulle due sponde che ci imprigionano, ecco giganteschi cardi e convolvo smisurati, che allacciano le piante terrestri con le canne del ruscello. Sotto di noi, in fondo all’acqua, vi è una foresta di grandi erbe fluttuanti che ondeggiano, galleggiano, sembrano nuotare nella corrente. Poi l’Anapo si separa dall’antico Ciane, suo affluente. Procediamo tra le rive, aiutandoci con una pertica. Il ruscello serpeggia con pittoreschi paesaggi, rive fiorite e ridenti. Infine appare un’isola piena di strani arbusti. Gli steli fragili e triangolari, alti da nove a dodici piedi, recano in cima ciuffi rotondi di filamenti verdi, lunghi, sottili e soffici come capelli. Si direbbero teste umane divenute piante, gettate nell’acqua sacra della sorgente da uno degli dèi pagani che vivevano lì. È il papiro antico. E infatti i contadini chiamano questa canna parrucca. Eccone altri più lontano, un intero bosco. Fremono, mormorano, si chinano, confondono le loro fronti pelose, si sfiorano, paiono parlare di cose sconosciute e lontane. Non è forse strano che l’arbusto venerabile, che fu custode del genio umano, abbia, sul fragile corpo di arboscello, una spessa criniera folta e fluttuante, simile a quella dei poeti?

L’Autore

Federico Guastella

Federico Guastella, abilitato all’insegnamento di Scienze Umane e Scienze umane e storia, è stato Ragusa dirigente scolastico. Apprezzato saggista, ricercatore scrupoloso ed esigente, autore di testi letterari in prosa e in versi, ha al suo attivo anche contributi di pedagogia e didattica, essendo stato impegnato in corsi di aggiornato per docenti della scuola primaria e dell’infanzia. La sua produzione spazia così dalla saggistica alla narrativa alla poesia. Nell’opera Chiaramonte Gulfi – La mia diceria (Ragusa, 2014) ha proposto un itinerario della memoria individuale e collettiva in un serrato dialogo a più voci tra l’attualità e la storia recente, tra le relazioni dei luoghi dell’anima e dei luoghi della natura e del paesaggio. Il libro Colapesce (Ragusa, 2012), scritto in collaborazione, ha valore pedagogico-educativo, oltre che letterario e demologico. Tra le ultime opere pubblicate dall’editore Bonanno di Acireale-Roma, si ricordano: Andrea Camilleri, Guida alla lettura(2015); Fra terra e cielo. Miscellanea di saggi brevi con Gesualdo Bufalino(2016); Serafino Amabile Guastella. La vita e le opere (2017); Il mito e il velo (2017); Viaggio intorno al libro rosso (2018); Ignazio Buttitta e Danilo Dolci, due profili culturali della Sicilia (2019); Luigi Pirandello. I romanzi, i miti (2020). Degno di nota il volume Una rilettura del Gattopardo (Bonanno 2021). Recentemente ha svolto una ricerca sulla Massoneria in provincia di Ragusa che si è conclusa con la pubblicazione del libro Alle radici della Massoneria Iblea (Bonanno, 2021), preceduto dall’opera Pagine esoteriche (Bonanno, 2017). Ha curato la prefazione di più opere; gli sono stati pubblicati articoli in diverse riviste; è stato premiato in più concorsi per la poesia e annualmente si è classificato al primo posto per i saggi anzidetti di cultura siciliana al concorso città di Favara (AG), indetto dal Centro Culturale “R. Guttuso”. E’ uscita recentemente la sua monografia Sguardo su Sciascia (Bonanno, 2022). Studioso di storia locale, attualmente è impegnato nella stesura del volume Il miele dolceamaro degli Iblei. Privilegiando la letteratura dei siciliani, sta altresì lavorando su una monografia dal titolo Sicilia letteraria – Luoghi e volti.

e-mail: federico.guastella@tin.it 

 

 

 

 

 

 

L’uomo di fil di ferro, di Nunzio Brugaletta

Tratto dal racconto di fantascienza del precursore Ciro Khan, il nuovo libro a fumetti di Nunzio Brugaletta affronta, con efficacia e sensibilità, due dei temi più dibattuti sull’Intelligenza Artificiale: l’autocoscienza dei robot e il rapporto uomo-macchina. Il pensiero corre al famoso HAL 9000 del film 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrik, del 1968 e, ancora prima, al racconto Io, robot, di Earl e Otto Binder, del 1939 e al Ciclo dei robot di Isaac Asimov, del 1950. In effetti molti sono i contenuti che potrebbero rinviare a tali lavori statunitensi, se non ci fosse il piccolo dettaglio che L’uomo di fil di ferro fu pubblicato addirittura nel lontano 1932, in Italia, tanto da essere classificato (Wikipedia) come Protofantascienza italiana.

Al di là dell’alone di mistero che aleggia intorno all’autore del racconto, rimane la profondità delle riflessioni e la forza della storia narrata, nonché una straordinaria capacità di anticipare, sia pure a grandi linee, un futuro ancora lontano ma già inquietante. L’adattamento mirabile dell’artista Nunzio Brugaletta, riesce nella non facile impresa di rappresentare e trasmetterci ambienti fantastici e stati d’animo inusuali, specie se riferiti a “semplici” macchine. Il risultato finale è un’opera di grande impatto, sia grafico, sia emotivo. Addentrandoci nella lettura, mano a mano che scorrono le stupende tavole dell’Autore, veniamo trascinati nel vortice di una storia umanissima, che vede tra i protagonisti proprio la macchina, il robot Zeta Otto, potentissimo e al tempo stesso umanamente così fragile.

Pubblichiamo di seguito, su gentile concessione dell’Autore, alcune tavole tratte dal libro e l’introduzione integrale, scritta da M.R. Cultrera, che ci offre con chiarezza le coordinate culturali ed artistiche entro le quali collocare l’opera di Nunzio Brugaletta, potendone così apprezzare al meglio la lettura.

                                                                      Pippo Palazzolo

Ragusa, 18 giugno 2022

 

Introduzione – di M.R. Cultrera

Uomo-macchina: diade o dicotomia?

Nel complesso e variegato panorama culturale degli anni trenta, in dislocazione periferica, si manifesta a Palermo una inconsueta epifania, l’uomo di fil di ferro di Ciro Kahn, pseudonimo di Antonio Prestigiacomo. Le radici lontane, affondano, non come specifico humus culturale dell’autore (non possiamo presumerlo), nella rivoluzione industriale che aveva partorito con lo spettro dell’automazione l’incubo della macchina che fagocita l’uomo (Frankenstin, M.Shelley 1818). L’esito disastroso della vicenda causato dalla hibris dello scienziato (Victor Frankenstein) spintosi oltre le colonne d’Ercole della morale, si poneva come ammonimento ad ogni faustiano eccesso o tentazione.

L’uomo di fil di ferro – tavola n.5

Negli stabilimenti Falqui fondati nel 1950 dal capostipite Guido per la produzione di automi in serie, eventi e personaggi, umani e non, si susseguono in aggrovigliate vicende al cui interno i rivoli non sempre sono definiti con lineare consequenzialità. Il tessuto narrativo si dirama in filoni tematici che compongono un puzzle intrigante e policromo: la storia delle dinastia Falqui, percorsa dal fil rouge sentimentale di Al e Viola e impreziosita dalla creazione del primo robot “inconsumabile”, Zeta Otto; lo scontro tra gli stabilimenti e la Somma Accademia d’Europa di E.I.Sedana, illuminato scienziato, timoroso degli esiti di una meccanizzazione sottratta al controllo della società civile; il colpo di stato di C.Mundus nel Gran Consiglio e l’inizio delle ostilità con gli uomini di ferro che conquistano pacificamente la metropoli convertendo gli attacchi iniziali degli abitanti nell’indiscussa acclamazione di Zeta Otto, osannato dalla folla.

L’uomo di fil di ferro – tavola n.17

Nelle pagine conclusive il flusso narrativo sfocia in un epilogo denso di significati, che riannoda ogni filo della storytelling, anche quello affettivo di Al e Viola declinato sul registro ironico del “e il matrimonio tolse loro il gusto dei dispetti”.

Questo per quanto riguarda la historia rerum gestarum, ma se ci si prende la briga di spingersi oltre la superficie evenemenziale si coglie il leitmotiv basso e dolente, che accompagna il confronto costante uomo-macchina.

Zeta Otto, sullo sfondo delle rovine romane e dello skyline di una città all’orizzonte, proclama orgogliosamente di rappresentare l’ordinamento umano di essere custode dei valori della tradizione e della legalità, di non volere in alcun modo nuocere agli uomini, scegliendo di intrattenere con loro un rapporto di operosa collaborazione. Eppure … Eppure la tensione etica e l’amore per la pace e l’armonia che convertono in cosmo il caos minacciato dallo scontro non compensa l’impossibile equivalenza “inconsumabilità=vita”. Nessun avanzato tecnicismo si può mai convertire nella pulsante dimensione biologica della carne e del sangue. Tale urticante consapevolezze rappresenta lo spannung della narrazione.

Ma come rendere visivamente l’irriducibile alterità della macchina all’uomo? Ed ecco l’ingegnosa risposta di N.Brugaletta: la maschera.

L’uomo di fil di ferro – tavola n.39

La maschera nasconde e inganna, copre ogni congerie di viti e assemblaggio meccanico, copre, ma rende chiara l’impossibilità della trasmutazione materica. Trasmutazione, invece, dalla scrittura all’immagine che riesce perfettamente a N.Brugaletta, quando traduce la storytelling in segni asciutti sicuri, essenziali, come se i segmenti narrativi perdessero spessore fonico per guadagnare in icasticità ed evidenza. Pennellate di colore ravvivano il monocromatismo delle pagine fino all’esaltazione naif dello splendore del sole che nei riquadri conclusivi diventa simbolo, al tramonto, di un progetto incompiuto, destinato a dissolversi nella catabasi al mare e al suo preludio di una nuova realtà che, nel verde coltivato, rigetta ogni idolatria tecnologica e i suoi santuari per riaffermare l’unicità dell’uomo, potente nella sua fragilità. Utopia? Forse, ma il termine significa in nessun luogo, non in nessun tempo.

M.R. Cultrera

L’Autore

Nunzio Brugaletta

Nato a Ragusa nel 1950, Nunzio Brugaletta si è laureato in Matematica presso l’Università di Catania. Dopo aver superato il concorso a cattedra ha insegnato Informatica presso l’Istituto Tecnico Commerciale F.Besta di Ragusa dedicandosi anche alla produzione di materiali didattici. Appassionato da sempre di arti grafiche e da tutto ciò che ruota attorno ad esse (fumetti principalmente ma anche grafica in tutte le sue declinazioni,
arti pittoriche), al pensionamento si è dedicato alla ripresa di una antica passione, coltivata da giovane ma in stand-by durante l’attività lavorativa: il disegno di fumetti. Fondamentalmente si occupa di adattare a fumetti testi letterari e ha pubblicato adattamenti da Kafka, Pirandello, Dostoievskji, Gogol…

Pubblicazioni: https://ilmiolibro.kataweb.it/ricerca/+?solrex%5Bt%5D=&solrex%5Bc%5D=&solrex%5Ba%5D=nunzio+brugaletta

Contatti: brugaletta.nunzio@gmail.com

Visitando Ragusa – di Federico Guastella

 

Ragusa Ibla – foto di Pippo Palazzolo

“Certamente poche persone che stanno camminando sulle più lisce strade di Londra o Parigi conoscono che molto dell’asfalto con cui queste strade sono pavimentate proviene dalla classica terra di Sicilia, ricavato dalla montagna di Ragusa, una città nel Sud di quell’isola. (…) Certamente Ragusa è un luogo da visitare. Se un viaggiatore prende riposo in una dolce sera primaverile su qualche sperone di roccia o in qualche piazza in miniatura, testimonierà una scena che non può dimenticare e che indugerà a luogo e piacevolmente nella sua memoria. Il sole calante, striando l’orizzonte ad occidente con il porporino, il colore oro e cremisino; e talmente luminoso con splendore è il cielo che gli occhi tornano con sollievo  alla foschia del rosato violetto che ciondola intorno alle valli più lontane. La liscia e grigia roccia delle montagne ripete il violetto colore. In lontananza il mare è un fuoco liquefatto”.

Il brano, desunto da Studi Siciliani (pubblicato la prima volta nel 19151), è di Alexander Nelson Hood (1854-1937), duca di Bronte e pronipote del noto ammiraglio Lord Orazio Nelson, che a Ragusa ha dedicato un capitoletto del suo itinerario in Sicilia. Gaetano Cosentini, curatore della presentazione, ha puntualizzato: “Lo studio della nostra terra fu condotto in modo elegante e non trascurò alcun particolare, anzi profondendosi in ricerche precise come nel caso di Ragusa: non sono momenti letterari ma osservazioni sul preciso andamento della vita sociale e culturale anche nel suo hinterland, come gli spunti su Chiaramonte Gulfi. Sono molto significative le note sul carnevale nel ragusano e sugli usi gastronomici relativi, mentre non mancano le spigolature da Serafino A. Guastella”. 

Il visitatore, già vissuto dal 1870 per lunghi periodi a Taormina nella sua “villa Falconara”, si è documentato in modo scrupoloso prima di arrivarvi; ha letto le notizie che riporta mescolandole alle sue osservazioni e sensazioni e a spiccare è la nota paesaggistica coi colori splendidi della natura e dal gusto bozzettistico.

Sono le pagine sull’asfalto a richiamare l’attenzione. La sua curiosità è alimentata dal mito quando, parlando delle caverne scavate nella roccia, ripensa alle divinità del mondo degli inferi e richiama la vicenda di Persefone; l’immaginazione gli fa incontrare Demetra mentre a lui appare “un veritiero figlio di Efesto” “nelle sue cave di pietra nera”.

Largo San Paolo, Ragusa Ibla – foto di Pippo Palazzolo

Dalla realtà al mito, e viceversa, l’andamento descrittivo si snoda dunque partendo dallo stupore. Era il tempo dell’estrazione della pietra asfaltica da quelle oscure bocche sui fianchi delle colline con un durissimo lavoro che sembra essergli sfuggito.

Sul finire degli anni Cinquanta, il vicentino Guido Piovene rimane suggestionato dal paesaggio roccioso così simile a quello della Terrasanta. Gli sembrava un presepio la città in altura chiusa tra valli scoscese. Il raffinato scrittore ha trovato parole così appropriate che rendono l’idea di un barocco dal riflesso d’Oriente: un respiro, una breve fuga nel capriccioso. Ed eccoci ad un’altra particolarità di quest’angolo di Sicilia più a sud di Tunisi: la pasticceria che offre gusti ai palati più raffinati: “Mi incantai a guardare una pasticceria, la più bella della Sicilia. Quei dolci coloriti, pingui, nutritivi, cassate d’ogni qualità, conchiglie di pistacchio, cavolfiori di crema, fanno parte del bel barocco siciliano. Alcuni nomi ricordano eventi guerrieri. I cavolfiori gonfi si chiamano teste di turco, e procurano facili vittorie sugli infedeli”. Non solamente si lascia sedurre dai tratti pastorali degli Iblei, dalla civiltà della pietra espressa nei muretti a secco o  dalle scenografiche valli. Il suo sguardo accoglie i mutamenti: dalle miniere d’asfalto ai giacimenti petroliferi. E fa un discorso sulle delusioni dei ragusani senza però trascurare la nota di costume di una comunità in transizione: “Certo il petrolio ha portato una scossa, più ancora che all’economia, agli animi ed al costume”. 

Ragusa – Miniere di asfalto (1937) foto www.fondoluce.archivioluce.com

Anche Sciascia, facendo più di vent’anni dopo il suo ingresso nella provincia di Ragusa, esprimeva una predilezione per l’attività dolciaria. Nel suo saggio La Contea di Modica (1983), per restare alla gola, elogiava il cioccolato di Modica assimilato a quello spagnolo di Alicante. E ricordava quei dolci, nel modicano  chiamati ‘Mpanatigghi, “fatti di pasta sottilissima e fragile a contenere un sapiente impasto di carne e cioccolato principalmente”. 

Ragusa – ‘A timpa ro nannu, illuminata dall’artista Franco Cilia.

Felice l’intuizione di Piovene sul panorama che nell’ampiezza della Cava San Leonardo si può osservare dal belvedere della rotonda “Maria Occhipinti”, in fondo a via Roma: gli richiamava la Palestina la nostra terra di quiete e di rocce, del mito di Dafni2 e delle favole, oltre che della storia. A destra dello spettatore si arrampica sul colle l’impareggiabile Ibla dove regna il Duomo di San Giorgio; alla sinistra, dalle pareti macchiate di carrubi e arbusti aromatici spicca a mo’ di sfinge ‘A timpa Ro nannu (“la roccia del nonno”, così chiamata dagli antichi che tramandavano una bizzarra leggenda di tesori nascosti): un monolito pietroso di colore rossiccio, una tessitura in  verticale della materia lavorata dal vento e dalle piogge come ad esprimere il vitale archetipo del femminile (Timpa) nel suo farsi di generazione in generazione (Nannu). Di pulsante energia si mostra in faccia alla città, testimone pressoché monumentale d’una civiltà fluviale tramontata. Nel 1976 la illuminò il noto artista-pittore Franco Cilia e lungo le pareti pose delle vedette che sarebbero piaciute al Pirandello dell’opera teatrale I giganti della montagna: “Le silhouettes, concepite da Franco Cilia e collocate in modo da essere mimetizzate di giorno e risplendere di notte, diventano fuochi virtuali di fantasmatiche teorie di entità telluriche, coordinate di luoghi, destinati a svanire all’alba, icone dell’inquietudine onirica, sentinelle di uno spazio sacro inviolabile, vedette dell’isola di luce abitata dalla Timpa ro nannu”3.

Ragusa – Balcone barocco,  foto di Pippo Palazzolo.

Spettacolare appariva ai nuovi turisti il paesaggio ibleo offerto dalla bellezza aurea del barocco, grazie all’opera di abili intagliatori che avevano amato la tenerezza della pietra per plasmarla con la fantasia nella musicalità di volute, di spirali, di forme placide e gioconde. La finezza di un arcano gioco di prestigio, faticoso e sudato, sta proprio in questo: nell’aver dato “libero corso al molteplice linguaggio della materia”. Dopo Bernard Berenson, Anthony Frederick Blunt, effettuando nel 1965 un viaggio in Sicilia, arrivò a Ragusa. Le sue osservazioni manifestano una dettagliata attenzione verso un ricco patrimonio artistico: la chiesa di San Giorgio a Ragusa Ibla e quella di Modica dedicata allo stesso santo. La prima è documentata come opera del Gagliardi, architetto della città di Noto e dell’intero Val di Noto; la seconda o dello stesso Gagliardi o di un collaboratore. Ecco un frammento che rende il senso e la magia del luogo: 

Duomo di San Giorgio – Ragusa Ibla – foto tratta dal Wikimedia Commons

“In entrambe l’architetto fa un uso brillante della località prescelta per disporre di fronte ad essa un’ampia scalinata, che a Ragusa scende verso una piazza leggermente di sbieco rispetto all’asse della chiesa, mentre a Modica si snoda giù per il declivio con duecentocinquanta gradini fino a raggiungere la strada sottostante (…) in entrambi i casi il disegno tende con spinta ascensionale verso il culmine della torre campanaria che svetta dal corpo centrale e conferisce un vigoroso accento curvilineo all’intero impianto”4.  

D’ora in poi il barocco, rimasto estraneo al Grand Tour sette-ottocentesco, offrirà una visione complementare al territorio rurale delle masserie e dei muri a secco che chiudono spazi, aprendone altri.  

Ragusa – Masseria e muri a secco – foto di Pippo Palazzolo

 Di Dominique Fernandez, romanziere e saggista che in diverse opere ha offerto un cospicuo contributo alla conoscenza della cultura siciliana, vogliamo ricordare Le radeau de la Gorgone (1988 con fotografie di Ferrante Ferranti); Palerme et la Sicilie (1988), dove egli compie inusitati scavi semantici per cogliere rarefatte atmosfere del tempo trascorso. Giungendo a  Ragusa, la percepisce come “una delle più interessanti città della Sicilia”: anche “una delle più protette”. Da colto viaggiatore francese, si sofferma sugli angoli espressi dai valenti artigiani della pietra. 

Sono le descrizioni del Circolo di conversazione di Ibla e del cosiddetto Castello di Donnafugata a destare maggiore interesse. Non lascia indifferenti la densità delle metafore utilizzate: 

“La particolarità di questo circolo, creato in linea di principio per la conversazione, è che sembra destinato piuttosto al silenzio e alla cupa rimuginazione. I posti sono così distanti uno dall’altro che si stenterebbe a sentire, anche se l’atmosfera funebre non inducesse ad un rispettoso mutismo o ad un ovattato torpore. Il centro del salone è vuoto. Ci si va per leggere il giornale, giocare a carte in una saletta adiacente, bere un caffè da soli al bar o vedersi riflessi all’infinito, dal fondo di uno dei canapè, attraverso il gioco degli specchi: odiosa moltiplicazione di un Io che ciascuno porta in Sicilia come una punizione”.

Potrebbero sembrare esagerate le sue osservazioni nate occasionalmente secondo l’ottica psicologica del grottesco. Eppure non può ignorarsi che i circoli, di matrice illuministica, si diffusero in Sicilia nell’Ottocento per promuovere la cultura delle “buone maniere”. Anche per discutere di interessi economici e di politica, tant’è che furono strettamente sorvegliati dalla polizia borbonica. 

Si sa: Perseo aveva donato la sua testa alla dea Atena che la fissò al centro del proprio scudo per terrorizzare i nemici. Ma lo sguardo della Gorgone stavolta non è terrificante perché col suo giornale di viaggio Dominique vuole incantare. Accattivante stavolta, e distante dai precedenti toni un po’ sprezzanti, la narrazione del percorso, visitando la Donnafugata di Corrado Arezzo. 

Il paesaggio è di scena e intorno alla vegetazione si eleva “una mole massiccia”: 

Il Castello di Donnafugata – immagine tratta da Wikipedia

Il “castello”, com’è chiamato enfaticamente a Ragusa, possiede proporzioni monumentali e una severa maestosità addolcite da un fregio di merli (…). Quanto al parco, nulla ne altera la sovrana bellezza (… vi si scorge) il famoso labirinto, costruito su mezzo ettaro, non con cespugli, ma in pietra, con muri alti due metri che impediscono di orizzontarsi. Alcuni viali finiscono in un vicolo cieco; si ritorna sui propri passi senza saperlo; si riparte; ci si perde; si incrociano altri visitatori smarriti. Impossibile ritrovare l’uscita (…).

Labirinto del Castello di Donnafugata – immagine tratta da www.castellodonnafugata.org

Perché questo fantasma di meandri in pieno bagliore solare? Al centro del dedalo non c’è nulla da vedere; questo labirinto non conduce in nessuna parte. Dà forma al vuoto, esalta il niente. Una buona occasione per ricordarsi che i siciliani, e non solo il principe di Lampedusa, guardano al progresso con un occhio più che scettico. Per essi, niente cambia mai. La storia si avvolge su sé stessa, facendo e disfacendo i registri politici con l’indifferenza della natura, ingannando gli uomini con la promessa di magnifici ideali che gli impedisce di realizzare. Labirinto metaforico, di cui questo è l’ipostasi, successione di false speranze che sfociano in inevitabili delusioni.

In città non gli sfuggono le allegorie dei mascheroni: i tre di palazzo Bertini, espressione del potere: 

Ragusa – Balcone barocco di Palazzo Cosentini – foto tratta da Wikipedia

“Il mascherone di destra porta turbante e baffi: rappresenterebbe il commercio, sicuro di sé, senza paura, forte del denaro e del buon andamento degli affari. Quello di mezzo porta il pizzo, sguardo fisso e lontano, alterigia e boria dell’aristocratico, rappresenterebbe il potere che si fa beffe della legge. Quello di sinistra col viso deforme, il naso smisurato, la bocca sdentata, la lingua pendula, rappresenterebbe il contadino, che finisce per averla vinta sugli altri due: il villano, sprovvisto di tutto, per il solo fatto di non avere nulla da perdere, possiede una forza superiore a quella del nobile e del ricco.”

Comunque stiano le cose, dinanzi a questi sassi plautini sorprende la stravaganza barocca nella continua dialettica tra materia e immaginazione. E vengono in mente le bizzarrie di villa Palagonia a Bagheria o le mirabilia di Bomarzo.

Cromie alla cava di asfalto – foto di Silvana Licciardello

E’ la stessa pietra metamorfica che a Francesco Lanza, l’autore dei “Mimi” amato da Leonardo Sciascia, fa assumere atteggiamenti e toni visionari che si mostrano nel contrasto tra il buio e la solarità. Gli capitò infatti di vedere all’ingresso delle miniere di asfalto “Una fanciulla (…) slanciata come uno stelo, bruna, dagli occhi ardenti e colmi, le labbra tumide e sanguigne: perfettamente intonate a questo paesaggio appassionato e severo. Non le manca che un fiorellino in mano, una fronda d’ulivo, una palma per essere così moderna e viva”.   

Questo l’apprezzamento più autentico e più siciliano che si può fare: la bellezza come meta esistenziale. A dirla con Jung, essa richiede occhi nuovi capaci di vederla. Anche un cuore nuovo capace di desiderarla, e ciò lo scrittore di Valguarnera l’aveva compreso.

Federico Guastella

Ragusa, 29 maggio 2022

 

Note:

  1.  A. N. Hood, Studi Siciliani, Rotary International Distretto 2110 Sicilia e Malta Club di Ragusa Anno 2006-2007, Elle Due srl – Ragusa.
  2. F. Guastella, Chiaramonte Gulfi. La mia diceria, tip. Pennacchio, Ragusa, 2014.
  3. S. Stella, in Franco Cilia, ‘A TIMPA RO NANNU, L’opera rivelata, a cura del Comune di Ragusa (in PDF).    
  4. Sulle due facciate oggi sappiamo di più leggendo le seguenti opere: Paolo Nifosì-Giovanni Morana, La chiesa di San Giorgio di Modica (1996); Paolo Nifosì, Modica arte e architettura, (2015). La facciata di San Giorgio di Modica comincia ad essere costruita su progetto di Francesco Paolo Labisi nel 1761. I lavori del primo ordine risultano conclusi nei primi anni ottanta del Settecento e riprenderanno cinquant’anni dopo, negli anni trenta dell’Ottocento, per il secondo e il terzo ordine su progetto probabile di Carmelo Cultraro: saranno terminati nel 1848. Per la facciata ci sarà un cantiere aperto in più fasi per ben 85-novant’anni circa. Senza alcun dubbio il rimando della facciata a quella del San Giorgio a Ragusa Ibla, ma stilisticamente si registra il passaggio da un tardobarocco di quella di Ragusa ad un rococò dell’altra di Modica. 

L’Autore.

Federico Guastella

Federico Guastella, abilitato all’insegnamento di Scienze Umane e Scienze umane e storia, è stato Ragusa dirigente scolastico. Apprezzato saggista, ricercatore scrupoloso ed esigente, autore di testi letterari in prosa e in versi, ha al suo attivo anche contributi di pedagogia e didattica, essendo stato impegnato in corsi di aggiornato per docenti della scuola primaria e dell’infanzia. La sua produzione spazia così dalla saggistica alla narrativa alla poesia. Nell’opera Chiaramonte Gulfi – La mia diceria (Ragusa, 2014) ha proposto un itinerario della memoria individuale e collettiva in un serrato dialogo a più voci tra l’attualità e la storia recente, tra le relazioni dei luoghi dell’anima e dei luoghi della natura e del paesaggio. Il libro Colapesce (Ragusa, 2012), scritto in collaborazione, ha valore pedagogico-educativo, oltre che letterario e demologico. Tra le ultime opere pubblicate dall’editore Bonanno di Acireale-Roma, si ricordano: Andrea Camilleri, Guida alla lettura (2015); Fra terra e cielo. Miscellanea di saggi brevi con Gesualdo Bufalino (2016); Serafino Amabile Guastella. La vita e le opere (2017); Il mito e il velo (2017); Viaggio intorno al libro rosso (2018); Ignazio Buttitta e Danilo Dolci, due profili culturali della Sicilia (2019); Luigi Pirandello. I romanzi, i miti (2020). Degno di nota il volume Una rilettura del Gattopardo (Bonanno 2021). Recentemente ha svolto una ricerca sulla Massoneria in provincia di Ragusa che si è conclusa con la pubblicazione del libro Alle radici della Massoneria Iblea (Bonanno, 2021), preceduto dall’opera Pagine esoteriche (Bonanno, 2017). Ha curato la prefazione di più opere; gli sono stati pubblicati articoli in diverse riviste; è stato premiato in più concorsi per la poesia e annualmente si è classificato al primo posto per i saggi anzidetti di cultura siciliana al concorso città di Favara (AG), indetto dal Centro Culturale “R. Guttuso”. E’ in corso di stampa la sua monografia Sguardo su Sciascia. Studioso di storia locale, attualmente è impegnato nella stesura del volume Il miele dolceamaro degli Iblei. Privilegiando la letteratura dei siciliani, sta altresì lavorando su una monografia dal titolo Sicilia letteraria – Luoghi e volti.

Alla scoperta di Cava d’Ispica – di Federico Guastella

Ricca simbologia quella della roccia, così magistralmente evidenziata da Mircea Eliade: “La sua resistenza, la sua inerzia, le sue proporzioni, come i suoi strani contorni, non sono umani: attestano una presenza che abbaglia, atterrisce e minaccia. Nella sua grandezza e nella suan durezza, nella sua forma e nel suo colore, l’uomo incontra una forma e una realtà appartenenti ad un mondo diverso da quel mondo profano cui fa parte”1. 

Tomba della necropoli di Calicantone, Cava d’Ispica – foto tratta da www.it.wikipedia.org

L’utilizzo della roccia a sepolcreto nel periodo preistorico è un dato costante. Difatti il segno incisivo, il connotato peculiare dell’area iblea è fornito da grotticelle artificiali funerarie che aprono le pareti dei declivi rocciosi. Anche l’ipogeo rispondeva a tali esigenze. A Ragusa, in contrada Calaforno del Comune di Monterosso Almo, il ritrovamento di un ipogeo, rudimentale e inornato, fa pensare a quello maltese di Hal Saflieni ed è un documento dell’attività mineraria di selce, oltre che funeraria. 

Diciamo appena che le fasi – bronzo antico, medio, tardo, finale – vanno dal 2200 all’850 a.C. con l’insediamento prolungatosi fino alla colonizzazione greca intorno al 730 a.C. Probabile che la popolazione fosse distribuita in varie borgate e quasi sicuramente le grotte, vicine le une alle altre, furono utilizzate come abitazione da famiglie dedite alla lavorazione dei campi (“aratores”). 

Uno dei luoghi certamente più noti è “Cava d’Ispica” (il termine “Cava” è da intendersi non come luogo di estrazione, ma come fondovalle). 

Panoramica di Cava d’Ispica – foto di Antonino Lauretta, tratta da www.cavadispica.org 

Insieme a “Pantalica” rappresenta la forma culturale più significativa. Holm la chiamò “La città delle caverne” ed è situata lungo i costoni meridionali dei monti Iblei, a pochi chilometri da Modica e fino alle porte di Ispica2. Grazie alle esplorazioni di Paolo Orsi, avviate nel 1905, è stato possibile conoscerne il percorso di sepolture, ipogei, chiesette. La valle, che ha l’aspetto di canyon, lunga quasi tredici chilometri, larga un centinaio di metri e profonda in qualche suo punto fino a trenta e più metri, riporta a comunità chiuse da un territorio inaccessibile e facile alla difesa da attacchi esterni.

Grotta di Cava d’Ispica – foto di Antonino Lauretta, tratta da www.cavadispica.org

Meta di escursioni e gite scolastiche, Gesualdo Bufalino nell’opera La luce e il lutto ha scritto: “E’ una valle lunga e magra, un termitaio di grotte, loculi, sacelli, che le meteore e gli uomini hanno misteriosamente scavato nei secoli (…). Dopo poche centinaia di metri, senza bisogno di spingervi oltre, vi sentirete già promossi a catecumeni di un felice e verde Aldilà. Senza le verghe, le catene, i lamenti di lemuri, i flosci voli di pipistrelli che accompagnano di norma le trasferte sottoterra di ogni Orfeo, Enea, Vasd’elezione”3.

Non meno accattivante la descrizione dello storico Solarino:

“Ispica è una valle lunga quasi otto miglia, che con varia curvatura si frappone fra Modica e Spaccaforno. In fondo, il piccolo Busaidone qua dorme in piccoli stagni, sotto le tremule foglie del capelvenere, là si risolve in cascatelle: le roccie in certi punti s’avvicinano, e si guardano come i fabbricati che fiancheggiano una via, in certi altri s’allargano e si ripiegano, dando più aria e più luce agli acanti latifolî, agli oleandri e ai carrubi, le cui radici si insinuano fra le loro fenditure. Ma i fianchi di quelle rupi son tutti perforati da innumerevoli grotte, a piani sovrapposti, con sottili spartimenti, con incomodo accesso, e senza alcuno abbellimento nell’interno. Verso l’estremità nord-est se ne trovano più ampie, e più comode, fornite di scale, comunicanti tra loro con qualche corridoio, divise in appartamenti”4.

Toma a finti pilastri, Cava d’Ispica – foto tratta da www.it.wikipedia.org

Vi si insediarono i Sicani (autoctoni o di origine iberica5) che, secondo Solarino, le diedero il nome d’Ispica, la cui radice probabilmente deriva dal celtico ys (“Gli asili della rupe, ovvero la rupe degli asili”: “… Lo si tradusse poi pleonasticamente nel latino Ispicae-fundum, che fra i moderni divenne Spaccaforno”). 

Ai Sicani si sovrapposero i Siculi che arrivarono in Sicilia intorno al 740 a. C.: Sikeloi chiamati dai Greci, di probabile origine egeo-anatolica o africana oppure peninsulare per altri studiosi secondo le fonti di Tucidide, dello storico Dionigi di Alicarnasso, di Diodoro Siculo6. La loro presenza, oltre a Cava d’Ispica, si diffuse in buona parte del territorio, scegliendo pur sempre luoghi imprendibili dell’entroterra per il timore di scorrerie provenienti dal mare: a Ibla e a Canicarao, a Castiglione e a Cava dei Servi, a Chiaramonte, Giarratana, monte Casasia, Modica. 

Raffaele Solarino su una presunta diversità culturale tra l’una e l’altra popolazione ha scritto: “Guarentita da maggior stabilità, e da un nerbo di forze più significante, l’industria agricola cominciò, nell’isola, al tempo dei Siculi, il suo progresso, e deve riferirsi a costoro la leggenda di Cerere, quella di Aristeo, e quella del sangue di Urano, da cui proveniva la fertilità della Sicilia. Come il periodo ciclopico e sicano è rappresentato dal mito di Polifemo, così il periodo siculo viene rappresentato dal mito di Dafni: nell’uno la forza bruta, e selvaggia, che si divertiva a lanciare sassi a’ piè dell’Etna, nell’altro la vita quieta e pastorale, allietata da’ miti amori e dall’arte del canto”7.

Grotte di Cava d’Ispica – foto di Antonino Lauretta, tratta da www.cavadispica.org

Coraggiosi guerrieri e valenti agricoltori i Siculi che introdussero l’uso del cavallo e del rame. Dotati di propri costumi, coltivavano il grano e la vite; oltre all’uso della ceramica e della metallurgia, scavavano le ripide pareti rocciose di calcare tenero, allora raggiungibili per mezzo di corde, di scale, di liane, allo scopo di ottenere tombe a forno destinate ai defunti. E vi ponevano accanto oggetti d’uso quotidiano come armi, anfore, cibi in memoria della vita trascorsa o per un’eventuale credenza nell’anima immortale. 

Ambiente interno del Castello sicano, Cava d’Ispica – foto tratta da www.it.wikipedia.org

Ad affiorare è una immagine di sofferta materialità, fra sopravvivenza e cerimonie funebri, che suggestionò Jaen Laurent Houël, viaggiatore francese del Settecento cui si devono preziose acqueforti sul luogo, riportate nell’opera Le voyage pittoresque de Naples et de Sicile8. Attraversando tortuosi sentieri che conducono alla parte mediana della valle, si incontra, ai piedi di una colonna rocciosa, il cosiddetto “castello”: un bubbone litico dalla geometria miocenica, costituito da almeno quattro ambienti intercomunicanti, che sembra voler governare sulle grotte. Di origine sicana per alcuni studiosi, e lì probabilmente alloggiava il sovrano; descritto dall’Holm, è chiamato “Castello d’Ispica” (u castieddu  rispica), maestoso “tra le montuose grandiosità di quel sito orrendamente bello”9. 

Nel periodo bizantino il luogo costituì un’ancora di salvezza per gli esuli siracusani e per gli anacoreti che vi si fermarono. Affreschi religiosi sono sparsi un po’ dovunque: segni di una tradizione che parla di Ilarione, il santo palestinese di indole tenace che nel 363 d.C., provenendo dall’Egitto approdò a Capo Pachino in “un villaggio del lido ricurvo” e si rifugiò all’interno a venti miglia dal mare, nella Cava, secondo le interpretazioni date allo scritto di San Girolamo, Dottore e Padre della Chiesa, confermate dalla tradizione locale attestata da Vito Amico: “E’ detto da S. Girolamo (Vita Ilarionis) che Ilarione si ritirò in un agellus vicino vicino ad una villa non lontano da una via di transito, coltivando un appezzamento di terreno vicino l’eremo”10. Vi dimorò per due anni, recandosi spesso nel villaggio vicino al mare, detto Ina o Ispa. E anche gli abitanti andavano a trovarlo per essere miracolati.    

In una grotta, dove si svolgeva il suo culto, si è voluta identificare la sua abitazione (una nicchia sul muro forse per deporvi il lumicino ad olio). Forse nei pressi dovette vivere una modesta comunità religiosa. 

Cava d’Ispica, Convento dei Padri Carmelitani – foto tratta www.cavadispica.org

Del processo di bisantizzazione11, il periodo del Monachesimo, che invase ogni angolo della Sicilia dando vita a comunità di religiosi, fu certamente il miglior lascito: “Nella Cava d’Ispica, che bene si prestava all’isolamento ascetico, sorsero più comunità religiose che passavano il tempo ad allargare, modificare, ampliare gli antichi insediamenti rupestri, ricavando dalla viva roccia veri e propri conventi di molte stanze, a più piani, collegati mediante ardite scale a chiocciola e corridoi di collegamento”12. 

La chiesa più nota è quella dedicata a San Pancrati, che si trova fuori della Valle: per gli studiosi dovrebbe essere mantenuta la cronologia del VI secolo, periodo di intensa attività edilizia in in Sicilia. E il culto si riferiva a san Pancrazio, presenza documentata nell’epistolario di Papa Gregorio Magno (509-604). La tradizione lo ricorda come siciliano; per alcuni invece nacque a Simada in Cappadocia e per qualche tempo fu ospite dei fedeli di Cava d’Ispica. Sempre che sia stato lo stesso, nel 304 fu a Roma durante le persecuzioni cristiane e lì morì martire. Soltanto i resti rimangono della chiesa. Devastata dagli arabi e poi riedificata, venne quasi del tutto distrutta dal terremoto del 1693.  

L’ambiente, ricco di vegetazione, ha importanti testimonianze: la “Grotta dei Santi” (‘a rutta re Santi), perfettamente circolare e affrescata da 36 figure bizantine che hanno subito devastazioni e incuria; il convento rupestre di Sant’Alessandra; la grotta di San Nicola coi resti dell’altare, del fonte battesimale, degli affreschi della Madonna col bambino, dell’Annunciazione e del San Nicolò. 

Grotta della Larderia, Cava d’Ispica – foto tratta da www.wikipedia.it

Cava d’Ispica è anche ricettacolo d’un pianeta sotterraneo fatto di nicchie, di sepolcri a baldacchino e di corridoi. E’ la “larderia” (potrebbe significare “canale di acqua”), imponente ipogeo a tre corpi paralleli, che scorrendo per 28 metri testimonia i culti funerari in epoca cristiana (IV-V secolo); la “Spezieria” (‘a bizzarria), anch’essa ipogeica, è l’antica bottega dello speziale, data la sua particolare struttura a scaffali, nicchie, compartimenti. Al centro della grotta principale, un grosso buco sarebbe servito da mortaio che con un pestello di dura roccia gli erboristi utilizzavano per ridurre in poltiglia le erbe curative con cui preparare infusi e decotti. 

 

Torre Fortilitium, Cava d’Ispica – foto tratta www.it.wikipedia.org

Nel sud-est della Cava, procedendo sull’altura, a destra del convento del Carmine, al centro del fondo valle troneggia con la sua megalitica cinta muraria una rupe detta la “Forza”: inaccessibile, remota, interna fortezza. E sulla sua punta si ergeva il “Fortilitium” dai cui torrioni si avvistava l’arrivo del nemico che facilmente poteva essere respinto con il rotolare dei sassi. Vasta l’area protetta dalla natura rocciosa: un altopiano di tre ettari circa, alto da cento metri e oltre, capace di contenere tremila persone13.

Vi si svolgeva la vita dell’allora Spaccaforno, prima del terremoto del 1693. Luogo della memoria collettiva, privilegiato dalle diverse popolazioni succedutesi nel corso di vicende plurimillenarie, conserva le tracce d’una civiltà tenace: dai ruderi della chiesa dell’Annunziata a quelli del castello, al centro della cittadella, nel cui interno sorgeva il palazzo marchionale  (superba, sontuosa dimora dei conti Statella che vi soggiornavano quando si rendevano liberi da impegni e imprese militari). E’ il “Centoscale” nella zona Ovest del parco, ad essere il transito verso il ventre della terra, verso il sotterraneo Plutone. Dell’ardita, spettacolare costruzione – un tunnel ipogeico scolpito nella roccia – sono 238 gli scalini che fanno raggiungere il fondovalle fin sotto il tetto del torrente. E’ probabile che l’opera sia servita per approvigionare di acqua e viveri il gran castello, specialmente nei periodi di presenze minacciose. A poca distanza l’eremo di S. Maria della Cava, nel cui pittoresco spazio esterno si svolgevano le fiere14. Di fronte c’era la “Conceria” (“Cunzeria”), una grotta di vasche in successione, dove si lavoravano le pelli. Della chiesa dell’Annunziata, sull’estremo sperone meridionale del fortilizio, rimangono soltanto i tagli delle fondazioni nella roccia: il piano pavimentale veniva occupato da fosse sepolcrali per i notabili, le loro famiglie, i preti. 

Vegetazione di Cava d’Ispica – foto di Antonino Lauretta, tratta da www.cavadispica.org

Siamo in luoghi scenograficamente suggestivi dove fin dall’età del bronzo si costruirono villaggi; siamo nel sito rinascimentale del feudo e della preghiera ai santi che avevano soppiantato divinità scadute come Poseidone e Diana, del lavoro e dell’ingegnosità d’una comunità contadino-pastorale e artigianale in un territorio di ripidi pendii e verdeggianti vallate. Certo è che il paesaggio con una architettura tenace e cosparso di segni etnologici, oltre a offrire di sé le peculiarità più diverse e inconfondibili, comunica un’energia dirompente; tranquilla valle luminosa oltre la quale sta uno splendido mare: fra i sentieri di piante arboree (il platano, il bagolaro, il fico selvatico…) ed erbacee (l’edera, l’orchidea, il ficodindia…), si riesce a sentire il fascino della bella natura.

Federico Guastella

Ragusa, 6 maggio 2022

Note

  1. M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino, Torino: Bollati Boringhieri, 1999 (1949-64).
  2. S. Minardo, Cava d’ispica, Tip. Piccitto&Antoci, Ragusa, 1905; G. Di Stefano – D. Belgiorno, Cava Ispica: recenti scavi e scoperte, Modica 1983; G. Di Stefano, Piccola guida delle stazioni preistoriche degli iblei, Ragusa 1984; G. Di Stefano, Recenti indagini sugli insediamenti rupestri nell’area ragusana, in La Sicilia rupestre nel contesto delle civiltà mediterranee, atti del sesto Convegno internazionale di studio sulla civiltà rupestre medioevale nel Mezzogiorno d’Italia (Catania, Pantalica, Ispica, 7-12 settembre 1981), F. C. Damiano (a cura di), Congedo editore, Lecce 1986; M. Trigilia, Storia e guida di Ispica (con stradario di Corrado Monaca), Casa Editrice So. Ge. Me., CI. DI. BI., Ragusa, 1988; P. Nifosì, Guida di Ispica, Comune di Ispica, Litografia La Grafica – Modica, 1989. 
  3. G. Bufalino, La luce e il lutto, Sellerio, Palermo, 1988.
  4. R. Solarino, La Contea di Modica. Ricerche storiche (ristampa anastatica 1973, vol. I stampato nel 1885 tre anni dopo la pubblicazione dell’opuscolo I Comuni del Circondario di Modica).
  5. Trascrivo il prezioso contributo di Giuseppe Cocchiara: “I primi colonizzatori greci, secondo la testimonianza di Tucidide, al loro arrivo in Sicilia (VIII sec. a.C.) trovarono popolazioni di quattro gruppi etnici distinti: i Sicani, gli Elimi, i Siculi, i Fenici. A parte gli Elimi, stanziati in un territorio limitato ai distretti di Segesta e di Erice, e i Fenici, che avevano stabilito nella seconda metà del IX secolo i loro empori commerciali sulle coste e successivamente si consolidarono a Palermo, Solunto e Mothia, i Sicani e Siculi si dividono il dominio dell’Isola. I Sicani sono i più antichi abitatori della Sicilia di cui la storia abbia serbato il ricordo. Dapprima diffusi per tutta la regione, che avevano occupato nel III millennio a.C., furono respinti dai Siculi, sopraggiunti due millenni più tardi dall’Italia, nella parte occidentale (…). Per l’ “Odissea” i Sicani abitavano la Sicilia e i Siculi il continente della Penisola, in una regione probabilmente sulla costa della Puglia, dove da Itaca si poteva approdare con facilità (…). Al fondo autoctono e mediterraneo della Sicilia, rappresentato dai Sicani, gli archeologi riconoscono l’appartenenza di alcune belle armi di ossidiana o di basalto, la ceramica decorativa a motivi lineari e i vasi colorati degli scavi di Matrensa e di Stentinello (…). I Siculi, che in origine erano di razza e lingua ugualmente mediterranea, ma italicizzati nella lingua e nel costume della sovrapposizione di popolazioni proto latine, risospinti dagli Opici, rifluirono in Sicilia cacciando i Sicani nella parte occidentale dell’Isola (G. Cocchiara, “Non chiamatela Isola”, in “Cronache Parlamentari Siciliane”, 20.2.1991, pp. 44-45). C’è altresì da dire che nella fascia sud-orientale della Sicilia, prima dei Sicani si ebbe una fitta rete di centri di <<Castelluccio>> (1800-1400 a. C.), un sito tra Noto e Siracusa, indagato da Paolo Orsi.
  6. Per l’approfondimento: P. Militello, I Siculi fra tradizione storica ed archeologia, in L. Guzzardi (a cura di), Civiltà indigene e città greche nella regione iblea, Distretto scolastico 52 Ragusa – Regione Siciliana, Assessorato ai Beni Culturali Ambientali e alla P. I., C.D.B., Ragusa, 1996.
  7. R. Solarino, La Contea di Modica. Ricerche storiche (ristampa anastatica 1973, vol. I, op. cit.
  8. Hélèn Tuzet, Jaen Houël, pittore di corte, in Guy De Maupassant, La Sicilia, Sellerio, Palermo, 1990.
  9. S. Bellisario, Cava d’Ispica (La città delle caverne, vol. II, La tartaruga editrice, Ispica, 1987.
  10. G. Di Stefano – G. Leone, La regione camarinese in età romana, Edizioni del Comitato per le Chiese di Ibla, Litografia LA GRAFICA, Modica Alta, 1985.
  11. Affermano molti storici che la Sicilia fu dominata dai bizantini nel 535, l’anno in cui i Goti vennero cacciati da Belisario. Sicché, i siculi si accrebbero con l’arrivo dei romèi di Costantinopoli (immigrati provenienti dalla Grecia e dall’Asia minore). Attratti dal territorio (risorse naturali e attività produttive), vi rimasero per circa trecento anni (535-827), senza però arrecare benefici. Un “Prefetto Pretore” governava l’Isola servendosi di funzionari imperiali e di certo il malgoverno, tra cui la fiscalità dell’amministrazione, fu la loro impronta. L’abbandono delle città favorì lo sviluppo di villaggi rurali dalle povere condizioni di vita e come abitazioni si utilizzarono le grotte naturali. Anche quelle delle necropoli preistoriche o sicule. Sul piano religioso il culto bizantino divenne preponderante, unitamente alla cultura greca, anche se la popolazione era stata ormai romanizzata Gregorio Magno (590-604), che viaggiò per la Sicilia, raccolse in comunità gli anacoreti e fondò 6 monasteri: il sesto secondo il Pirri tra Ragusa e Modica, in località Buscello.
  12. S. Belisario, Cava d’Ispica (La città delle caverne), vol. I, Tipolitografia “Moderna”, Modica, 1988.
  13. R. Fronterrè Turrisi, Il Fortilitium di Spaccaforno, ed. Comune di Ispica, Tipolitografia Martorina, Ispica, 1972.
  14. R. Fronterrè Turrisio, La Chiesa di S. Maria della Cava di Ispica (già Spaccaforno), ed. Comune di Ispica, Tipografia Martorina, Ispica, 1978.

Le foto sono tratte dai siti: www.cavadispica.org e www.it.wikipedia.org.

L’Autore

Federico Guastella

Federico Guastella, abilitato all’insegnamento di Scienze Umane e Scienze umane e storia, è stato Ragusa dirigente scolastico. Apprezzato saggista, ricercatore scrupoloso ed esigente, autore di testi letterari in prosa e in versi, ha al suo attivo anche contributi di pedagogia e didattica, essendo stato impegnato in corsi di aggiornato per docenti della scuola primaria e dell’infanzia. La sua produzione spazia così dalla saggistica alla narrativa alla poesia. Nell’opera Chiaramonte Gulfi – La mia diceria (Ragusa, 2014) ha proposto un itinerario della memoria individuale e collettiva in un serrato dialogo a più voci tra l’attualità e la storia recente, tra le relazioni dei luoghi dell’anima e dei luoghi della natura e del paesaggio. Il libro Colapesce (Ragusa, 2012), scritto in collaborazione, ha valore pedagogico-educativo, oltre che letterario e demologico. Tra le ultime opere pubblicate dall’editore Bonanno di Acireale-Roma, si ricordano: Andrea Camilleri, Guida alla lettura (2015); Fra terra e cielo. Miscellanea di saggi brevi con Gesualdo Bufalino (2016); Serafino Amabile Guastella. La vita e le opere (2017); Il mito e il velo (2017); Viaggio intorno al libro rosso (2018); Ignazio Buttitta e Danilo Dolci, due profili culturali della Sicilia (2019); Luigi Pirandello. I romanzi, i miti (2020). Degno di nota il volume Una rilettura del Gattopardo (Bonanno 2021). Recentemente ha svolto una ricerca sulla Massoneria in provincia di Ragusa che si è conclusa con la pubblicazione del libro Alle radici della Massoneria Iblea (Bonanno, 2021), preceduto dall’opera Pagine esoteriche (Bonanno, 2017). Ha curato la prefazione di più opere; gli sono stati pubblicati articoli in diverse riviste; è stato premiato in più concorsi per la poesia e annualmente si è classificato al primo posto per i saggi anzidetti di cultura siciliana al concorso città di Favara (AG), indetto dal Centro Culturale “R. Guttuso”. E’ in corso di stampa la sua monografia Sguardo su Sciascia. Studioso di storia locale, attualmente è impegnato nella stesura del volume Il miele dolceamaro degli Iblei. Privilegiando la letteratura dei siciliani, sta altresì lavorando su una monografia dal titolo Sicilia letteraria – Luoghi e volti.

 

Il miele degli Iblei – di Federico Guastella

Si chiamano “Iblei” i monti che si estendono nella zona sud-orientale della Sicilia, degradando sino al mare. L’aspetto è unico. I continui movimenti orogenetici provocarono la formazione delle suggestive e selvagge “cave”: una sorta di canyon che in ogni senso solcano il tavolato ragusano. Il carrubo, assieme a qualche bagolaro, al fico selvatico e al gelso, è l’emblema floristico più ricorrente. Lo rappresentano in modo magistrale i dipinti di Piero Guccione; nell’immaginario collettivo viene spesso associato alla ragnatela dei muretti a secco che, per favorire le rotazioni agrarie, separano i campi gli uni dagli altri. 

Gli Iblei, copiosi di timo e altre piante spontanee, sono pur sempre un richiamo per le api1. Non era sfuggita la loro importanza a Filippo Garofalo che nella seconda metà dell’Ottocento scriveva:

Ape succhia il nettare dal fiore d’agrume

“La coltivazione dei cereali è sì estesa che ha fatto disboscare tutte le terre anche le più aride e sabbiose, le balze più ripide, e manca il timo, il rosmarino, e la copia di altre erbe odorifere la cui abbondanza in queste terre dava prova dell’Ibla in Ragusa (…). L’aere tiepido della nostra marina favoreggia la nutrizione delle api, ed i nostri maggiori vedevano nelle nicchie sepolcrali esistenti in molte rupi volte a mezzogiorno delle nostre valli, dei naturali alveari, dai quali scorreva profluvio di miele (…), e tutta questa visione poetica altro non era che sciami di api avventuriere nidificanti a caso in quelle cellette. Tuttora però non mancano sciami errabondi, non mancano le api stazionarie, e se si avesse cura di non far mancare artificialmente i fiori come il timo e il rosmarino ed altre erbe, si vedrebbe al primiero stato l’abbondanza del miele e della cera”. 

Venere consola Cupido punto da un’ape – Benjamin West

In un tempo lontano vi soggiornarono dunque in abbondanza, producendo un soavissimo miele di cui parlarono Virgilio2, Seneca3, Marziale4, Plinio5, ed altri tra cui Ovidio6. Non a caso Virgilio, che ben conosceva la pratica apistica sviluppata al suo tempo, nel IV libro delle Georgiche racconta la leggenda del pastore Aristeo: il mitico eroe libico, figlio di Apollo e di Cirene che aveva appreso dalle ninfe l’arte di allevare le api.

Antica l’arte del melaio, esperto maestro che padroneggiava strumenti e praticava l’apicoltura, avendo ereditato di generazione in generazione conoscenze legate alla terra e alle erbe. Ancora oggi, sia pure in modo alquanto ridotto, viene esercitata malgrado la paventata estinzione dei preziosi insetti. 

Miele dei Monti Iblei

Le arnie di ferùla7 (i “vasceddi”) con il loro calore accolgono le misteriose api, timorose del freddo. Nomadi i “milari”: trasportavano le loro arnie nei luoghi della fioritura primaverile e chiamavano con un nome specifico le diverse qualità di miele prodotto: “meli ri satra” (miele di timo), “meli ri çiuri” (miele di fiori), “meli ri carrua” (miele di carrubo). 

I melari di Chiaramonte Gulfi, pittoresco paese in provincia di Ragusa, dovettero essere in numero cospicuo al punto da avere i loro statuti come risulta dal testo di Corrado Melfi, Barone di San Giovanni, che si intitola “Capitoli della maestranza dei maestri fascellari d’api della città di Chiaramonte del 15 gennaio 1795” (Tip. “Lo Statuto”, Palermo, 1897). 

Dopo la pastorizia, era l’industria del miele a produrre un sufficiente sviluppo in un territorio dallo scarso sfruttamento agricolo: perciò, bisognava regolamentare l’attività al fine di dirimere possibili controversie. Furono gli stessi melari ad avvertire il bisogno di specifici regolamenti, si auto-organizzarono e presso un notaio ne fu dato il crisma della legalità con l’obbligo dell’osservanza. Due Consoli, eletti ogni quattro anni nella chiesa di San Giuseppe, erano addetti alla sorveglianza. Dieci i “capitoli” redatti con un linguaggio fluido e chiaro a testimonianza della sapienza di chi ha vissuto con le api. 

Tre api dorate nello stemma del Comune di Avola

Si potrebbe dire che dai melari affiora l’etica d’una civiltà fiorente da Ragusa a Siracusa, di cui vanno menzionati i paesi di Melilli8, Solarino, Noto, Avola, Sortino. 

Viene in mente l’avvincente brano in cui Vincenzo Consolo, iniziando da Pantalica il suo viaggio per la Sicilia, descrive l’incontro con il sacro depositario di una cultura tramontata e conservata dall’etnologo di Palazzolo Acreide Antonino Uccello9: “E come un re ci apparve il sapiente melaio di Sortino, Giuseppe Blancato, bianco di nome e bianco di capelli, assiso avanti all’uscio della casipola al centro del suo podere, in faccia alle grotticelle di Pantalica. <<Ho vissuto la mia vita con le api. L’ape e l’apicultura sono scienza in sé; conoscendolo bene, questo insetto, affascina. Nel mio ceppo familiare sono stati tutti apicultori, nonni bisnonni avi e bisavi>> ci disse. Ci portò poi a vedere le sue arnie di fèrula, accatastate sotto una tettoia, e ci offrì in una ciotola un pezzo di favo grondante miele. E disse ancora, guardando intorno per il suo podere: <<Qui ogni pietra è un ricordo per gli insegnamenti e la moralità che mi trasmise mio padre>>. Ci parve allora, Blancato, come uno degli ultimi interpreti di una cultura, di una civiltà pressoché tramontata, un sopravvissuto sacerdote di una religione quasi più da nessuno praticata, la religione della tradizione immutabile legata al mito della terra”10

Palazzo dei Mercenari – Modica (RG)

Lievi sensazioni, eventi e persone trascinati dal tempo nell’anonimato tornano a rivivere come d’incanto nel “Museo Ibleo delle Arti e Tradizioni popolari ” S. A. Guastella”11, che si trova a Modica, ubicato al primo piano dell’ex convento dei Padri Mercedari: “Un’architettura del Settecento rimasta incompleta, elegante e sobria nel suo linguaggio tardo-barocco e rococò ad un tempo nel prospetto esteso lungo la collina di Monserrato”12.

Hanno valenze arcane i vari ambienti che fanno emergere i valori del territorio: sono risorsa e identità, espressione materica che viene da lontano. E qui il fruitore affonda le radici nella propria terra e in essa avvia e sviluppa la propria opera di rivisitazione. Spazi di vita potremmo definire i luoghi del percorso il cui  punto di partenza è dato dalla “Masseria” (massaría): un microcosmo semiologico connotato dalla presenza del carretto siciliano e dei muretti a secco (mura a siccu), dal baglio (bagghiu) e dalla casa contadina coi diversi vani: casa ri mannara (cucina rustica), casa ri stari (casa da abitare), stanza ro travagghiu (stanza per la tessitura), stadda (stalla). Chiara l’osmosi tra società contadina e paesana. E sono le botteghe artigiane, allestite ai lati del corridoio, a indicarne l’interdipendenza. Non poteva mancare quella del milaru (apicoltore). Scorrendo con lo sguardo, ecco l’affresco animato dagli attrezzi di lavoro e dalla materia prima per costruire il vascieddu ri ferra (arnia in ferula). C’è il “torchio a vite di legno” per la spremitura dei favi da cui si ottiene il biondo miele e ci sono le ghiarre di creta (giarre), in cui viene conservato per la fragrante cucina dei pasticcieri. Tutto qui sorprende fino al termine del ciclo di lavorazione che può dirsi compiuto quando si ottiene la cera per essere poi lavorata dai cirari. Sciami di api dunque nelle verdeggianti valli dei rocciosi Iblei, lievi ronzii propiziatori fra teneri germogli, fiori spontanei e papaveri rossi che fanno vivere il contatto generoso con la terra e l’aria. Non ci vorrà molta istruzione per ripensare alle tante famiglie che per secoli hanno fatto storia: quella della cultura materiale quale sintesi di esperienza e passione. Gesualdo Bufalino ha scritto: “Storia non è solo quella conservata negli annali del sangue e della forza; bensì quella legata al luogo, all’ambiente fisico e umano in cui ciascuno di noi è stato educato. Storia è il gesto con cui si intride il pane nella madia o si falcia il grano; storia è un nomignolo fulmineo, un proverbio cattivante, l’inflessione d’una voce, la sagoma d’una tegola, il ritornello d’una canzone; tutto ciò, infine, che reca lo stemma del lavoro e della fantasia dell’uomo. Materia che deperisce prima d’ogni altra cosa e di cui nessuno, quasi, si cura di custodire i reperti”13. 

Un brano del Mastro-don Gesualdo dà indicazioni su un costume del tutto singolare: “La sala stessa era parata a lutto, qual era rimasta dopo la morte di don Diego, coi ritratti velati e gli alveari coperti di drappo nero torno torno per i parenti venuti al funerale, com’era l’uso nelle famiglie antiche”. L’evento luttuoso era coinciso nella stessa casa, quella dei Trao nobili decaduti, con la nascita di Isabellina: “nella camera di Bianca udivasi un gran trambusto (…); poscia un urlo fece trasalire tutti quanti”. In seguito, il battesimo. 

Consolo ha commentato: “Ecco allora che il nero luttuoso dei drappi trascolora nel bianco della vesticciola battesimale, ecco che la morte è vinta dalla vita; e gli alveari, disposti torno torno nella sala come scanni – usanza arrivata nel cuore della Sicilia con gli Spagnoli – simboleggiano questo passaggio, questa metamorfosi, questa vittoria; simboleggiano con l’immagine della “ninfa” o “pupa” (…) la vita che dal buio della cella viene alla luce”.

 L’ape, specifica il raffinato scrittore siciliano nell’opera Di qua dal faro14, è “sapiente” e “generosa”: “per noi raccoglie l’energia del mondo e la ridona in vischio saporoso e inebriante”.  ll suo miele, “cibo primigenio e incorrotto”, rigenera; è “la divina ambrosia”.

 

Federico Guastella

Ragusa, 20 aprile 2022

 

Note

  1. Per l’approfondimento: S. Burgaretta, Api e miele in Sicilia, Edizioni del museo etnoantropologico della valle del Belice, Gibellina, 1982.
  2. Da un lato la siepe sul vicino confino di sempre / delibata dalle api iblee nel fiore del salice, / spesso con lieve sussurro ti concilierà il sonno: Bucolica I, Milano 1978, vv. 53-55.
  3. Né tanti fiori fa nascere l’Ibla in piena / primavera, quando gli sciami s’intrecciano / fitti in alti grappoli: Edipo Re, atto III, vv. 93-94.
  4. Ibla fiorito si dipinge di vari colori, / quando in primavera è invaso dalle api: Epigrammi, libro II, vv. 1-2.
  5. E’ sempre l’ottimo miele quello / che le api producono dai calici / dei fiori migliori. Tale è … Ibla: Storia naturale, libro IX, cap. XIII
  6. Quante sono le lepri del monte Athos / e quante le api che vivono sull’Ibla: Arte d’amare, libro II, vv. 517-518.
  7. Pianta leggera e porosa, spontanea delle ombrellifere: ha il fusto alto fino a due metri circa, i fiori gialli ad ombrello ed è diffusa in luoghi incolti e nei dirupi. Raccolta a maggio, viene lasciata ad essiccare fino alla stagione invernale per essere manipolata e costruita.
  8. Sulla facciata del santuario di San Sebastiano si osserva il medaglione in pietra dove sono scolpite arnie e api. Sullo stemma di Melilli (“mel”) o Avola (“apicula”) compare l’ape. E ad Avola antica la produzione di miele era, al pari della canna da zucchero, una delle più redditizie attività del ‘600 -‘700. Nello stemma avolese la presenza di tre api è la testimonianza più evidente della diffusione dell’apicoltura.
  9. F. Guastella, Il territorio dei padri, “La provincia di Ragusa”, Anno VII, n. 6, dicembre 1992.
  10. V. Consolo (fotografie di G. Leone), La Sicilia passeggiata, Mimesis edizioni, Milano, 2021.
  11. G. Dormiente, Il museo ibleo delle arti e tradizioni popolari <<S. A. Guastella> (a cura di Gabriella D’Agostino e Janne Viback con l’introduzione di R. Galazzo e disegni di Duccio Belgiorno), S. T. ASS. s.r.l., Palermo, 1986
  12. P. Nifosì, Museo vivo, “La Provincia di Ragusa”, Anno III, n. 6, dicembre 1988.
  13. G. Bufalino, Museo d’ombre, Palermo, Sellerio, 1982.
  14. V. Consolo, Di qua dal Faro, Mondadori, Milano, 1999.

 

L’Autore

Federico Guastella

Federico Guastella, abilitato all’insegnamento di Scienze Umane e Scienze umane e storia, è stato Ragusa dirigente scolastico. Apprezzato saggista, ricercatore scrupoloso ed esigente, autore di testi letterari in prosa e in versi, ha al suo attivo anche contributi di pedagogia e didattica, essendo stato impegnato in corsi di aggiornato per docenti della scuola primaria e dell’infanzia. La sua produzione spazia così dalla saggistica alla narrativa alla poesia. Nell’opera Chiaramonte Gulfi – La mia diceria (Ragusa, 2014) ha proposto un itinerario della memoria individuale e collettiva in un serrato dialogo a più voci tra l’attualità e la storia recente, tra le relazioni dei luoghi dell’anima e dei luoghi della natura e del paesaggio. Il libro Colapesce (Ragusa, 2012), scritto in collaborazione, ha valore pedagogico-educativo, oltre che letterario e demologico. Tra le ultime opere pubblicate dall’editore Bonanno di Acireale-Roma, si ricordano: Andrea Camilleri, Guida alla lettura (2015); Fra terra e cielo. Miscellanea di saggi brevi con Gesualdo Bufalino (2016); Serafino Amabile Guastella. La vita e le opere (2017); Il mito e il velo (2017); Viaggio intorno al libro rosso (2018); Ignazio Buttitta e Danilo Dolci, due profili culturali della Sicilia (2019); Luigi Pirandello. I romanzi, i miti (2020). Degno di nota il volume Una rilettura del Gattopardo (Bonanno 2021). Recentemente ha svolto una ricerca sulla Massoneria in provincia di Ragusa che si è conclusa con la pubblicazione del libro Alle radici della Massoneria Iblea (Bonanno, 2021), preceduto dall’opera Pagine esoteriche (Bonanno, 2017). Ha curato la prefazione di più opere; gli sono stati pubblicati articoli in diverse riviste; è stato premiato in più concorsi per la poesia e annualmente si è classificato al primo posto per i saggi anzidetti di cultura siciliana al concorso città di Favara (AG), indetto dal Centro Culturale “R. Guttuso”. E’ in corso di stampa la sua monografia Sguardo su Sciascia. Studioso di storia locale, attualmente è impegnato nella stesura del volume Il miele dolceamaro degli Iblei. Privilegiando la letteratura dei siciliani, sta altresì lavorando su una monografia dal titolo Sicilia letteraria – Luoghi e volti.

 

Il Barone e il Castello – di Federico Guastella

Situata tra il rilievo degli Iblei e la costa che degrada verso il mare, ecco l’accattivante campagna di Donnafugata, suggestiva per la fitta presenza del carrubo e l’intensità degli odori agresti che invadono la valle.

Romantico il toponimo di origine araba: ‘Ayn as Jafâiat, fonte della salute, che sottolinea un punto geografico ricco di sorgenti dall’acqua benefica. In quest’amena località, che si distingue dalla Donnafugata del Gattopardo, si trova un’abitazione gentilizia: superba costruzione di chiara origine feudale con sovrapposizione di motivi architettonici che denotano un’adesione estetica al gusto di epoche trascorse. 

Baronessa Vincenza Maria Caterina De Spucches (1802-1840)
Barone Corrado Arezzo De Spucches (1824-1895)

Fino alla prima metà dell’Ottocento era una casa di villeggiatura al centro del feudo; ma la bizzarra fantasia di Corrado Arezzo ( 1824-1895), figlio del Barone Francesco e di Vincenza De Spucches1, ridiede vita e spazi con la pretesa del castello. Eclettici gli interventi di diversi stili: il neoclassico sposato al gotico-veneziano con torrioni di gusto tardo-rinascimentale e immagini tipiche della cultura egizia quale la sfinge, merlature riecheggianti il fascino della lontana tradizione medievale. All’interno saloni e camere sono impreziositi da mobili e soprammobili. Per non dire delle statue neoclassiche lungo la scalinata all’ingresso centrale o del reliquiario araldico delle nobili famiglie siciliane nel salone degli stemmi o del pregevole lampadario di Murano nel salotto delle signore.  La ricca biblioteca e una raccolta di quadri testimoniano l’amore per lo studio e per l’arte. 

Labirinto del parco – Castello di Donnafugata

Nel vasto parco di circa otto ettari, cosparso di viali bene articolati e di vegetazione dai ficus secolari alle cactacee nei pressi delle fontane, si sente un’aria di serenità bucolica2. Qui Corrado Arezzo trascorreva con la famiglia e gli amici il periodo della villeggiatura estiva, trasferendosi poi nel palazzo di Ragusa Ibla per il rimanente periodo dell’anno. 

A 24 anni, rappresentante al Parlamento siciliano, partecipò alla rivoluzione siciliana del 1848, stampando e dirigendo a Palermo in cui da ragazzo aveva studiato, il giornale Il Gatto: titolo metaforico allusivo della lotta contro i “sorci” borbonici. Un foglio di commenti politici oltre che di pungenti osservazioni; anche ricco di una satira mordace diretta ai nostalgici del regime borbonico e spesso agli inetti esponenti liberali. Vigilato dalla polizia in seguito al fallimento della rivoluzione, curò i beni di famiglia e collaborò col padre nella realizzazione di una filanda (1854), dove furono impiegati cinquanta operai. Deputato eletto nel collegio di Vizzini (7 aprile 1861) e dopo senatore per censo (1865), potremmo dirlo un personaggio che riuniva in sé le qualità di aristocratico agrario, qualificato esponente dell’aristocrazia liberale, e di patriota liberale con qualche simpatia – si suppone – per la Massoneria: ipotesi che potrebbe essere avvalorata dagli elementi simbolici qua e là sparsi nel parco che connotano significati segreti in omaggio all’esoterico di cui egli certamente dovette avvertire l’attrazione. 

Loggiato del Castello di Donnafugata

L’attenzione ai luoghi del giardino rivela segnali di un percorso iniziatico: a partire dalla presenza della sfinge egizia alla sommità della scalinata monumentale che dal parco conduce al loggiato (il piano nobile). Del resto, nella lingua copta, la Sfinge si dice “Be-Hit”: parola che significa “Guardiano”. Sfinge, dunque, come guardiana della vita o custode del Tempio-casa. Le grotte con stalattiti simboleggiano il ctonio da cui ha origine la vita, mentre il labirinto esprime percorsi esistenziali di ricerca3. Altro elemento della simbologia massonica è il tempietto neoclassico a pianta circolare che, posto sulla montagnola sovrastante le grotte, ha la cupola sostenuta da otto colonne con l’affresco della volta celeste. 

Nella mente innamorata del barone è possibile cogliere la pensosità di fronte ai destini eterni nonché la propensione a meditare non senza la malinconica certezza della precarietà della vita, richiamata nella parte più ombrosa del giardino, a nord-ovest, dalla presenza degli avelli di foscoliana memoria, circondati da cipressi. 

Di questo luogo gioiosamente vissuto è possibile dunque percepire la ricerca del mistero: proiezione dell’altro e dell’altrove entro lo splendido linguaggio della natura nell’assolata campagna mediterranea densa di miti e di memorie. Non è difficile immaginare che nel corso degli incontri al “castello”, le famiglie patrizie ospiti che potevano raggiungerlo da una strada collegata alla stazione ferroviaria, voluta dal barone già senatore, oltre ai divertimenti che il parco offriva, si raccontassero vicende di viaggi col vantaggio di conoscenze al di là del recinto ibleo.

L’atteggiamento meditativo del barone è altresì rinvenibile nel suo volumetto di poesie comprendente cinque componimenti (in Alcuni versi) e diciannove sonetti (in Voci dell’anima), raccolti col titolo Alcuni versi, pubblicato dalla tipografia e legatoria Clamis e Roberti in Palermo nel 1861: un momento quanto mai incandescente nella storia della Sicilia, all’indomani si può dire dello sbarco dei Mille, e che Tomasi di Lampedusa ha scelto come tempo storico del Gattopardo. Merita di essere ricordata la poesia L’Armonia che scritta in endecasillabi canta l’incanto dell’eden prima dell’irruzione della trasgressione, causa dei mali del mondo. Nel complesso si tratta della lirica privata di un gran lettore del suo tempo, il cui linguaggio non sa però farsi poesia. Si avverte la presenza di questo o di quell’altro autore – Leopardi in primo luogo – e ci sono motivi cari a un romanticismo estenuante e contemplativo come sono raccontati da un Prati o da un Aleardi. Amico del poeta dialettale, suo concittadino, Giambattista Marini, negli anni giovanili è da supporre che abbia frequentato gli ambienti letterari palermitani. Ed egli per parte di madre era cugino del poeta e traduttore Giuseppe de Spucches, principe di Galati, marito della poetessa Giuseppina Turrisi Colonna. 

Il piccolo teatro di Palazzo Donnafugata – Ragusa Ibla – immagine tratta da www.tripadvisor.it

Non certo poeta, il barone Corrado Arezzo è essenzialmente un esteta che ama l’arte, tra cui la musica in particolare; ricercatore di razza, egli è mosso dalla molla della curiosità grazie alla quale costruisce la propria conoscenza. L’elezione a deputato nella prima legislatura (1861), che lo fece risiedere a Torino, fu certamente occasione preziosa per ulteriori spazi di riflessioni e di esperienze culturali. Personaggio, dunque, molto in vista ed influente nella vita politica ed economica. Dagli anni ‘70 fino al 1881 fu sindaco di Ragusa Ibla, dov’è la sua signorile abitazione: palazzo Donnafugata che ha un luogo segreto d’amore per l’arte, uno spazio inatteso e riservato come una loggia iniziatica, un teatrino appartato per lo svago intellettuale. Un amnio potremmo dirlo, dove giungevano gli echi della modernità europea. E non manca un pezzo di Malta incastonato nel palazzo: la “Gallarija”, la leggiadra loggetta in legno da cui si poteva guardare senza essere visti. 

L’economista Balsamo, che vi fu ospite, descrisse il gusto di una mondanità  deliziosa fra galanteria civettuola e voluttuose vivacità: un bel brano che sarebbe piaciuto a Tomasi di Lampedusa. 

A Ibla il barone frequentava il Circolo di Conversazione (il Circolo dei nobili detto caffè dei Cavalieri o ‘u circolu re cavalieri), nato per esigenze di socializzazione, di affari e di interessi comuni, di cultura in genere. Socio fondatore il padre insieme ad altri aristocratici ed alcuni borghesi. E’ un’elegante costruzione in stile neoclassico con la presenza di sfingi alate nei tre bassorilievi, fatta costruire intorno al 1850 e inaugurata nel 1856. All’interno rapiscono lo sguardo le pitture di Tino del Campo in un mutato clima simbolista. Eleganti i divani insieme allo scintillio dei lampadari, alla policromia del pavimento a scacchi romboidali4.

 Un siciliano illuminato e di raffinatissimo stile Corrado Arezzo, un siciliano che girava e tornava al luogo natio, portando con sé immagini del mondo, come tanti signori dell’Ottocento. Della sua cultura aristocratica, eclettica e manieristica, nostalgica e rievocativa, si conserva tanto: a Donnafugata, immersa nelle ombre melodiche del suo passato, vive quel particolare incanto per la mescolanza di gusti che esprimono la fresca vivacità dell’immaginazione.   

Federico Guastella

Ragusa, 2 aprile 2022

 

Note:

  1. Nel bel volume Il castello di Donnafugata a Ragusa (Kalós, Palermo, 2002), Gabriele Arezzo di Trifiletti scrive: “Cresciuto nella rigorosa educazione familiare, il giovane barone fu condotto in Palermo e avviato agli studi nell’ambiente religioso dei Padri Filippini, educandosi, ai classici, alle lettere, alla storia; studiò il francese, il tedesco e, strano per quei tempi, anche l’inglese. La sua raffinata formazione culturale piano piano si fuse con una preparazione filantropica lodevolissima. Coltivò nella sua esperienza palermitana le fasi eclettiche, il virtuosismo botanico-agrario e la nuova linea elaborata del neo-gotico, sviluppato nella capitale quasi a sostegno di una medioevale sicilianità”. Intraprendente anche sul piano socio-economico, coadiuvò il padre, nel 1854, nella realizzazione di una filanda che utilizzava macchine mosse dall’acqua e dal vapore e che accoglieva oltre 50 operai. Quando Garibaldi sbarcò a Marsala funzionavano in Sicilia tremila telai; dopo l’unità ne rimasero meno di duecento. La stoffa cominciò ad arrivare da Biella, ebbe un costo doppio e i nostri lavoratori dei telai restarono disoccupati. Anche la filanda ragusana fu costretta a chiudere definitivamente i battenti nel 1874.
  2. Per l’approfondimento: Tiziana Turco, Il giardino di Donnafugata, in Il castello di Donnafugata a Ragusa, op. cit.
  3. E’ noto che il primo progetto fu attribuito all’architetto Dedalo. Si tratta di una costruzione architettonica caratterizzata da una pianta così tortuosa da rendere estremamente difficile sia l’ingresso, sia l’orientamento all’interno e, quindi, l’uscita. Richiama l’impresa di Teseo e il filo che Arianna: figlia di Minosse e di Pasife, che all’entrata,  aveva fornito. in molteplici riti di iniziazione vi era l’idea di partire dalle viscere della Terra per risalire alla luce. Nel monachesimo cristiano, le cripte hanno svolto una fondamentale funzione di ricerca interiore e di lotta contro le insidie del demonio. Si potrebbe per esempio ricordare che nelle cattedrali francesi, i fedeli, a commemorazione del Calvario, percorrevano i labirinti, riprodotti sul pavimento, chiamati Chemins de Jerusalem. Sicché, per uscire dal “Caos”, il neofita, all’interno di se stesso, incomincia il cammino iniziatico per misurarsi con umiltà, per interrogarsi in modo vigile e continuativo e per decidere la direzione da dare al suo cammino. Egli deve quindi conoscersi con purezza di intenti allo scopo di abbattere i mostri identificabili nei vizi. Entrare nel labirinto e uscirne è perciò ineliminabile per tessere il filo della propria coscienza e continuare l’opera di perfezionamento, giungendo alla luce che è desiderio dell’ascesa e della contemplazione della bellezza.
  4. Così Carmelo Arezzo di Trifiletti (Junior) nell’opera Carmelo Arezzo di Treffiletti: sfumature di un architetto, creatività e umanità di un uomo nella Ragusa Ibla del 1900 (autopubblicata su Amazzon, 2022): <<Ragusa Ibla con il suo circolo espresse la sua contraddittorietà, che mediava l’essenza conservatrice di giorno, vestendosi elegantemente di notte – secondo quanto appuntato da Eugenio Sortino Trono nel suo diario – con le numerose feste danzanti notturne che si avvicendano negli eleganti palazzi dei soci o nel circolo di conversazione, si festeggiarono nel tempo fidanzamenti e sequenziali eventi mondani incentrati sulla fondamentale presenza delle Dame>>. 

L’Autore

Federico Guastella

Federico Guastella, abilitato all’insegnamento di Scienze Umane e Scienze umane e storia, è stato Ragusa dirigente scolastico. Apprezzato saggista, ricercatore scrupoloso ed esigente, autore di testi letterari in prosa e in versi, ha al suo attivo anche contributi di pedagogia e didattica, essendo stato impegnato in corsi di aggiornato per docenti della scuola primaria e dell’infanzia. La sua produzione spazia così dalla saggistica alla narrativa alla poesia. Nell’opera Chiaramonte Gulfi – La mia diceria (Ragusa, 2014) ha proposto un itinerario della memoria individuale e collettiva in un serrato dialogo a più voci tra l’attualità e la storia recente, tra le relazioni dei luoghi dell’anima e dei luoghi della natura e del paesaggio. Il libro Colapesce (Ragusa, 2012), scritto in collaborazione, ha valore pedagogico-educativo, oltre che letterario e demologico. Tra le ultime opere pubblicate dall’editore Bonanno di Acireale-Roma, si ricordano: Andrea Camilleri, Guida alla lettura (2015); Fra terra e cielo. Miscellanea di saggi brevi con Gesualdo Bufalino (2016); Serafino Amabile Guastella. La vita e le opere (2017); Il mito e il velo (2017); Viaggio intorno al libro rosso (2018); Ignazio Buttitta e Danilo Dolci, due profili culturali della Sicilia (2019); Luigi Pirandello. I romanzi, i miti (2020). Degno di nota il volume Una rilettura del Gattopardo (Bonanno 2021). Recentemente ha svolto una ricerca sulla Massoneria in provincia di Ragusa che si è conclusa con la pubblicazione del libro Alle radici della Massoneria Iblea (Bonanno, 2021), preceduto dall’opera Pagine esoteriche (Bonanno, 2017). Ha curato la prefazione di più opere; gli sono stati pubblicati articoli in diverse riviste; è stato premiato in più concorsi per la poesia e annualmente si è classificato al primo posto per i saggi anzidetti di cultura siciliana al concorso città di Favara (AG), indetto dal Centro Culturale “R. Guttuso”. E’ in corso di stampa la sua monografia Sguardo su Sciascia. Studioso di storia locale, attualmente è impegnato nella stesura del volume Il miele dolceamaro degli Iblei. Privilegiando la letteratura dei siciliani, sta altresì lavorando su una monografia dal titolo Sicilia letteraria – Luoghi e volti.

 

Il segno dei Pesci – di Pippo Palazzolo

Carta astronomica della costellazione zodiacale dei Pesci, dell’inglese Sydney Hall (1788-1831)

Quest’anno il 18 febbraio, alle ore 17.43 ora locale, il Sole è entrato nel segno zodiacale dei Pesci (zodiaco tropicale) e vi è rimasto fino alle ore 16.33 del 20 marzo. Ultimo segno del ciclo annuale, con i Pesci il cerchio dello Zodiaco si chiude, per riaprirsi ad una nuova avventura subito dopo, con l’avvento della primavera, sotto il segno dell’Ariete. Dal punto di vista stagionale, il segno dei Pesci coincide con la fine dell’inverno, è quindi un segno “mobile”, come i Gemelli, la Vergine e il Sagittario. La sua polarità è “femminile” e il suo elemento è l’Acqua. Il governatore tradizionale del segno è Giove, al quale si è aggiunto anche Nettuno, pianeta scoperto nel 1846 dall’astronomo tedesco Johann Gottfried Galle.

L’astronomo tedesco Johann Gottfried Galle (1812-1919)

Per la sincronicità tra Alto e Basso, la scoperta di Nettuno coincide con un periodo storico nel quale emergono aspirazioni che riguardano l’intera umanità, sia dal punto di vista politico (1848, Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels), che da quello spirituale (1875, nasce a New York la Società Teosofica di Helena Petrovna Blavatsky). Nel mondo scientifico si assiste in quegli anni ad un fiorire di invenzioni e scoperte che avrebbero cambiato profondamente la nostra concezione della realtà.

Nettuno – mosaico presso il Museo di Timgad (Algeria)

La signoria di due pianeti dal simbolismo molto diverso fra loro, come Giove/Zeus e Nettuno/Poseidon, rende il segno dei Pesci particolarmente complesso. É un segno che spesso viene associato alla spiritualità, alla religiosità, all’intuizione, alla creatività, all’empatia.

La nascita e la diffusione del Cristianesimo avvengono nell’Era dei Pesci (per il fatto che l’equinozio di primavera cadeva nella costellazione dei Pesci, alla nascita di Gesù). L’elemento Acqua del segno dei Pesci ha un significato diverso da quello che assume in Cancro e Scorpione, gli altri due segni d’Acqua. Se nel segno del Cancro l’Acqua ha più il significato del liquido amniotico (madre, origini) e l’Acqua dello Scorpione è quella torbida delle paludi, nelle quali si combatte e si soffre, l’Acqua dei Pesci è invece quella dell’infinito oceano, delle profondità abissali: l’elemento primordiale dal quale proveniamo e al quale ritorneremo nel momento finale del ricongiungimento con il Tutto.

Non sempre è facile essere del segno dei Pesci! Naturalmente portati all’astrazione, potrebbero finire nella… distrazione, contemplando il cielo potrebbero non vedere gli ostacoli sulla via. D’altra parte i Pesci sanno essere anche molto precisi, ordinati, metodici, qualità delle quali hanno bisogno proprio per non perdersi nell’immensità dei loro pensieri. Se alla nascita Giove è dominante, avremo un Pesci più legato alle regole sociali, più conformista, ma anche più incline a godersi la vita. Se a dominare è Nettuno, avremo una personalità che oscillerà dall’illuminazione mistica alla confusione, dalla sensibilità artistica alla creatività caotica.

Albert Einstein – nato a Ulma, 14 marzo 1879
Santa Teresa d’Avila – nata ad Avila, il 28 marzo 1515 (nel calendario giuliano il 28 marzo corrisponde al 18 marzo del calendario gregoriano attuale)
Fryderyk Chopin – nato a Żelazowa Wola il 22 febbraio 1810

Albert Einstein, santa Teresa d’Avila, Fryderyk Chopin: intuizione geniale, estasi mistica, creatività artistica. Tre personaggi esemplari delle vette che può raggiungere un Pesci con un forte Nettuno. Naturalmente non soltanto chi nasce con il Sole nel segno dei Pesci potrà avere alcune di queste caratteristiche, ma anche chi vi abbia la Luna, l’Ascendente o uno “stellium” (tre o più pianeti). Ricordiamo anche che il segno dei Pesci è presente nel cielo di nascita di ciascuno di noi, ad indicarci in quale settore della vita le sue qualità si manifesteranno maggiormente.

Pippo Palazzolo

Ragusa, 29 marzo 2022

 

…e venne la Contea di Modica – di Federico Guastella

Marchisia Prefoglio – disegno di Andrea Carisi

Scrive Raffaele Solarino: “Federico Musca, figlio a colui che avea diffuso in questa regione il movimento insurrezionale contro i francesi, ebbe assegnata Modica a titolo di Contea, e con il medesimo titolo fu data Ragusa a Giacomo Prefoglio. Si ignora la data delle concessioni : ma quella di Modica deve essere stata fra le prime che fece re Pietro…”.

E’ appena il caso di dire che Marchisia Prefoglio, la quale viveva ad Agrigento, sorella di Giacomo e di Federico conte di Caccamo, aveva sposato Federico Chiaramonte. Diversi i figli, fra i quali: Manfredi e Giovanni, nonché il terzogenito Federico (barone di Racalmuto, di Siculiana e di Favara, territori da lui ripopolati). 

Stemma di casa Chiaramonte

Fu il casato dei Chiaramonte (1286-1392), famiglia originaria di Clermont  e legata per rapporti di parentela a quella di Carlo Magno, ad esprimere la propria potenza, visibile nello stemma che riporta cinque monti d’argento in campo rosso o un monticello a cinque gobbe. Di animo fiero e altero, non persero l’occasione di guerreggiare per estendere il dominio e si deve a loro l’ascesa dinastica in una Sicilia attraversata da accordi e discordie con altri grandi feudatari: Artale Alagona, Francesco Ventimiglia, Guglielmo Peralta. 

Dichiarando la sua fedeltà a Federico II e sostenendolo da valoroso guerriero, Manfredi Chiaramonte 1  riunì sotto il suo comando una delle più consistenti baronie dell’Isola. Per parte di madre fu conte di Ragusa (comprendente Gulfi, “mutandone il nome in quello di Chiaramonte per ricordo imperituro del suo Casato” 2), da lui riconquistata nel 1302 dopo che nel 1299 era caduta in potere degli Angioini. Anche conte di Modica (comprendente Scicli), avendo sposato Isabella Mosca cui era stata affidata detta contea. Amato dai vassalli, unificò le due contee in una sola con la denominazione “Contea di Modica”, avente residenza a Ragusa, unitamente all’amministrazione: “e dalla curia ragusana dipendeva allora l’altra corte di Modica e Caccamo ed altre signorie” 3 .

Così Raffaele Solarino nel 1884 ne descriveva il territorio: “Posto all’estremità più meridionale di Sicilia, (esso) si estende su di un terreno accidentato, che quà si riposa in diffuse e fertili pianure, là s’innalza in monti erti e dirupati, in certi punti s’accumula in vaste masse compatte, che formano altipiano, in altri si squarcia e sprofonda in valli e torrenti…”.

Riproduzione grafica del Castello di Ragusa Ibla

Molti i castelli, fatti edificare a scopo difensivo, sono legati al suo nome e ai discendenti cui si devono molte opere pubbliche che in diverse città migliorarono il decoro e le condizioni di vita. 

La dinastia non mancò di operare anche nell’attività chiesastica: a Ragusa i Chiaramonte accolsero come protettore il normanno San Giorgio e probabilmente, sostiene Giorgio Flaccavento, ne riedificarono il tempio, spostando il sito da quello vicino al castello alla spianata del Corso per renderlo più maestoso. 

Oltre al Lauretta, il cui manoscritto è riportato da Sortino Trono nell’opera I Conti di Ragusa e della Contea di Modica (1907), a parlare del loro palazzo fu un “Anonimo” nel suo manoscritto sulla Ragusa del Seicento, pubblicato da Francesco Garofalo (1980). Leggendo le paginette che gli dedica, vengono in mente alcune foto che riprendono resti consistenti delle strutture murarie prima di essere demolite all’inizio del ‘900 per far posto alla costruzione del Distretto Militare. Dettagliata la descrizione che con le tonalità del fantastico lo presenta munito di tre porte e di una quarta detta ferrea utilizzata per l’accesso, situandolo poco distante dalla via principale: verso il centro della città e sulla parte più alta di essa. 

Ecco appena un accenno:  

Ha all’interno quattro fortissime e altissime torri, le quali tutte sono abitate, e tra l’una e l’altra vi sono mura fortissime e altissime; sopra di esse sono i merli e delle palle rotonde di pietra viva, delle quali a stento un uomo fortissimo potrebbe sollevarne una, e dalla parte di dentro sopra le dette mura si cammina comodamente per la difesa del Castello… Dopo la quarta porta esisteva un porticato attraverso il quale si entra in un cortile, ed in esso è un magnifico palazzo, nel quale abitarono i Chiaramonte, Conti di Ragusa, il qual palazzo viene ora chiamato “lo palazzo dilli Chiaramunti” 

Il palazzo nel castello, dunque. Ed era in un sito di dominio della città tale da consentire una poderosa difesa dagli attacchi esterni. 

D’avviso diverso Leonardo Lauretta che, contraddicendosi, situava il grandioso palazzo nel luogo del Convento di san Francesco: “Sino al dì d’oggi ne appaiono le mergoli delle Torri, corridoi di strade sotterranee, piscine, bivieri, conducendovi le acque della Cava di Velardo… “. E’ stato Filippo Rotolo nell’opera La chiesa di S. Francesco all’Immacolata (1990) a fornire una convincente chiave di lettura, mostrando tanta destrezza nel maneggiare l’argomento. Escludendo che la torre annessa al Convento dei Francescani sia stata di stile chiaramontano, ha ritenuto che dovette essere dell’antica chiesa di San Francesco, all’origine facente un tutt’uno con la facciata di cui si conserva il portale anteriore alla venuta dei Chiaramonte. 

Sull’ubicazione del palazzo, lo studioso condivide le notazioni del Garofalo e gli sembra probabile che sia stato edificato da Manfredi I Chiaramonte. 

Prezioso il passo da cui si apprende il luogo scelto dai frati per stare a contatto con il popolo minuto e viverne la vita:  

Chiesa e convento di S.Francesco all’Immacolata – Ragusa

… a Ragusa i primi ignoti Francescani si sistemarono nella periferia settentrionale della città, che solo dopo il sec. XIII questo sito era certamente, come lo è tuttora, l’estremo limite settentrionale, lontano dal centro costituito dal castello normanno, oggi distrutto. 

In realtà il castello esistette al tempo dei bizantini che eressero mura invalicabili. Gli Arabi, saccheggiatori dei territori, secondo una tradizione popolare, non coincidente con le notizie fornite da Michele Amari che riferiscono dell’abbattimento, tentarono invano di espugnarlo; i normanni con Goffredo lo resero più poderoso e i Chiaramonte con Manfredi I e III vi eseguirono opere imponenti per renderlo più imprendibile. 

Grazie alla ricerca demologica, si è compreso l’interesse appassionato del popolo per i fatti del tempo. Per chiarire il senso di un distico popolare, Serafino Amabile Guastella, nell’opera Canti popolari del Circondario di Modica raccolti e illustrati da S. A. G. (Modica, Lutri&Secagno, 1876), espone un fatto:

Costanza di Chiaramonte

“Costanza, figlia di Manfredo III, settimo conte di Modica e almirante di Sicilia, fu menata sposa a re Ladislao di Napoli; ma il voluttuoso e volubilissimo principe, venutagli, dopo pochi anni, a noia la moglie, bramò impalmare altra donna, e pregò, poi minacciò aspramente il papa a dichiarar nullo il precedente matrimonio. Il papa, ligio in tutto ai reali di Napoli, annullò il matrimonio ma Ladislao, non contento di contrarre altre nozze, volle altresì costringer la Costanza a toglier per secondo marito Andrea di Capua, conte di Altavilla. L’altera donna, terminata appena la cerimonia nuziale, celebrata in Gaeta, rivoltasi ad Andrea, presenti il re e i cortigiani, proruppe in queste fiere parole: Messer Andrea, vi potete tenere il più avventurato cavaliere del regno, perché avete per concubina la moglie legittima di re Ladislao, vostro signore”. Lo stornello, commenta l’antropologo e scrittore di Chiaramonte Gulfi, “ha perduto il significato storico, e si canticchia fra i denti quando si vuol mettere in burla la resistenza inattesa o protratta di una donna del volgo”: 

Viola, viulina, / cunsidira la nostra paisana! // Lu papa ca la sciòisi di rrigina / ci rrissi: figgia mia fa la buttana.

(Viola, violina, / Considera la nostra paesana! // Il papa che la sciolse di regina / le disse: figlia mia fai la puttana). 

Se di Simone, personaggio turbolento e conte di Ragusa nel 1353 dopo la morte del padre Manfredi II, si può dire che dedicò la vita a guerreggiare per l’Isola, diversa per indole filantropica fu sua moglie Venezia (amata dalla gente comune), da lui perseguitata con l’intento di sposare Bianca, sorella di re Federico. Quando il popolo parlava del matrimonio di un’orfana, alludeva a Venezia Palazzi che aveva istituito una dote per le orfanelle del paese. Da qui il distico: 

Vinezia, l’armi santi fannu festa / C’addutàstivu a tutti l’urfaneddi.                                                            (Venezia, le anime sante fanno festa / perché avete cresciuto tutti gli orfanelli). 

Dolorosa, dopo novantatré anni, la fine della dinastia a seguito dell’ingresso degli spagnoli in Sicilia. Andrea Chiaramonte (1391-1392), l’unico a opporvisi a Palermo con fiera resistenza, fu arrestato e processato in modo farsesco. Condannato a morte ad opera di re Martino, venne rapidamente decapitato in Piazza Marina davanti al palazzo Steri dove egli era nato, simbolo del potente casato. 

Affidiamo ora alle parole di Raffaele Solarino la valutazione complessiva sull’operato di questa famiglia che esercitò il dominio in buona parte dell’Isola: 

“Grandi non furono, ma potenti, doviziosi, splendidi. In quel periodo procelloso di fazioni e di lotte, costretti a destreggiarsi con leghe ed alleanze continuamente giurate, rotte e falsate, condannati a combattere sempre per soperchiare l’opposta fazione, per conservare le preminenze ed accrescerle, mostrarono sempre un’energia di carattere, una fierezza indomabile, un valore non comune. Sentivano l’odio ereditario, la pertinace voluttà della vendetta, e sodisfecero sempre all’irrequieta ambizione senza ritegni, né riguardi, né scrupoli, come portavano i tempi” 4.

Spadaccini dunque i Chiaramonte che assoldavano squadre di avventurieri per risolvere le loro questioni; nel contempo, rifuggivano quasi tutti, aggiunge lo studioso, “dalle vie oblique, dai raggiri, dalle astuzie”. E “non sovvertitori dei sudditi” che li tennero in grande considerazione. 

Quelli furono anche gli anni della più luttuosa pandemia. In Sicilia, nell’ottobre 1347 la “peste nera” giungeva forse per l’arrivo di galee genovesi, provenienti dall’Asia: diffusasi ovunque dalla Sicilia in Europa, fa da sfondo al Decameron e fu rappresentata da mano ignota nel famoso dipinto del 1446 Il trionfo della morte di Palazzo Abatellis a Palermo: la festa dei personaggi è colpita dalla Morte rappresentata al centro e quel trionfo è la metafora della caducità della vita!

Federico Guastella

Ragusa, 13 marzo 2022

 

Note:

  1. 1296-1310, date indicanti l’anno d’insediamento e quello della morte.
  2. A Manfredi si deve dunque la nascita di Chiaramonte che cominciò a sorgere all’interno della fortificazione (poi distrutta dal terribile terremoto dell’11 gennaio del 1693). Il piccolo agglomerato formò il quartiere Baglio (il termine deriva dall’arabo bahal, “cortile”, indicante il “piano”, cioè l’area interna di caseggiati feudali, supporto logistico per il lavoro). Oggi è visibile, a nord, la pittoresca porta principale d’ingresso, originariamente chiamata Porta dila chaza e adesso “l’Annunziata”: a forma d’arco (Arcu ra Nunziata) e con le tracce dell’opera, ormai corrosa, di uno scalpellino del tempo, mostra due bassorilievi raffiguranti i momenti dell’Annunciazione: a destra, Maria che prega; a sinistra l’Arcangelo Gabriele. Indicativo il nome riferito alla prima chiesa madre del paese, sorta in data successiva al 1310: quella dell’Annunziata, situata all’interno della cinta muraria subito dopo l’attraversamento dell’arco e alla sinistra di chi procede. Si ipotizza l’esistenza di altre due porte d’accesso: la porta della Guardia o di Ragusa, ad est, che, ubicata nella zona che collega il piano di San Giovanni col piano di Santa Maria del Gesù, metteva in comunicazione la città di Ragusa e con la strada romana Agrigento-Siracusa; la posterla (‘a pusterna, porticella), a sud, che collegava la zona del Ferriero con l’attuale via Porta. A sud del Baglio esisteva il quartiere denominato “Cuba”, così chiamato per la probabile presenza d’una omonima costruzione che forniva acqua e riparo ai viandanti.
  3. F. Garofalo,  Discorsi sopra l’antica e moderna Ragusa, Stabilimento tipografico di Francesco Lao, Palermo, 1856 (Riedizione anastatica, Attesa editrice, Bologna, 1985).
  4. R. Solarino, La Contea di Modica. Ricerche storiche, ristampa anastatica 1973, vol. II, pp. 113-114.

L’Autore

Federico Guastella

Federico Guastella, abilitato all’insegnamento di Scienze Umane e Scienze umane e storia, è stato Ragusa dirigente scolastico. Apprezzato saggista, ricercatore scrupoloso ed esigente, autore di testi letterari in prosa e in versi, ha al suo attivo anche contributi di pedagogia e didattica, essendo stato impegnato in corsi di aggiornato per docenti della scuola primaria e dell’infanzia. La sua produzione spazia così dalla saggistica alla narrativa alla poesia. Nell’opera Chiaramonte Gulfi – La mia diceria (Ragusa, 2014) ha proposto un itinerario della memoria individuale e collettiva in un serrato dialogo a più voci tra l’attualità e la storia recente, tra le relazioni dei luoghi dell’anima e dei luoghi della natura e del paesaggio. Il libro Colapesce (Ragusa, 2012), scritto in collaborazione, ha valore pedagogico-educativo, oltre che letterario e demologico. Tra le ultime opere pubblicate dall’editore Bonanno di Acireale-Roma, si ricordano: Andrea Camilleri, Guida alla lettura (2015); Fra terra e cielo. Miscellanea di saggi brevi con Gesualdo Bufalino (2016); Serafino Amabile Guastella. La vita e le opere (2017); Il mito e il velo (2017); Viaggio intorno al libro rosso (2018); Ignazio Buttitta e Danilo Dolci, due profili culturali della Sicilia (2019); Luigi Pirandello. I romanzi, i miti (2020). Degno di nota il volume Una rilettura del Gattopardo (Bonanno 2021). Recentemente ha svolto una ricerca sulla Massoneria in provincia di Ragusa che si è conclusa con la pubblicazione del libro Alle radici della Massoneria Iblea (Bonanno, 2021), preceduto dall’opera Pagine esoteriche (Bonanno, 2017). Ha curato la prefazione di più opere; gli sono stati pubblicati articoli in diverse riviste; è stato premiato in più concorsi per la poesia e annualmente si è classificato al primo posto per i saggi anzidetti di cultura siciliana al concorso città di Favara (AG), indetto dal Centro Culturale “R. Guttuso”. E’ in corso di stampa la sua monografia Sguardo su Sciascia. Studioso di storia locale, attualmente è impegnato nella stesura del volume Il miele dolceamaro degli Iblei. Privilegiando la letteratura dei siciliani, sta altresì lavorando su una monografia dal titolo Sicilia letteraria – Luoghi e volti.

Giù la maschera! Il processo di disidentificazione nella Psicosintesi – di Pippo Palazzolo

La psicosintesi di Roberto Assagioli, una delle correnti più interessanti della psicologia moderna, ci può aiutare a spogliarci da ruoli stereotipati e spesso superati dalle nostre stesse esperienze. In questo articolo, presentiamo una semplice introduzione ad alcuni dei principi basilari di tale teoria.

Ogni mattina, quasi senza accorgercene, indossiamo la nostra “maschera” e usciamo. Abitudini, lavoro quotidiano, ruoli da svolgere, aspettative degli altri, autoconvinzioni, ci portano gradualmente a consolidare, sul nucleo centrale del nostro Io cosciente, un aggregato psichico, che per comodità possiamo chiamare “Ego”, che ragiona e pensa a se stesso pensante, un centro di consapevolezza.

Ma noi, come ci percepiamo? Dipende da come si è sviluppata la nostra consapevolezza, da quanto si è allargata la sfera del nostro “Io” conscio rispetto all’inconscio che lo avvolge. Può essere utile aver presente lo schema della nostra psiche, ideato da Roberto Assagioli.

L’ovoide della psiche, secondo Roberto Assagioli

Possiamo raffigurare la nostra psiche come un ovoide, al cui centro luminoso si trova la sfera della coscienza. Nella parte bassa c’è il sub-conscio, sede delle funzioni più elementari della psiche: rimozioni, istinti, impulsi. Nella parte alta troviamo l’inconscio superiore, sede delle funzioni più elevate: l’intuito, il pensiero, l’immaginazione. Ogni “Io”, o “Sé”, è collegato con un “Sé” superiore, la parte spirituale che si incarna in un corpo, ma che rimane legato al “Sé transpersonale” (o “Logos”, “Tutto”, “Assoluto”, o comunque si voglia definire l’entità trascendente  che tutto muove e permea).

Ma torniamo al nostro “Io”, così piccolo ma così esigente, a volte arrogante! E’ il nostro strumento, ciò che ci permette di conoscere, sperimentare la vita e relazionarci con l’esterno. Come tutti gli strumenti, di per sé è neutrale, ma può essere un aiuto o un ostacolo alla nostra crescita. Nel corso della crescita, la nostra personalità si forma, si evolve, si modifica, a seconda delle circostanze familiare, delle esperienze, della cultura acquisita.

In ogni stadio della nostra vita, noi adottiamo delle strategie di “sopravvivenza” che, specie da bambini, sono per lo più inconsce. Pensiamo ai bambini “seduttivi”, che ottengono tutto con la dolcezza e, all’opposto, ai bambini “terribili”, che ottengono lo stesso tutto, ma perché strillano e rompono. E, più avanti, lo studente “modello” e il “bullo”, la ragazza “che ci sta” e la “virtuosa”, il “buon padre di famiglia” e lo “scioperato” antisociale, e così via.

Quei comportamenti che noi abbiamo adottato in determinate circostanze, e che allora ci servivano, con il tempo diventano abitudini, riflessi condizionati, abiti  che ci sembrano una seconda pelle. Per questo motivo, noi accumuliamo un certo numero di modelli o maschere comportamentali, che nella psicosintesi vengono chiamate  “sub-personalità”.

E’ come se, all’interno della nostra psiche, ci fosse un piccolo teatro con tanti attori con ruoli diversi. Uno di loro sarà il primo attore, la nostra “maschera” consapevole, l’identità che accettiamo, le altre saranno in secondo piano, ma pur sempre vive e desiderose di attirare l’attenzione. Fino a quando non le “scioglieremo”, riconoscendole e superandole in una “sintesi” più alta, le sub-personalità toglieranno energia ai nostri programmi consapevoli: dobbiamo dare spazio a tutti, perché diversamente nel nostro inconscio una parte (o più) di noi cercherà di andare per conto suo, anche in contrasto con i nostri progetti.

Il primo passo da fare, per liberare le nostre energie e uscire dalle spinte contraddittorie delle sub-personalità, è riconoscere le nostre sub-personalità, capire come si sono formate e se sono ormai superate. A quel punto, potremo cominciare a lavorare per trasformarle, attraverso un lavoro di integrazione, che porterà ad una “sintesi”, alla nascita di una personalità armoniosa e arricchita di nuove componenti.

Sciolte le sub-personalità, diventa importante riaggregare le energie psichiche così liberate in un “modello ideale”, ciò che noi siamo veramente, anche se forse lo abbiamo dimenticato!

Quando nasciamo, tutti noi abbiamo un progetto da realizzare, ma con il passare del tempo a volte lo dimentichiamo. Per fortuna è possibile recuperarlo, ci sono varie tecniche che ci possono riportare sulla “retta via”, quella di una piena realizzazione in questa vita… ma questo è un altro discorso!

Pippo Palazzolo

 

Roberto Assagioli (1888-1974)

Consigliamo a quanti volessero approfondire la conoscenza della Psicosintesi,  di visitare il sito ufficiale dell’Istituto di Psicosintesi, www.psicosintesi.it, che contiene ampie informazioni sia sulla vita di Roberto Assagioli che sulle sue teorie, nonché sulle numerose attività organizzate in tutta Italia.

Un Centro di Psicosintesi molto attivo, in Sicilia, è quello di Catania.

 

 

Gesualdo Motta: da Mastro a Don – di Federico Guastella

In occasione del centenario della morte dello scrittore Giovanni Verga (Vizzini, 1840-Catania 1922), “Le Ali di Ermes” gli rende omaggio pubblicando questo articolo del dott. Federico Guastella, suo grande estimatore, dedicato ad una delle opere maggiori del Verga, il romanzo “Mastro-don Gesualdo” (Ed. Treves, Milano,  1889). 
Giovanni Verga (1840-1922)

Il romanzo, come ‘avantesto’ apparso a puntate nel 1888 sulla  Nuova Antologia, con sostanziali modifiche sul piano formale e dei contenuti verrà pubblicato dall’editore Treves l’anno successivo, ancorché datato 18901. Attento si mostra il Verga ai mutamenti sociali che attraversano la Sicilia tra il 1820 e il 1848, periodo in cui decade l’aristocrazia e si afferma l’ascesa di una nuova classe sociale: quella della borghesia che, venuta dal nulla, dispone della necessaria intraprendenza per guadagnare sempre di più. Dominante la presenza del protagonista che quasi solitaria giganteggia su tutta la folla dei personaggi. Il lettore lo incontra al capitolo I della parte prima in occasione dell’incendio in casa Trao, mentre il paesetto di Vizzini sprofondava nel sonno. Allo scampanio delle chiese, accorrono tutti gli abitanti: “Dalla salita verso la Piazza Grande e dagli altri vicoletti, arrivava sempre gente: un calpestìo continuo di scarponi grossi sull’acciottolato; di tanto in tanto un nome gridato da lontano; e insieme quel bussare insistente al portone in fondo alla piazzetta di Sant’Agata…”. Tra allitterazioni e metonimie, l’incipit manifesta il fascino della parola. E’ un pezzo di bravura timbrica la descrizione del trambusto che si viene a creare: un’occasione che introduce ai diversi personaggi che popolano il romanzo come per esempio il canonico Lupi e don Licciu Papa “il caposbirro”.

Il vicino di casa è Gesualdo, il quale si mostra preoccupato per il possibile estendersi del fuoco ai suoi possedimenti. Il palazzo dei Trao che va in rovina è l’immagine della fine di un prestigio parassitario, mentre la voce stizzosa di Gesualdo Motta già fa capire il suo carattere volitivo che lo configura come il custode della “roba”, accumulata con sacrifici e rinunce. I paesani lo conoscono così: l’infaticabile muratore (“mastro”) che si adopera nei traffici del commercio, spinto dalla sete del guadagno e diventare imprenditore (“don”). Ha fiuto Gesualdo che può permettersi di compiere l’ascesa con l’uso della razionalità economica. Ha preso l’appalto delle strade comunali e la sua attività non conosce soste; tiene sotto controllo gli operai e gli affari e si muove di qua e di là con la voglia del profitto. E’ il demiurgo che al cantiere misura “il muro nuovo colla canna; si arrampica “sulla scala a pioli”; pesa “i sacchi di grano”.

Uomo di successo, dunque, grazie all’instancabile lavoro che gli fa distruggere le barriere della tradizionale abulia impressa come spina genetica, dando vita all’epopea della “roba” con la consapevolezza delle strategie necessarie: osare finché è possibile e mettere in difficoltà l’avversario. Verga incarna in questo personaggio il nuovo tipo di proprietario terriero venuto dal nulla e in gara con i nobili del paese. Negli anni Sessanta del XX secolo, la sostituzione dei ceti era già un fatto compiuto: vincente il don Calogero Sedàra del “Gattopardo” in contrapposizione al principe Salina, l’aristocratico rassegnato che assiste alla decadenza del casato e al passaggio del suo patrimonio al suo affittuario2. L’ascesa sociale di don Gesualdo raggiunge poi il vertice con il matrimonio che si realizza col sacrificio dei sentimenti: sposa Bianca Trao di nobile casato “per avere un appoggio… per far lega coi pezzi grossi del paese”, spiega alla giovane e devotissima serva Diodata, da cui ha avuto figli, “poveri innocenti” che si trovano all’ospizio dei trovatelli.

La stiratrice (1884) – Edgar Degas

E’ nella parte I del cap. IV che è rappresentata la nottata alla “Canziria” (a “circa due ore di notte”), una fattoria della campagna di Vizzini. Coinvolgente la descrizione, il cui paesaggio lunare è evocato da una melodiosa prosa. E Gesualdo si abbandona ai ricordi: la fanciullezza grama, la giovinezza travagliata, le prime lotte per la “roba”. Se ne ricava l’immagine di un uomo intraprendente che è riuscito a creare e ad accumulare ricchezze. Ed è anche un uomo affettuosamente tenero, a suo modo. Al sommesso pianto di Diodata, la quale si sente abbandonata insieme ai loro figli che si trovano all’ospizio dei trovatelli, fa di tutto per confortarla: “Non ti lascerei in mezzo a una strada… Ti cercherei un marito”. Irritato di quel pianto, si mette a bestemmiare come un vitello infuriato: “Santo e santissimo ! Sorte maledetta!… Sempre guai piagnistei!…”.

Durante il colera del 1837, che il popolo ritiene appositamente diffuso, apre “le braccia e i magazzini ai poveri e ai parenti”. A Mangalavite, dove si rifugia e in cui si sente “come un papa fra i suoi beni e i suoi dipendenti”, fa del bene a tutti e gli resta il cruccio “per l’ostinazione dei parenti che non avevano voluto mettersi sotto le sue ali”. Mastro-don Gesualdo ha un intimo rovello e i suoi affetti, tra cui il profondo rispetto per il vecchio padre: per esempio, quando mastro Nunzio sta per morire si mostra raccolto nel dolore senza dire una parola. Non è soltanto segnato dall’avidità della roba; nutre sentimenti fino ai rimorsi che lo inducono ad una rivisitazione interiore. Diodata e Bianca due donne accomunate dal destino infelice, ma diverse nel tenere i rapporti con l’eroe del profitto. La prima, affettuosamente e lealmente dedita al padrone, non si nega mai; la seconda, pur avendo patito come lui la povertà testimoniata dalle sue dita “un po’ sciupacchiate”, ha insanabili difficoltà di comunicazione con lui: i condizionamenti delle origini, di cui Verga ha piena consapevolezza, sono il marchio del sangue.

Rappresentazione teatrale del Mastro-don Gesualdo, Teatro Bellini di Napoli, 2015

Il non poter comunicare è dunque la conseguenza del totale fallimento del matrimonio Motta-Trao, “un affare sbagliato” che lascerà tracce anche nel rapporto di don Gesualdo con la figlia Isabella. E’ il destino di solitudine che prende il sopravvento, quasi mai il successo economico conduce alla felicità quando sono messi da parte gli intimi rapporti domestici. Sicché, l’ombra della solitudine è sempre in agguato quando si gustano i beni materiali invece delle parole d’amore. E felice Mastro don Gesualdo di sicuro non era stato per aver barattato col denaro le ragioni del cuore, malgrado avesse tratto profitto da un fare veloce e intelligente. Felice non era stato dal giorno delle nozze con Bianca Trao: “Nulla, nulla gli aveva fruttato quel matrimonio; né la dote né l’aiuto del parentado, e neppure ciò che gli dava prima Diodata, un momento di svago, un’ora di buonumore, come il bicchiere di vino a un pover’uomo che ha lavorato tutto il giorno, là! Neppur quello!”. L’uomo della fortuna creata con le proprie mani è ormai divorato da quella solitudine che nasce da certe scelte sbagliate, da lui fortemente avvertite.

Poche, ma incisive pennellate mostrano la finezza psicologica di Verga nel rappresentare il dramma familiare dell’incomunicabilità dovuta alla frizione di codici diversi. Fra l’altro, don Gesualdo aveva ostacolato la relazione della figlia con il povero orfano Corrado, imponendole un matrimonio riparatore con il duca di Leyra, cui viene dato buona parte del patrimonio dotale. Verso la fine dei suoi giorni, lo troviamo non più avido di beni: egli ha ormai maturato una consapevolezza: è l’uomo solo con la spina nel cuore di cui non sa darsi pace. Il consuntivo è fallimentare, il turbamento è lacerante, avvertendo l’allontanamento della figlia da lui. Lo scacco è irrisarcibile, malgrado abbia impiegato la vita a staccarsi da una condizione di miseria e cambiare stato sociale.

La solitudine di Mastro don Gesualdo, che è mancanza di affetti e della forza salvifica delle parole, raggiunge il culmine quando, ammalato, si trova nel “palazzone” della figlia. Non è più l’uomo libero d’un tempo; a tavola qualche giorno mangia “in gala (…) legato e impastoiato”. Addirittura viene relegato nelle stanze della foresteria, generalmente riservate agli estranei. L’uomo energico e volitivo, che aveva dedicato la vita ad accumulare ricchezze, è ora profondamente malinconico e trascorre i giorni dietro l’invetriata a veder strigliare i cavalli e lavare le carrozze nella corte vasta quanto una piazza o a contare le tegole dirimpetto. Amaro lo sguardo nel constatare lo sperpero della sua roba in mano a “quell’orda famelica”. Avverte l’inerte vita dell’aristocrazia ingabbiata in vuoti e falsi cerimoniali “di messa cantata”; vorrebbe tornarsene al paese, ma il desiderio non viene soddisfatto. Anche la volontà di fare testamento, pensando di lasciare qualcosa a Diodata e ai suoi figli naturali, viene bloccata malgrado le sue insistenze come atto di energica volontà. Il padrone di tutto è ormai il genero, ipocrita e ingordo. Anche i dottori lo disprezzano date le origini popolari e l’incomunicabilità si fa sempre più acuta con la figlia che resta indifferente alla sua condizione di moribondo, chiusa nel rancore contro di lui, avendola costretta ad un matrimonio non voluto.

Don Gesualdo finisce la sua vita senza neanche poter vedere la figlia, giacché “il servitore che gli avevano messo a dormire nella stanza accanto” non si cura di ascoltarlo. Anziché assisterlo, si mostra infastidito allorquando viene disturbato nel sonno dai rantoli dell’estrema agonia e solo agli ultimi momenti si alza “furibondo, masticando delle bestemmie e delle parolacce”. Muore dunque solo, lontano da ogni affetto e la servitù, appena fa giorno, si mostra irriverente con frasi distaccate (“Mattinata, eh, don Leopoldo? – E nottata pure!”) o ironicamente feroci (“Si vede com’era nato… Guardate le mani!”). E’ la battuta finale che fa toccare con mano il comportamento irriguardoso, irrisorio dei servi, ostili a uno che ha tradito lo stato sociale di provenienza: “Sicuro, eh! E’ roba di famiglia. Adesso bisogna avvertire la cameriera della signora duchessa”.

Muore Don Gesualdo, e scompare con lui un mondo di fatica operosa: la sua solitudine viene così inghiottita nel buco nero dell’arida fugacità d’ogni cosa. Commenta Luigi Russo: “Mai il Verga aveva toccato, così fondo, nel suo pessimismo”. Fallimentare il bilancio, di cui gli resta il rimorso: della roba “nulla gliene importava ormai”. Malgrado i successi economici, gli è stata avara la vita ed egli stesso s’è reso consapevole del suo errore: quello di aver subordinato il sentimento all’interesse economico. E’ il vuoto ad inghiottire Mastro don Gesualdo; è la solitudine a condannarlo ad una disperata oscurità senza un barlume di luce. Squallido il cinismo dei parenti. Anche nel momento della partecipazione all’evento funebre, tutti manifestano indifferenza, cercando il proprio tornaconto. Qui è l’autentica, sostanziale differenza: l’avaro e grottesco Mazarò, vittima delle sue stesse proprietà, è incapace di una riflessione sui propri vissuti; Gesualdo è sì l’accaparratore, ma è l’uomo – ha scritto Francesco Nicolosi – “assetato di affetti che sconta, con la solitudine e con una delusa volontà di amare, l’errore di avere assunto la roba a supremo valore dell’esistenza”3.

Federico Guastella

Ragusa, 2 marzo 2022

 

Note:

  1. G.Verga, Mastro don Gesualdo, Ediz. critica curata da C. Ricciardi, Firenze, Le Monnier, 1993.
  2. F. Guastella, Una rilettura del Gattopardo, Bonanno, Acireale-Roma, 2021.
  3. Dal vol. Il Mastro-don Gesualdo dalla prima alla seconda redazione, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1967.

 

L’Autore

Federico Guastella, abilitato all’insegnamento di Scienze Umane e Scienze umane e storia, è stato Ragusa dirigente scolastico. Apprezzato saggista, ricercatore scrupoloso ed esigente, autore di testi letterari in prosa e in versi, ha al suo attivo anche contributi di pedagogia e didattica, essendo stato impegnato in corsi di aggiornato per docenti della scuola primaria e dell’infanzia. La sua produzione spazia così dalla saggistica alla narrativa alla poesia. Nell’opera Chiaramonte Gulfi – La mia diceria (Ragusa, 2014) ha proposto un itinerario della memoria individuale e collettiva in un serrato dialogo a più voci tra l’attualità e la storia recente, tra le relazioni dei luoghi dell’anima e dei luoghi della natura e del paesaggio. Il libro Colapesce (Ragusa, 2012), scritto in collaborazione, ha valore pedagogico-educativo, oltre che letterario e demologico. Tra le ultime opere pubblicate dall’editore Bonanno di Acireale-Roma, si ricordano: Andrea Camilleri, Guida alla lettura (2015); Fra terra e cielo. Miscellanea di saggi brevi con Gesualdo Bufalino (2016); Serafino Amabile Guastella. La vita e le opere (2017); Il mito e il velo (2017); Viaggio intorno al libro rosso (2018); Ignazio Buttitta e Danilo Dolci, due profili culturali della Sicilia (2019); Luigi Pirandello. I romanzi, i miti (2020). Degno di nota il volume Una rilettura del Gattopardo (Bonanno 2021). Recentemente ha svolto una ricerca sulla Massoneria in provincia di Ragusa che si è conclusa con la pubblicazione del libro Alle radici della Massoneria Iblea (Bonanno, 2021), preceduto dall’opera Pagine esoteriche (Bonanno, 2017). Ha curato la prefazione di più opere; gli sono stati pubblicati articoli in diverse riviste; è stato premiato in più concorsi per la poesia e annualmente si è classificato al primo posto per i saggi anzidetti di cultura siciliana al concorso città di Favara (AG), indetto dal Centro Culturale “R. Guttuso”. E’ in corso di stampa la sua monografia Sguardo su Sciascia. Studioso di storia locale, attualmente è impegnato nella stesura del volume Il miele dolceamaro degli Iblei. Privilegiando la letteratura dei siciliani, sta altresì lavorando su una monografia dal titolo Sicilia letteraria – Luoghi e volti.

L’antico Carnevale della Contea di Modica – di Federico Guastella

Maschera di Carnevale, immagine tratta dal sito https://www.pianetadesign.it/fai-da-te/come-realizzare-le-maschere-di-carnevale-fai-da-te.php

L’indagine di S. A. Guastella nell’opera L’antico Carnevale della Contea di Modica1 tocca gli elementi cardine visti nella coesistenza sincretica di motivi cristiani e pagani. Lo studioso chiaramontano può così guardare alla festa del carnevale, ponendo in risalto molteplici aspetti: dalla rimozione della censura alla ritualizzazione dei conflitti di classe attraverso le mascherate, dalle satire ai momenti licenziosi, dal ristabilirsi degli affetti familiari e dei vincoli di solidarietà al rovesciamento

degli schemi e delle regole in vigore nella vita quotidiana. Il periodo del Carnevale durava a lungo; iniziava il 12 gennaio, giorno successivo alla ricorrenza del terremoto del 1693 che, oltre a devastare mezza Sicilia, aveva provocato migliaia di vittime nel territorio della Contea. 

“Il giovedì grasso, o berlingaccio toscano, è da noi chiamato jiovi di lu lardaloru, il giovedì precedente è chiamato jovi di lu cummari, e finalmente il giovedì che viene prima dei due indicati il popolo lo battezzò jiovi di lu zuppiddu. Per altro in Chiaramonte il giorno dello zuppiddu è il mercoledì, e in altri paesi il venerdì: diversità di giorno, non di sostanza; e a ciascuno di tali giorni è stato appropriato un proverbio che all’ingrosso lo definisce. Così diciamo:

Lu Jiovi di lu zuppiddu

cui nun si càmmira è peiu pir iddu.

Lu jiovi di li cummari

cu nun n’ha si li fa ‘impristari.

Lu jiovi di lu lardaloru

i frati mmitàvanu i suoru;

Ora i tempa su canciati,

e i suoru ‘mmitanu i frati.

O pure

lu jiornu di lu lardaloru

la mamma si ‘mpigna lu figgiuolu.

La sdirrumìnica

fatti amica a la monica2.”

La quadriglia. Foto tratta dal sito: https://blog.siciliansecrets.it/2020/02/10/i-7-carnevali-di-sicilia/

 Sul significato di “Zuppiddu” lo studioso si pone diverse domande; avvalendosi di un documento (1776) redatto da Matteo Molè Mallo (chiaramontano, prete e dottore in teologia, commissario della santa Inquisizione…), spiega che nel giorno dello Zuppiddu si distribuivano ai poveri i vermicelli (particolare tipo di pasta), analogamente a quanto accadeva a Verona nel Venerdì gnoccolaro. Cavalcate in quel giorno festeggiavano la nascita di Bacco e si ballavano cascarde3 accompagnate col canto o con la pantomima. Lo Zuppiddu, dunque, la personificazione di uno dei diavoli che facevano parte della credenza popolare: 

“Or fra costoro il Zuppiddu ha l’ufficio di pervertire gli uomini mediante la voluttà, l’allegria, la spensieratezza (…) si accomunò coi Satiri e ne formò quasi il tipo4.” 

Lo soccorre in tale ricerca il filtro del ricordo; la deliziosa rievocazione di un episodio dell’infanzia gli serve per spiegare il significato di lu jiovi di lu zuppiddu (il giorno del mercoledì o del giovedì che prende nome dallo “zoppetto”, raffigurato dalla maschera di Sileno che non inquieta, ma diletta):  

“Bimbo, insieme alle mie sorelle e ad altri ragazzi solevamo, per intimità di famiglie bazzicare in casa di una donna Paola Ventura, e lì si facea il diavolo a quattro. Una volta, intontita dalla disarmonia dei nostri strilli, la padrona di casa per racquetarci ci mostrò uno scatolone pieno di maschere, fra le quali ce n’era una con le corna caprine intrecciate a festoni di edera: maschera rossa che parea riderci in faccia con riso allegro e beffardo. Ci spaventammo sul serio, perché ci parve il diavolo, e anzi i più grandicelli si segnarono a furia sperando farlo fuggire. Allora la madre di Donna Paola, donna stravecchia che non si movea dal seggiolone, ci disse di non impaurirci perché quella era la maschera dello zoppo, e ordinò che ci mostrasse una stampella intagliata bizzarramente a fiaschi, a teste di capre, a grappoli di uva, e ad altri emblemi bacchici, dicendo che con quella stampella lo zoppo solea percotere i fanciulli quando strillavano5.” 

“Cammararisi” è termine dialettale; sta a indicare il vincolo del comparatico che si traduceva nello scambio di doni con la comare:

“Se il mercoledì o giovedì del zuppiddu era consacrato al soccorso dell’indigenza, il giovedì delle comari servia a rinvigorire quel sentimento di cordialità che esiste o dovrebbe esistere fra persone legate dal comparatico. Era difatti in quel giorno che le comari andavano in giro a fare e a render visite: era in quel giorno che nelle famiglie popolane solea scannarsi il maiale; e allora un paio di costole, un’ala di fegato, un mezzo rocchio di sancieli (è così che la nostra plebe chiama la dòlcia), erano e son tuttora doni accolti con sincera effusione. La comare che avea tenuto un bimbo a battesimo, era convitata dalla comare, madre del bimbo; e quella era l’occasione perché l’invitata facesse un regaletto al figlioccio: un paio di orecchini, o una festicciola, o un grembiulino, se femmina; un abituccio, se maschio. In questa guisa gli affetti si rinsaldavano; un po’ di malinteso, un dissapore, un’insinuazione maligna venian posti in chiaro, o vi si mettea un po’ di cenere6.”

Nell’intreccio, dunque, di forme parentali si svolgeva un rito che è antica memoria d’un legame di gruppo e partecipazione. Tra gli usi ispirati al messaggio evangelico, proprio il rito del dono nel giorno del martedì grasso dava luogo al vincolo comunitario e rendeva solidali i rapporti contro l’incertezza del domani: 

“Il martedì grasso era la festa del povero, né mai il quod superest venne applicato con più retta intenzione. In ogni famiglia, anche fra le più umili, venia prelevata la parte dell’indigente, e mandata con amorosa premura a quei fra gli storpii, o a quella fra le cieche, o fra gl’inetti al lavoro ch’erano più conosciuti o stavan più vicini di casa; e le parole che accompagnavano il dono eran schiette e cordiali, quali convenivano a gente, che nell’esercizio della carità credeva adempiere ad una mutua retribuzione sociale. Hodie tibi, cras mihi: e difatti chi potea assicurarli, che da lì a poco gli oblatori non potessero trovarsi nello identico caso dei sovvenuti?7.”   

Il giovedì grasso, chiamato di lu lardaloru per l’uso di un minestrone che solitamente si faceva in quel giorno e che aveva il potere taumaturgico di sanare le discordie familiari, veniva festeggiato all’insegna dell’unità e dell’armonia familiare. Il principale ingrediente era costituito di grossi pezzi di lardo cui venivano mescolati erbe ortalizie e legumi, ed esso aveva la “virtù del ferro calamitato”: ricomponeva i conflitti tra generi e nuore, tra figli e figlie che non potevano rifiutare in quel giorno l’invito del capo famiglia:

“E lì seduti al rustico desco, fra un cucchiaio ed un gotto, si aggiustano le divergenze, si transige dall’una parte e dall’altra, e si ripianano le scabrosità troppo aguzze. Ricondotti a tranquillità di giudizio, si fanno e si discutono nuovi progetti; la moglie ritorna con amoroso desio alla casa dalla quale era espulsa (…), e tutti contenti e fiduciosi, come non erano stati da un pezzo8.”    

Era soprattutto il ricongiungimento familiare che caratterizzava il modo quasi religioso con cui veniva avvertita tale ricorrenza. Lo scrittore fornisce un quadro abbastanza chiaro delle attività economiche che allora si svolgevano e fa avvertire, in chiave realistico-sociale, l’aspettativa e il senso del rientro a casa, dove s’integravano affetti e tradizioni. A carnevale si ricomponevano i vincoli familiari, ed era uno spasso ascoltare gli indovinelli (‘nnivinaggi). Ciascuno faceva a gara nel dirli, scegliendo i più piccanti; gli altri, gli ascoltatori, mettevano in moto la mente e si cimentavano a trovarne la soluzione. Il senso erotico, presente in molti di essi, era sicuramente originale: un’arguta e sfiziosa licenza che da un lato metteva in rilievo le pulsioni più represse e dall’altro manteneva il fantasioso intreccio tra parvenza e realtà. Altri usi pagani, per ricordarne alcuni, sono pure individuati nelle beffe rimate chiamate Jabbu, nella negazione di ogni censura rispetto alla morale e al potere, nella contestazione e nel capovolgimento della norma, nei dileggi e negli scherni cui venivano sottoposti i matrimoni fra anziani. Sono in proposito incisive le sequenze di immagini che rappresentano le modalità persecutorie a danno di due vecchi unitisi in matrimonio nel periodo di carnevale. Dal punto di vista della spettacolarità delle sventure, la pena inflitta a Rosa Di Cunta, contadina amante del figlio del barone di Canzeria, si manifesta in una rappresentazione sconcertante e crudele. Il documento d’un cronista locale del Settecento trascritto dal nostro autore è una pagina che coglie i profili quasi fotografici d’una feroce realtà, ripresa e filtrata dallo sguardo illuministico. Trasportata nelle carceri femminili, il boia taglia alla donna i capelli e le rade le sopracciglia. Poi, denudata fino alla cintola e posta su di un’asina zoppa, i persecutori le fanno girare le vie del paese, mentre di tanto in tanto viene frustata. Intanto l’intera comunità partecipa a quella esibizione fischiando, ingiuriando, gettandole addosso immondizie; giunta la sera, le autorità ecclesiastiche, cui il barone aveva denunciato l’illecita tresca amorosa, si ritrovano a cenare in casa sua. Il magistrato, osserva Guastella, oltre a credere infallibile il proprio giudizio, rendeva operativa la sentenza in un apparato scenico definito “criminale”. Sicché il giudice, invece di ammonire, dava luogo ad un divertimento insensato con questa esibizione della malasorte altrui; la gente, potremmo dire, forse esorcizzava la propria. Erano giorni quelli del carnevale in cui il popolo poteva tirar fuori la rabbia sociale covata in corpo per un anno. Interessante, in proposito, la figura dell’ “asino cipollaro”, così chiamato per il vizio di cadere e battere le ginocchia per terra: 

“magro come un Fakiro, pieno di guidaleschi come un cane rognoso, schiacciato sotto il peso dei sacchi, come un epitaffio sotto il bagliore degli elogi pomposi, sentiva, aimè! morirsi la carne d’addosso, si abbandonava a terra, e dettava il testamento in questi versi bizzarri:

Lassu ‘a testa a lu baruni,

ca  cci servi ppi lampiuni;

lassu ‘u pilu a la za’ mònica,

ca si fa ‘na bella tuònica;

lassu l’ugni ‘e’ (ai) Cavalieri,

ca ni fannu tabaccheri,       

e l’auricci a li nutara,

ca ni fannu calamara;

Lassu ‘a mmerda a li scarpari

ca ci servi ppi ‘ncirari;

lu capistru e lu varduni,

ci lu lassu a lu patruni9.”

(Lascio la testa al barone, /che gli serve per lampione; lascio il pelo alla zia monaca, / per farsene una bella tonaca; lascio le unghia ai cavalieri per farsene tabacchiere, / e le orecchie ai notai, / per farsene calamai; / lascio la merda ai calzolai / che serve loro per incerare; / il capestro e il basto , / li lascio al padrone).

Nel particolare clima di provvisoria legittimazione dell’arbitrio e dell’arbitrario, caratterizzato da un rovesciamento di valori codificati, di gerarchie e rapporti di potere10, vengono prese in esame le maschere nel loro duplice significato di “rappresentazione tipica di una data classe di popolo” e di “rappresentazione di un simbolo, di un mito”. La satira carnevalesca è certamente una costante umorosa del libro. L’autore, non intendendo assecondare i meccanismi illeciti del potere, dava in tal modo ampio spazio alle mascherate degli operai che, proprio a satire irriverenti, affidavano i loro sentimenti di avversione sociale. La lettura del Carnevale, mandata avanti da Guastella, va nelle fasi di un teatro dove le scene mutano, ma ognuna si ricompone in una medesima direttrice che è insieme farsa, bisogno di valori patriarcali e ribellismo sociale. Suggestiva è la pagina dove lo scrittore fa rivivere un rito popolaresco e ridanciano: il Re burlone appare agli ultimi sgoccioli della sua vita. Si trova attorniato da vari pulcinella che piangono (si chiamava trivulu – tribolo, afflizione o tribolazione – il pianto sconsolato per la sua imminente morte, analogo alla parodia funebre delle prefiche), nonché da pagliacci che ne decantano le virtù e da medici che, con crudele e ironica insistenza, gli nominano i piatti più gustosi. Egli, non potendo ormai essere l’ingordo di prima, rifiuta quelle offerte ma, appena scorge tra la folla una piacente fanciulla, si rianima e manifesta un desiderio voglioso che l’imminenza della morte non riesce a cancellare. La rappresentazione si fa più farsesca allorquando, parlando della maschera della moglie di Carnevale, l’autore organizza una linea di azione, dove si esprimono il gioco, lo sberleffo, la sghignazzata e la danza (In effetti, era il ballo in piazza a dare forma all’identità della comunità, i cui membri, oltre a sentirsi protetti dagli influssi negativi, liberavano la dimensione corporea repressa durante l’anno).

“Una delle maschere più bizzarre era la moglie di Carnevale, colossale bamboccio, la quale traeva immani ululati, perché sui dolori del parto. A un determinato luogo, per lo più nella piazza, la gigantessa improvvisamente chinavasi, convellendosi a contorcimenti sì strani, da cavare le risa. Ed ecco che dalla gonna voluminosa sbucava a furia una nidiata di pulcinelli, i quali venuti appena alla luce, si avventavano ai fiaschi, e si davano a ballare sonando i tamburelli e le nacchere; ed ecco il coro bacchico, col quale davasi principio a quel ballo:

E  ccu sàuti e cazzicatùmmuli

sdivacàmu li saschi e li bùmmuli:

tummi, tummi, ritummi, catummi,

prestu ‘mmucca li brogni e li trummi:

gammi all’aria, li manu a scianchetti,

cuntradanzi di chiddi priffetti11

E quì l’allegra nidiata rompeva in tali sghignazzamenti selvaggi, e ballava con tali gesti epilettici, con tali atti vertiginosi, con tali smorfie, con tali vivezze, con tali salti mortali da riuscire imperfetto qualunque ufficio della parola. Alcuna volta la mascherata, cinica oltre modo, si torcea a satira personale, meno viva, ma non meno pungente dell’aristofanesca12.”

Un flash incisivo è quello raffigurante il corteo che, in processione, lamenta l’imminente morte di Carnevale con grida strazianti alternate con il canto funebre (gli schiamazzi sono un tentativo di espellerla dal circuito della quotidianità, di allontanarla dalla vita). In proposito, una specifica maschera e un preciso rituale testimoniano il contrasto tra il bene e il male, il conflitto tra il godimento e la privazione. Il riferimento va alla Vecchia di li fusa, “reliquia simbolica delle Parche” alla quale la superstizione attribuiva la potestà di custodire tesori incantati. Essa è mostruosamente maligna: “simboleggia la prossima morte di Carnevale, e i fanciulli che la inseguono esprimono il tentativo di strapparle la rocca, onde allungare i giorni del Semidio moribondo13.” Sono questi alcuni tra i caratteri maggiormente significativi del carnevale della Contea, la cui rappresentazione viene da Guastella concretizzata con registri linguistici variamente espressi e con significati compositi, tra cui è ampiamente presente, come nei Saturnali romani, il motivo di una renovatio mundi, il “rinnovamento del mondo” attraverso il riso e l’utopia. Siamo così nel paradossale rovesciamento dei valori consueti: ora è lo schiavo a servire il padrone, mentre costui diventa il servo in un contesto di partecipazione popolare che ammette ogni licenziosità in funzione della nascita di un nuovo ordine sociale.     

Federico Guastella

 

19 febbraio 2022

 

Note:

1 S. A. Guastella, L’antico Carnevale della Contea di Modica, edizioni della Regione siciliana, 1973.

2 Ivi, p. 44.

3 Il termine deriva dal latino cascare, forma di danza popolare con andamento simile al salterello.

4 Ivi, p. 48. 

5 L’antico carnevale della Contea di Modica, op. cit., p. 47.

6 Ivi, p. 49.

7 Ivi, p. 53.

8 Ivi, p. 51. 

9 Ivi, pp. 85-86.

10 M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Torino, Einaudi, 1979.

11 Annotazione di S. A. Guastella: Poesia di Giuseppe Cutello, pittore di stanze, quasi analfabeta, ma spontaneo e vividissimo ingegno. Cazzicatummuli capitomboli, bùmmuli fiaschi con bocca strettissima, ‘mmucca in bocca, scianchetti fianchi. 

12 L’antico Carnevale della Contea di Modica, op. cit., pp. 86-87.

13 Ivi, pp. 80-81

 

Bibliografia:

Federico Guastella, Serafino Amabile Guastella. La vita e le opere, Bonanno, Acireale, 2017.

L’Autore

Federico Guastella, abilitato all’insegnamento di Scienze Umane e Scienze umane e storia, è stato Ragusa dirigente scolastico. Apprezzato saggista, ricercatore scrupoloso ed esigente, autore di testi letterari in prosa e in versi, ha al suo attivo anche contributi di pedagogia e didattica, essendo stato impegnato in corsi di aggiornato per docenti della scuola primaria e dell’infanzia. La sua produzione spazia così dalla saggistica alla narrativa alla poesia. Nell’opera Chiaramonte Gulfi – La mia diceria (Ragusa, 2014) ha proposto un itinerario della memoria individuale e collettiva in un serrato dialogo a più voci tra l’attualità e la storia recente, tra le relazioni dei luoghi dell’anima e dei luoghi della natura e del paesaggio. Il libro Colapesce (Ragusa, 2012), scritto in collaborazione, ha valore pedagogico-educativo, oltre che letterario e demologico. Tra le ultime opere pubblicate dall’editore Bonanno di Acireale-Roma, si ricordano: Andrea Camilleri, Guida alla lettura (2015); Fra terra e cielo. Miscellanea di saggi brevi con Gesualdo Bufalino (2016); Serafino Amabile Guastella. La vita e le opere (2017); Il mito e il velo (2017); Viaggio intorno al libro rosso (2018); Ignazio Buttitta e Danilo Dolci, due profili culturali della Sicilia (2019); Luigi Pirandello. I romanzi, i miti (2020). Degno di nota il volume Una rilettura del Gattopardo (Bonanno 2021). Recentemente ha svolto una ricerca sulla Massoneria in provincia di Ragusa che si è conclusa con la pubblicazione del libro Alle radici della Massoneria Iblea (Bonanno, 2021), preceduto dall’opera Pagine esoteriche (Bonanno, 2017). Ha curato la prefazione di più opere; gli sono stati pubblicati articoli in diverse riviste; è stato premiato in più concorsi per la poesia e annualmente si è classificato al primo posto per i saggi anzidetti di cultura siciliana al concorso città di Favara (AG), indetto dal Centro Culturale “R. Guttuso”. E’ in corso di stampa la sua monografia Sguardo su Sciascia. Studioso di storia locale, attualmente è impegnato nella stesura del volume Il miele dolceamaro degli Iblei. Privilegiando la letteratura dei siciliani, sta altresì lavorando su una monografia dal titolo Sicilia letteraria – Luoghi e volti.

 

Riflessione su Giordano Bruno – di Federico Guastella

Finita di leggere la sentenza, Giordano Bruno, rivolto ai suoi giudici in tono minaccioso disse: “Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell’ascoltarla”. Il 17 febbraio del 1600, a Roma, condotto in Campo de’ Fiori, veniva bruciato vivo. Era nudo, legato a un palo, e aveva la lingua stretta in una morsa di legno, perché non potesse dire nulla, neanche negli ultimi terribili istanti. 

Il monumento in bronzo a Giordano Bruno nella piazza romana di Campo de’ Fiori è opera dello scultore Ettore Ferrari (1889). Il filosofo è mostrato rivolgere il volto in direzione della Città del Vaticano, in segno di ammonimento alla Chiesa. Originariamente Ferrari intendeva raffigurare Bruno con la mano e l’indice puntati verso il Vaticano come simbolo di accusa, rappresentandolo in atto di sfida davanti all’Inquisizione, ma poi ripiegò sul soggetto meno aggressivo di un Bruno pensoso, che comunque volge lo sguardo serio sempre verso la sede del papato. Sul basamento sono presenti l’iscrizione e vari bassorilievi rappresentanti il processo e la morte di Bruno.

La concezione bruniana della tolleranza affonda le sue radici nella cosmologia. La visione di un universo infinito spazza via definitivamente la nozione di centro assoluto e, quindi, anche la nozione di verità assoluta. Non c’è più un solo centro, ma ci sono tanti centri per quanti sono gli esseri viventi che popolano gli infiniti mondi. Bruno, partendo dalle geniali scoperte di Copernico, “riscrive” in maniera radicale i rapporti tra l’individuo e il mondo, tra l’uomo e la verità, tra il filosofo e la conoscenza. Nell’opera Cena  de le ceneri, pubblicata nel 1584, egli, tessendo alte lodi di Copernico, può connettere alla rivoluzione copernicana l’idea dell’infinità dell’universo, popolato di mondi innumerevoli in movimento per lo spazio infinito. Veniva così infranto definitivamente il chiuso universo tolemaico medievale con l’avvento di concezioni più moderne.

La sua argomentazione era basata sul principio della pienezza, per cui una causa infinita, cioè, Dio deve avere un effetto infinito senza alcun limite alla sua potenza creatrice. Perfetto – egli dice nel De immenso – non è ciò che è completo e chiuso in proporzioni determinate, ma ciò che comprende innumerevoli mondi e quindi ogni genere e ogni specie, ogni misura, ogni ordine e ogni potere. Precisiamo che nel De infinito aveva distinto una duplice infinità: quella di Dio che è tutto in tutto il mondo e tutto in ciascuna parte di esso; quella dell’universo che è tutto in tutto ma non in ciascuna parte. Nel De immenso ora distingue una duplice perfezione: una in essenza e l’altra in immagine. La prima è quella di Dio come intelletto del mondo a cui appartiene la prima infinità; la seconda è quella dell’immenso simulacro corporeo di Dio che è il mondo, al quale appartiene la seconda infinità.

Il Cusano, da Bruno assai ammirato, aveva già fatto uso nel suo insegnamento di un tipo di simbolismo geometrico ermetico. Il detto famoso secondo cui Dio è “una sfera che ha il centro ovunque e la circonferenza in nessun luogo” si ritrovava di fatto, per la prima volta in un trattato ermetico del XII secolo, e fu trasferito dal Cusano all’universo, inteso come riflesso della divinità in un’accezione di spirito tipicamente ermetico. Tale concetto fu fondamentale per Bruno, ai cui occhi i mondi innumerevoli altro non erano che centri divini dell’universo senza limiti. Il Tutto infinitamente espanso era pur sempre Uno.

Questo è stato un tema costante di Bruno, tant’è che nell’opera De la causa principio et uno sono contenuti passi significativi: il Tutto è Uno e il mago può fare affidamento sulle scale di occulte simpatie che innervano l’intera natura. Sta di fatto che il filosofo e il pittore lavorano a partire dalle ombre: si misurano con la materia, con una realtà sottoposta a mutazioni, mangiamenti e riverberi. Bisogna risalire dal molteplice all’unità, bisogna cogliere dietro l’apparente movimento la coscienza delle cose. Tutta la filosofia bruniana della conoscenza si fonda sullo sforzo di “vedere” l’invisibile. “Conoscere” significa innanzitutto vedere per immagini. E l’immaginazione fu da Bruno considerata il più potente dei sensi interiori, perché grazie ad essa il divino comunica con l’umano. Proprio l’immaginazione era stata da lui vista come lo strumento per raggiungere il divino e conseguire poteri divini.

La luce, egli dice nel De imaginum, signorum et idearum compositione, è il veicolo tramite il quale le immagini e i segni divini vengono impressi nel mondo interiore: questa luce non è quella per cui le normali impressioni dei sensi colpiscono la vista, bensì una luce interiore unita alla profondissima contemplazione. L’opera Eroici furori, pubblicata nel 1585 in Inghilterra, consiste in una serie di poesie d’amore. Nella dedica a Philip Sidney, Bruno spiega che il suo petrarchismo non appartiene al filone comune, rivolto all’amore di una donna, ma è di specie superiore ed esprime la parte intellettuale dell’anima alla ricerca di Dio. Il sole, l’Apollo universale, la luce assoluta, si riflette nella sua ombra, nella sua luna, nella sua Diana che è il mondo della natura universale in cui l’uomo in preda a eroici furori  ricerca le tracce del divino.

Sospeso in una posizione mediana tra gli dei (che non cercano la sapienza perché la possiedono) e gli ignoranti (che non la cercano perché presumono di possederla), il vero filosofo dedica la vita alla ricerca della sapienza nella certezza che mai potrà possederla nella sua totalità. La filosofia coincide con un amore incondizionato e smisurato per la sapienza e la vera ricerca filosofica non può avvalersi di verità indiscutibili valide una volta per tutte. Non a caso Bruno insiste nei suoi dialoghi sulla molteplicità dei metodi e delle filosofie, fermo restando che il termine finale della conoscenza umana è l’unione più intima possibile con la natura nella sua sostanziale unità.

Nel mito di Atteone l’ immagine è mirabile. Atteone, a caccia dei “vestigii”, viene divorato dai suoi cani che simboleggiano pensieri di cose divine ed egli diventa selvatico come un cervo che vive nei boschi fino ad ottenere il potere di contemplare Diana ignuda, cioè la bella disposizione del corpo della natura. Uno dei passi più misteriosi è quello in cui Atteone, il cacciatore del divino, scorge un volto di bellezza divina rispecchiato nelle acque della natura. Nella discesa della natura amata è dunque possibile scorgere l’immagine del divino creatore, rispecchiato nelle acque. Nel “vedere”  il mitico cacciatore scopre che ciò che cercava (la sua preda) non era fuori di sé, ma dentro di sé. La potenza intellettiva dell’uomo non s’appaga di una cosa finita e tende alla fonte stessa della sua sostanza, che è l’infinito della natura e di Dio.

Diversamente dalla figura dominante nel Rinascimento, quella del cortigiano al servizio di un principe, Bruno fece della libertà di parola e di pensiero una delle sue ragioni di vita. Per questo, in Francia come in Inghilterra, egli non esitò ad abbandonare privilegi e agi per difendere la sua filosofia, caratterizzata da un pensiero in grado di abbattere le frontiere tra cielo e terra, tra umano e divino, tra scienze umane e scienze della natura. Il suo rogo segnò la fine del pensiero filosofico-teologico che voleva unire fede e ragione, teologia e scienza.  Quando nel 1582 egli pubblicò la commedia intitolata Candelaio, che offre una realistica satira sociale, aveva già in mente, grosso modo, l’itinerario filosofico da seguire fino agli Eroici furori: l’esperienza in volgare si apre con la messa in scena dell’ignoranza (tre personaggi che non conoscono se stessi) e si chiude con la visione di una “divinità” che non è fuori di noi, ma nella natura e all’interno di noi stessi.

La concezione della religione è un punto forte della sua filosofia. Non esistono religioni “vere” o religioni “false”. Esistono religioni “utili” o “dannose”: il loro compito è quello di servire da modello etico di comportamento per le masse escluse dalla ricerca filosofica. Per lui, filosofo, la scelta è decisamente a favore della religione egizia: tutte le sue riflessioni convergono verso il sole, non soltanto il sole visibile, ma il divino intelletto, del quale il primo è immagine. In tal modo, Bruno anelava a conseguire l’esperienza egiziana, cioè quella di divenire, in senso veramente gnostico, l’Aion, che racchiude in sé i poteri divini. Egli parla, infatti, del modo in cui il culto egiziano ascendeva, attraverso la molteplicità delle cose distribuite nel contesto delle relazioni astrologiche, all’Uno che è al di là delle cose.

La glorificazione della religione magica degli Egiziani si trova nell’opera lo Spaccio della bestia trionfante, pubblicata in Inghilterra nel 1584. Gli Egiziani, vi si dice, sono vissuti prima dei Greci e degli Ebrei. Ovviamente prima dei cristiani, ed hanno avuto, rispetto ad essi, religione, magia e leggi migliori. Nell’opera la riforma politico-religiosa viene annunciata in cielo con la purificazione delle immagini celesti da parte degli dei planetari che,
convocati da Giove, riformano se stessi, lo zodiaco e le costellazioni boreali e australi. Via via che vengono discusse le immagini delle varie costellazioni, sono deplorati i vizi e lodate le virtù collegati a ciascuna di esse: i vizi vengono estromessi, espulsi dal cielo e al posto di ciascuno di essi ascende la virtù opposta. Così, alla fine la “Bestia trionfante”, che è il complesso di tutti i vizi opposti alle virtù, è completamente spacciata. La riforma, dunque, incomincia nella mente degli stessi dèi, i quali debbono togliere dal cielo le qualità negative, e sostituirle con quelle positive. E’ la riforma interiore degli stessi Dèi a riflettersi tutt’intorno, sulla volta dei cieli, quando le virtù ascendono ad occupare il posto dei vizi nelle costellazioni. In effetti, quella di Bruno è un’etica integralmente egiziana, nell’ambito della quale la “riforma”, e cioè la “salvezza”, è conseguita nell’ordine cosmologico: la “bestia trionfante”, cioè il complesso dei vizi (gli influssi cattivi delle stelle), è vinta dal complesso delle virtù che, assieme ai poteri divini, prevalgono nella personalità riformata.

Sicché, l’etica propugnata da Bruno si compendia in un regime nel quale “legge” e “ordine” promuovono lo sviluppo delle attività pacifiche e utili, e dal quale è bandita ogni lotta di parte come nella città del sole di Campanella. In sintesi, si può dire che la tolleranza, il rispetto delle culture diverse e la presenza del divino nella natura sono i temi che hanno attirato la sua acuta attenzione e che, del resto, possono ritrovarsi in ogni cammino iniziatico.

Federico Guastella   

Ragusa, 17 febbraio 2022

 

Federico Guastella, abilitato all’insegnamento di Scienze Umane e Scienze umane e storia, è stato Ragusa dirigente scolastico. Apprezzato saggista, ricercatore scrupoloso ed esigente, autore di testi letterari in prosa e in versi, ha al suo attivo anche contributi di pedagogia e didattica, essendo stato impegnato in corsi di aggiornato per docenti della scuola primaria e dell’infanzia. La sua produzione spazia così dalla saggistica alla narrativa alla poesia. Nell’opera Chiaramonte Gulfi – La mia diceria (Ragusa, 2014) ha proposto un itinerario della memoria individuale e collettiva in un serrato dialogo a più voci tra l’attualità e la storia recente, tra le relazioni dei luoghi dell’anima e dei luoghi della natura e del paesaggio. Il libro Colapesce (Ragusa, 2012), scritto in collaborazione, ha valore pedagogico-educativo, oltre che letterario e demologico. Tra le ultime opere pubblicate dall’editore Bonanno di Acireale-Roma, si ricordano: Andrea Camilleri, Guida alla lettura (2015); Fra terra e cielo. Miscellanea di saggi brevi con Gesualdo Bufalino (2016); Serafino Amabile Guastella. La vita e le opere (2017); Il mito e il velo (2017); Viaggio intorno al libro rosso (2018); Ignazio Buttitta e Danilo Dolci, due profili culturali della Sicilia (2019); Luigi Pirandello. I romanzi, i miti (2020). Degno di nota il volume Una rilettura del Gattopardo (Bonanno 2021). Recentemente ha svolto una ricerca sulla Massoneria in provincia di Ragusa che si è conclusa con la pubblicazione del libro Alle radici della Massoneria Iblea (Bonanno, 2021), preceduto dall’opera Pagine esoteriche (Bonanno, 2017). Ha curato la prefazione di più opere; gli sono stati pubblicati articoli in diverse riviste; è stato premiato in più concorsi per la poesia e annualmente si è classificato al primo posto per i saggi anzidetti di cultura siciliana al concorso città di Favara (AG), indetto dal Centro Culturale “R. Guttuso”. E’ in corso di stampa la sua monografia Sguardo su Sciascia. Studioso di storia locale, attualmente è impegnato nella stesura del volume Il miele dolceamaro degli Iblei. Privilegiando la letteratura dei siciliani, sta altresì lavorando su una monografia dal titolo Sicilia letteraria – Luoghi e volti.

Contatti: e-mail federico.guastella@tin.it

 

Il sussurro del mondo, di Richard Powers – recensione di Cosimo Alberto Russo

Sono rimasto molto coinvolto dalla lettura del romanzo “Il sussurro del mondo” di Richard Powers (titolo originale  “Overstory”, edizione italiana  La Nave di Teseo, 2019) e mi fa piacere condividere le mie impressioni.

Il romanzo  ha vinto il premio Pulitzer nel  duemila e diciannove. Si tratta di un’opera poderosa di stampo chiaramente ambientalista. 

L’autore divide il racconto in 4 parti concentrandosi sugli alberi, la loro struttura, il loro comportamento, la loro diffusione e importanza nell’ecosistema del pianeta. Le quattro suddivisioni assumono i nomi caratteristici della conformazione di un albero; in particolare, la prima viene chiamata radici, la seconda tronco, la terza chioma e la quarta semi.

Si può dire che ogni parte strutturale del libro abbia una sua  connotazione specifica. “Radici” ci presenta l’infanzia dei vari personaggi che saranno i protagonisti della trama del romanzo; conosciamo così l’inizio del rapporto di ciascuno di loro con gli alberi, in particolare con una o più specie di essi. Ogni storia si presenta come un grande affresco poetico che tocca nel profondo l’animo del lettore. Ad esempio quella di Patty-la-pianta: “Patty Westerford si innamora del suo cerbiatto. Il suo è fatto di ramoscelli, per quanto sia altrettanto vivo…Tutte le sue creature di ramoscelli sanno parlare, benché la maggior parte, come Patty, non ne senta il bisogno. Anche lei non ha aperto bocca fino all’età di tre anni…i genitori spaventati hanno cominciato a pensare che la figlia fosse una ritardata mentale.” E ancora: “Il fatto che il suo viso fosse inclinato e orsino non ha giovato. I bambini del vicinato scappavano via da lei…le persone fatte di ghiande sono più clementi”…”Suo padre è l’unico che capisce il suo mondo silvestre…”. Patty seguirà il padre nelle sue visite alle fattorie in qualità di consulente agrario e sarà così che “Patty-la-pianta” si interesserà alla botanica: “Sono una grandissima invenzione gli alberi. Talmente grande che l’evoluzione continua a idearla, ripetutamente”…”Ciechi davanti alle piante. E’ la maledizione di Adamo. Vediamo soltanto le cose che ci somigliano”; guidata da questa educazione così piena di amore e rispetto per il mondo “verde”, Patrizia  si laureerà  in botanica.

Ben nove altri indimenticabili personaggi prenderanno vita nelle descrizioni delle loro famiglie e dell’ambiente sociale e naturale in cui sono immerse, sempre con contenuti molto intensi e coinvolgenti. 

Per il lettore si rivela, a mio parere, un approccio stupefacente e travolgente, che, da solo, rende questo libro un’opera all’altezza dei grandi classici. Inoltre, in esso si trovano diversi riferimenti alla letteratura ed al pensiero ambientalista che denotano ulteriormente il pensiero dell’autore.

Tronco” affronta la giovinezza di ognuno di questi personaggi: gli studi, le strade intraprese, le difficoltà ed i successi. Seguendo sempre Patty-la pianta la scopriamo dottorata in botanica che, in contrapposizione alla visione scientifica standardizzata, scopre un aspetto incredibile della vita delle piante: queste comunicano fra loro ed interagiscono in seguito a tali comunicazioni. Scoperta troppo rivoluzionaria che, dopo la grande risonanza iniziale, la porterà alla disgrazia accademica.

Situazioni simili accadranno agli altri protagonisti, con crisi personali, lavorative o economiche che li spingeranno ad occuparsi della tutela delle foreste degli Stati Uniti.

In particolare li ritroveremo, almeno parte di loro, attivisti dei movimenti che lottano contro l’abbattimento delle sequoie nell’Ovest americano.

Forse la trama in questa sezione si dipana a volte in maniera un po’ prolissa, ma nell’insieme necessaria per presentarci uno dei messaggi chiave del romanzo: “Una foresta merita protezione a prescindere dal suo valore per gli esseri umani”.

Chioma” e “Semi” trattano, come prevedibile, la maturità e la fine delle vite dei nostri personaggi; i toni sono sia lirici che drammatici, come lo sono le esistenze degli esseri umani.

Fino al termine l’autore mantiene alto il messaggio che vuole trasmettere: “Politicamente, praticamente, emotivamente, intellettualmente: gli esseri umani sono tutto ciò che conta, la parola finale. Non si può arrestare la brama umana. Non si può nemmeno rallentarla. Soltanto mantenerla costante costa più di quanto la specie possa permettersi”. 

Cosimo Alberto Russo

Roma, 15 febbraio 2022

 

Richard Powers

Richard Powers è autore di dodici romanzi, ha ricevuto numerosi premi tra cui il premio Pulitzer (per il romanzo Il sussurro del mondo), il MacArthur Fellowship, il National Book Award, il Premio Gregor von Rezzori; vive ai piedi delle Great Smoky Mountains.
Per La nave di Teseo è in corso la nuova edizione delle sue opere, compreso il romanzo Canone del desiderio, per la prima volta pubblicato in Italia.

La scrittura dei figli di Nettuno: Astrologia e Grafologia Planetaria a confronto

Abbiamo il piacere di ospitare un interessantissimo studio della grafologa Marisa Paschero, profonda studiosa della disciplina, sulla quale ha già pubblicato diversi testi. Lo studio tratta della correlazione fra la personalità caratterizzata da una forte componente nettuniana e la relativa grafia, secondo il sistema interpretativo della Grafologia Planetaria.   p.p.

di  Marisa Paschero*

La GRAFOLOGIA PLANETARIA, conosciuta anche come “Metodo Saint Morand”, si basa sul sistema interpretativo che la grafologa Lise Koechlin ha magistralmente elaborato negli anni ’30. Considera i corpi celesti come un universo archetipico che vive e si esprime in ogni manifestazione del nostro essere, compresa l’attività grafica, e costituisce una suggestiva tipologia che arricchisce e rende più immediata la percezione della scrittura.

Può essere considerata un prezioso complemento dell’analisi grafologica classica, perché, come ricorda Gille Maisani nella sua Psicologia della scrittura: “ ……le  denominazioni mitologiche  esprimono la dominanza dei caratteri corrispondenti, come la potenza sociale di Giove, la combattività di Marte, ecc., in un modo felice perché concreto, vivo e ricco di tutta una cultura di cui noi siamo gli eredi diretti.”.

Negli schemi di Grafologia Planetaria NETTUNO viene collocato in opposizione a URANO, allo scopo  di confrontare visivamente due modalità espressive antitetiche: la scrittura verticalizzata dell’individualista URANO contro la dilatazione in senso orizzontale di NETTUNO, principio di fusione, di comunione, di indifferenziazione. Il pianeta del grande oceano è posto immediatamente dopo la LUNA: e infatti  la scrittura-Nettuno viene descritta come una sorta di amplificazione della scrittura-Luna, ma con caratteristiche più dinamiche, veloci, toniche ed attive. Grafia “acquatica” per eccellenza, dell’elemento che la caratterizza conserva tutta la natura fluida, ondeggiante, sinuosa e sfuggente, a cui unisce però  un’energia possente, spesso eccessiva ed incontrollata. Grandi movimenti la animano e la dilatano, creando un insieme che sembra incapace di strutturarsi, di darsi una forma solida e riconoscibile : la difficoltà di costruire una forma sembra essere proprio una delle caratteristiche più evidenti della grafia Nettuno.

FORMA e MOVIMENTO sono considerati in Grafologia due parametri interpretativi basilari, espressione delle due grandi categorie che descrivono il gesto grafico nella sua essenza. La scrittura è il frutto di un movimento che dà origine ad una forma: dapprima non c’è che il movimento, l’impulso iniziale che crea una traccia. La traccia a sua volta assume un aspetto identificabile, perché codificato da un alfabeto, e maggiore è l’adesione al “modello” calligrafico da parte di chi scrive, maggiori risultano l’autocontrollo e la capacità di adattamento alle norme sociali. Le scritture che presentano lettere molto curate, ben definite e riconoscibili, con un aspetto generale molto statico vengono chiamate “scritture-forma”. Invece, quando è privilegiato il movimento e le lettere vengono tracciate con minore accuratezza, la scrittura diventa per forza di cose poco leggibile e viene detta “oscura”: URANO, NETTUNO e PLUTONE, scritture fuori norma, sono tutte scritture oscure.

Il MOVIMENTO è quindi primario, collegato all’istinto, alle pulsioni, all’inconscio, mentre la FORMA  appartiene al mondo della consapevolezza  e delle realizzazioni razionali. Dal rapporto forma-movimento nasce il RITMO personale che rende “unica” ogni scrittura. Il ritmo personale è il dinamismo peculiare, individuale: non è imitabile, mentre la forma della lettere si può benissimo riprodurre. Nella scrittura-Nettuno il movimento è sempre dominante rispetto alla forma, ma è un movimento che fluisce in maniera imprecisa, talvolta evanescente, talvolta caotica, senza conoscere le brusche rotture che caratterizzano la scrittura-Urano, né gli allentamenti morbidi, curvi e rilasciati della LUNA.

La scrittura di Roberto Assagioli, il padre della Psicosintesi, ha un ritmo di tipo nettuniano, ma conserva il legame con la forma delle lettere, che restano riconoscibili. E’ un bellissimo esempio di integrazione positiva dell’energia nettuniana.

Scritto di Roberto Assagioli (1888-1974)

Un’altra caratteristica della scrittura-Nettuno è il cosiddetto “spazio invaso”, ossia l’occupazione integrale del foglio.In generale, l’impostazione della pagina è la visualizzazione più immediata del “quadro guida” che dirige e governa il gesto grafico: è collegata all’inserimento sociale, all’adattamento al mondo, all’organizzazione del tempo, dello spazio, del pensiero. I margini esprimono simbolicamente delle norme : il margine superiore le norme sociali e il senso della gerarchia, il margine sinistro le norme genitoriali e l’educazione ricevuta  (il Super Io freudiano), il margine destro le norme che regolano la vita di relazione e i rapporti interpersonali. L’energia istintuale di NETTUNO, naturalmente, non può rispettare i confini, sia pure simbolici, rappresentati dai margini, dai capoversi e da una spaziatura regolare: se la LUNA ignora l’impostazione spaziale, NETTUNO fa anche di più, la elude e la trascende.

Scritto di Emilio Salgari (1862-1911)

La scrittura di Emilio Salgari è un ottimo esempio di “spazio invaso” e anche, aggiungerei, di una non buona integrazione dell’energia nettuniana. Nettuno qui ha agito le sue forze più devastanti: Salgari ha prodotto tantissimo, ha dato vita ad una quantità di personaggi, ma la sua vita personale e familiare è stata disastrosa e lo ha portato al suicidio. In Grafologia si definiscono “bianchi” gli spazi non  scritti, i vuoti che si creano tra le lettere, tra le parole, tra le righe. I “bianchi” rappresentano la parte inconscia della personalità, il regno del sogno, il mondo dell’immaginato, del suggerito, del taciuto, e assumono un’importanza che è quasi pari a quella del testo scritto. Per NETTUNO, come spesso anche per la LUNA, il bianco è preponderante, invadente, come privo di controllo : è un bianco aritmico, che costruisce caratteristici  canali verticali chiamati “caminetti”. I “caminetti”, molto evidenti nella scrittura di Salgari, sono sempre indicativi di solitudine affettiva, di isolamento a livello interiore. 

Anche il SOLE e SATURNO presentano questa particolare configurazione grafica, ma con motivazioni di base completamente differenti: per SATURNO si tratta di un isolamento quasi fisiologico, indispensabile al suo equilibrio, per il SOLE è l’isolamento selettivo, cercato talvolta come una torre d’avorio, per NETTUNO può essere invece la perdita di contatto che avviene in maniera totale, indifferenziata, come una fuga, un’estrema difesa dai fantasmi creati dall’inconscio.

Scritto di Charles Baudelaire (1821-1867)

Anche nella scrittura di Charles Baudelaire sono evidenti i “caminetti”: d’altra parte si tratta di una scrittura ricchissima di suggestioni nettuniane, con i suoi impennamenti, sprofondamenti, rigonfiamenti, arrotolamenti simili a conchiglie  ( le “conchiglie” sono considerate gesti di regressione e sono presenti anche in altre tipologie).

La nostra cultura ci porta ad identificare NETTUNO principalmente con il dio del mare della mitologia latina, ma diversi archetipi si legano al simbolismo nettuniano. Il greco POSEIDON, signore degli abissi oceanici, portatore di inattesi sconvolgimenti e capace di stupefacenti metamorfosi, il divino PEGASO, il cavallo alato frutto dell’unione tra Poseidon e la Gorgone, sospeso tra due mondi e due nature,TRITONE , altro dio marino figlio di Poseidon, dalla duplice natura di uomo e di pesce, e il prodigioso PROTEO, demone del mare col potere di assumere ogni forma, di illudere, disorientare, confondere … Proteo che conosce il mistero di ogni profezia, ma si rifiuta di rivelarlo ai mortali.

Sempre ritorna la lettura  “multiforme” ed inquietante dell’archetipo che accomuna questi personaggi mitici: creature possenti ed evanescenti, minacciose e sfuggenti insieme. La capacità di cambiare fisionomia, di assumere differenti aspetti, di coinvolgere, affascinare ed eludere, si traduce  nel segno grafico detto “proteiforme”: la scrittura-Nettuno può variare anche moltissimo da un documento all’altro, rendersi irriconoscibile ed indecifrabile, sorprendere ed ingannare, sottolineando così la sconcertante natura “dalle molte facce” dei figli di Nettuno.

Concludo con alcune firme particolarmente ricche dell’espressività del pianeta: Liz Taylor, Klaus Kinsky, Elvis Presley e Ornella Muti, che nella  “M”  del cognome esprime un bel simbolo nettuniano.

 

 

Liz Taylor

 

Klaus Kinsky

 

Elvis Presley

 

Ornella Muti

 

 

 

Marisa Paschero

Torino, 20 gennaio 2022

 

Marisa Paschero

* Marisa Paschero, laureata in Lettere, studiosa di scrittura e di simbolismo, ha una formazione grafologica interdisciplinare che collega metodi diversi. E’ specializzata in Grafologia dell’età evolutiva e perizia giudiziaria, svolge attività di consulente e di grafoterapeuta, e insegna il metodo grafologico francese con particolare attenzione alla correlazione tra  scrittura e simbolismo planetario.

Bilancia, con Ascendente Bilancia, Luna in Acquario e Mercurio in Scorpione, da tempo approfondisce con passione lo studio dell’Astrologia, disciplina affascinante e ulteriore straordinario strumento di conoscenza della personalità.

Per le Edizioni Mediterranee ha pubblicato  Grafologia e grafoterapia. Comprendere e migliorare se stessi attraverso la scrittura (2013), e Iniziazione alla grafologia (2019). Per le Edizioni Amrita ha pubblicato Lo scarabocchio, il tratto di unione fra noi e il nostro inconscio nel 2018.

 

L’Alchimia nella Roma del Seicento – introduzione di Cosimo Alberto Russo

 

Il testo si inserisce nella collana “Tradizione e innovazione, territorio e salute – Taccuini”, a cura dell’Università degli Studi di Ferrara, edito dalla casa editrice Aracne.

Nasce da un’idea della curatrice Maria Teresa Carani, già da alcuni anni interessata allo sviluppo dell’alchimia a Roma nel Seicento; da questo suo interesse è nato un progetto che ha portato dapprima alla realizzazione di un “docufilm” (con la regia di Corrado Boccia), successivamente (da parte della stessa Maria Teresa Carani)  alla presentazione di una relazione al 70° Congresso di Storia della Farmacia svoltosi a Ferrara il 28-29 novembre 2020, e infine alla stesura di questo testo.

Il Taccuino, perché di questo si tratta, si è avvalso della partecipazione di vari collaboratori: Bruno Babbi, Tina Bovi, Maria Teresa Carani, Anna Fabiani, Giuseppina Guglielmi, Serenella Midolo, Cosimo Alberto Russo, Anna Livia Villa.

Ognuno di questi autori ha approfondito alcuni aspetti particolari del panorama alchemico romano del periodo trattato; nel dettaglio:

Bruno Babbi: -Testimonianze e curiosità sulla figura di Massimiliano Palombara;

Tina Bovi: -Villa Palombara a Piazza Vittorio
-Il laboratorio dell’alchimista;

Maria Teresa Carani: -Villa Gentili-Dominici
-La Porta Magica: copia al Museo Storico Nazionale dell’Arte Sanitaria;

La “Porta Magica” fatta costruire dal Marchese Palombara

Di Sailko – Opera propria, CC BY 2.5, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=869924

Anna Fabiani: -Giuseppe Francesco Borri;

Giuseppina Guglielmi: -Il Tempio di Serapide alle Scuderie del Quirinale;

Serenella Midolo: -Cristina di Svezia;

Cosimo Alberto Russo: -Dall’alchimia alla chimica;

Anna Livia Villa: -Contesto storico
-La distilleria del Cardinale Francesco Maria Del Monte nella Villa Ludovisi  
-Il Cardinale Francesco Maria Bourbon Del Monte.

Fulcro dello sviluppo della scena alchemica romana, nel periodo studiato, è stato sicuramente l’arrivo a Roma della regina Cristina di Svezia; è stata infatti lei, dato il suo grande interesse per l’alchimia, ad aprire i suoi salotti alla nobiltà romana mossa dalla stessa passione.

Busto di Cristina di Svezia – autore Giulio Cartari (1681)

Si forma così un cenacolo di studiosi che sviluppa l’argomento sia dal punto di vista puramente metafisico che da quello sperimentale.

Nello stesso periodo spicca la figura di Giuseppe Francesco Borri; costui è un vero “iatrochimico”, sulle orme di Paracelso, e rappresenta quel filone più moderno dello spirito alchemico, che unisce la ricerca della perfezione allo studio e all’applicazione dei risultati di tale ricerca nella medicina (a Strasburgo effettuò persino una difficile operazione di cataratta). 

Il Taccuino tratta le storie dei vari protagonisti in una forma scorrevole che ne rende piacevole la lettura. Si tratta (come riportato sulla quarta di copertina) di “un percorso inusuale in una Roma del Seicento meno conosciuta…seguendo il filo rosso della segreta arte della trasmutazione si possono ancora vedere ambienti, palazzi e ville dove gli apprendisti alchimisti si dedicarono alla loro ricerca metafisica…si potrà scoprire un affresco ad olio di un giovane Caravaggio, la “Porta Magica” della perduta Villa Palombara, laboratori alchemici”.

Cosimo Alberto Russo

Roma, 22 settembre 2021

Lo scorso 30 settembre il libro “L’Alchimia nella Roma del Seicento” ha ottenuto dall’Accademia di Storia dell’Arte Sanitaria di Roma il prestigioso Premio “Elide Piccinini Stramezzi”, quale riconoscimento del particolare valore divulgativo dell’opera, nonché dell’accuratezza e chiarezza dei contenuti. Le nostre più vive congratulazioni agli Autori!

10 ottobre 2021                                                                      Pippo Palazzolo

 

Chi fosse interessato all’acquisto del taccuino presentato può ordinarlo al seguente link:

https://www.aracneeditrice.eu/it/pubblicazioni/alchimia-del-seicento-a-roma-maria-teresa-carani-bruno-babbi-tina-bovi-anna-fabiani-giuseppina-guglielmi-serenella-midolo-cosimo-alberto-russo-anna-livia-villa-9791259942760.html 

E’ altresì reperibile presso le librerie coop e, a breve, nei siti e nelle librerie indicate nel link riportato.

Breve nota sul segno zodiacale del Leone

di Pippo Palazzolo

Ieri, alle 16.27 ora locale, il Sole è entrato nel segno del Leone (zodiaco tropicale). Per la precessione degli equinozi, sappiamo che il Sole si trova, dal punto di vista celeste, ancora nella costellazione del Cancro. L’astrologia si basa, per le sue interpretazioni, sullo zodiaco tropicale, suddiviso in 12 segni di 30 gradi ciascuno, il cui punto 0° è dato dall’Equinozio di Primavera, intorno al 21 marzo di ogni anno. Il segno del Leone cade quindi in piena stagione estiva (22/23 luglio-22/23 agosto), per questo è chiamato segno “fisso”. Inoltre, nelle classificazioni astrologiche, è associato alla polarità maschile e all’elemento fuoco. Il suo “pianeta” governante è il Sole (in questo caso, una stella) e le sue caratteristiche tradizionali lo indicano come un segno che conferisce ai nativi: coraggio, forza, generosità, ambizione, nobiltà d’animo; ma anche, in negativo: arroganza, presunzione, suscettibilità. La posizione del Sole ha un’importanza primaria nell’interpretazione del cielo di nascita, ricordiamo però che molto peso hanno la posizione della Luna e dell’Ascendente, nonché eventuali accumuli di pianeti in un segno (“stellium”), quindi anche chi non ha il Sole in Leone potrebbe ugualmente avere delle caratteristiche leonine. Consiglio non richiesto ai nativi del Leone: non cercate di essere sempre i primi in tutto, la vita non è una gara!

Pippo Palazzolo

23 luglio 2021

Figli di un dio meccanico

di Claudio Messori*

Viviamo in una società tecno-centrica, dove la scienza e la tecnica, in virtù dell’efficacia dei loro mezzi, possono trasformare ciò che si pensava naturalmente (o divinamente) predeterminato¹. Dove Tecno-centrismo fa rima con Teo-centrismo. 

Ma la centralità della tecnologia², ovvero del saper fare inteso come ideazione, produzione e applicazione intenzionale di tecniche (procedure) manuali e/o strumentali finalizzate al soddisfacimento di scopi antropici, è un fatto relativamente recente nella storia delle comunità umane³. 

Inizia a delinearsi con l’avvento della prima grande rivoluzione tecnologica, quella che segna il passaggio dalle culture totemiche tardo paleolitiche alle culture megalitiche del Neolitico (tra i 30 e i 20 mila anni fa), quando viene adottata una rappresentazione interna della realtà esterna che contempla la possibilità e la necessità di ideare, realizzare e ricorrere all’uso di nuove tecniche e di nuove tecnologie nella domesticazione cerealicola (agrotecnia), nell’allevamento di bestiame (zootecnia), nella filatura, tessitura, nella costruzione di abitati, nella regimentazione delle acque fluviali e nella lavorazione della ceramica.  

Diventa Storia con l’addomesticamento del fuoco per la lavorazione dei metalli (Età dei Metalli, VIII-I millennio a.C.); con l’istituzione del conflitto armato (guerra); con la nascita delle prime Città-Stato sumere (IV millennio a.C.) e con l’invenzione della scrittura (Mesopotamia, Uruk, circa 3300 a.C.); con l’elaborazione di una moltitudine di divinità e di forme complesse di organizzazione sociale di tipo piramidale che ad un Sovrano (di origine divina) affiancano l’istituzione di tre caste, i Nobili, i Sacerdoti, i Guerrieri (l’Induismo non contempla un sovrano e i nobili sono raggruppati in tre caste, in ordine decrescente, brāhmaṇa-kṣatriya-vaiśya, che dominano sulla casta più bassa, i śūdra).

Decisivi per la storia delle civiltà che si affacciano sul bacino euro-mediterraneo, saranno, tra i tanti, quattro eventi, qui elencati in ordine cronologico decrescente (dal più antico al più recente): 

  • l’apparizione (seconda metà del II millennio a.C., epoca in cui i popoli semitici del Sinai inventano la scrittura alfabetica), del dio abramitico Yahweh, Colui che È, figura divina sinaitica elaborata dalla casta sacerdotale semitica, che tra il VII e VI sec. a.C., in un’epoca retta dal politeismo, verrà adottata come unico dio venerato in un unico tempio dal Regno di Giuda, con capitale Gerusalemme; 
  • la nascita della Polis greca (VIII sec. a.C.), e del Senato romano (VIII sec. a.C.), che mettono al centro della vita politica e sociale dello Stato e della Repubblica l’uso della Dialettica, la serrata applicazione pratica della logica, e la Retorica, l’abilità nell’uso della parola (logos) come chiave di ogni autorità secolare; 
  • la centralità post-socratica (dal III sec. a.C. in poi) assegnata all’uso della Ragione delle idee (della matematica e della geometria) e di una metafisica che viene sgravata dal fardello del Lògos (in Platone il Cielo iperuranico delle Idee e in Aristotele il Motore Immobile, metafora della anti-storicità della metafisica) per essere trasformata in metafisica applicata per scopi pratici;
  • l’affermazione imperiale del culto giudaico-cristiano (V sec. d.C.), basato sull’assunto che Gesù di Nazareth (predicatore e profeta ebreo itinerante, caduto in disgrazia e crocifisso per mano romana) fosse il Messia, Il Cristo (dal greco Christòs, l’Unto), il Figlio del Re dei re, il Figlio del, ed esso stesso il, Dio abramitico Yahweh (questo è quello che presero a predicare i suoi apostoli, tra i quali Saulo di Tarso, latinizzato in Paolo, ovvero San Paolo, cittadino romano di origini greche e famiglia ebraica che prima di morire – 64 o 67 d.C. – riuscì ad estendere il nuovo culto, allora praticato solo da un ristretto numero di comunità giudeo-cristiane, fuori dai confini della Palestina, verso l’attuale Giordania, la Turchia e la Grecia).

Fatto unico nella storia delle credenze e dei culti religiosi, Yahweh non si limita ad assumere sembianze umane, come fanno molte altre divinità, ma si fa letteralmente umano e mortale in Cristo, perché solo così l’umanità può dirsi tale, solo accogliendo Dio (immortale) in sé attraverso Cristo (mortale), l’essere umano può dirsi umano (di qui la giustificazione teologica a tutte le atrocità compiute nei secoli successivi nei confronti dei miscredenti).

L’aver reso mortale l’immortale e immortale il mortale (la consustanzialità della pericoresi cristologica, base del dogma della Trinità), è una operazione di metafisica applicata per scopi pratici sbalorditiva, il miracolo ispiratore, il nucleo fondativo di un nuovo paradigma di civiltà che, seguendo due strade parallele, quella ufficiale di Santa Romana Chiesa e quella sotterranea dell’essoterismo alchemico, traghetta l’Impero Romano d’Occidente verso il proprio declino, per dare i natali (basso Medioevo) ad un nuovo soggetto sociale e politico, destinato a diventare dominante, la borghesia, nel cui grembo prenderà forma (XVIII secolo) l’Homme nouveau, un Uomo nuovo, che in virtù dell’efficacia della scienza e della tecnica fonde e confonde ciò che è divino con ciò che è umano. 

Autoproclamatasi erede legittima dell’Illuminismo greco ante litteram (sofisti, atomisti, scettici, stoici), tra il XVII e XVIII sec. la borghesia franco-inglese dà vita a un movimento di pensiero e d’azione, l’Illuminismo, che si fa portatore di un modello culturale fondato sulla fede incondizionata ed esclusiva (non avrai altro modello di conoscenza all’infuori del nostro) nella ragione empirica e nella conoscenza scientifica ritagliata sul modello scientifico sperimentale galileiano-newtoniano. L’Universo, per gli illuministi, è un sistema meccanico di oggetti solidi (res extensa) che riempiono porzioni di uno spazio altrimenti vuoto, posti in relazione reciproca secondo leggi di moto che, almeno in linea di principio, sono calcolabili. 

E così l’Illuminismo, l’Età dei Lumi, confisca al clero il mandato divino di cui si era fatto depositario il monoteismo giudaico-cristiano (che a sua volta lo aveva importato dal monoteismo giudaico) e lo consegna nelle mani dei prescelti da un nuovo Dio, un Deus otiosus, un Dio logico come il suo predecessore, quello che in virtù di un dogma della fede si è fatto-Uomo-in-Cristo. Un Dio meccanico, un Grande Orologiaio accuratamente decontaminato da qualsiasi traccia di trascendenza. Un Essere Supremo, il Deus Absconditus degli esoterici, il Grande Architetto che grazie alla sublime arte della matematica e della geometria ha creato tutto ciò che popola lo spazio compreso tra la Terra e il Cielo, senza lasciare nulla al caso. 

Il Tutto, sostengono gli illuministi, è stato calcolato secondo un disegno matematico di causa-effetto, per essere consegnato nelle mani dell’Homme nouveau, un Uomo nuovo eletto dal Dio meccanico, ovvero nelle mani dei maschi-bianchi-istruiti-benestanti dediti allo studio, all’addomesticamento e alla manipolazione empiristica e utilitaristica della res extensa: gli unici esseri del creato in cui questo Dio abbia compiutamente infuso la res cogitans.

Un Uomo-nuovo che capitalizzerà il sapere il saper fare e le innovazioni tecnologiche sviluppate nel corso della seconda metà del XVIII secolo (Inghilterra, Rivoluzione Industriale 1.0), per introdurre e promuovere la meccanizzazione del ciclo produttivo (fabbrica) e, con essa, il processo di integrazione uomo-macchina (tutt’ora in corso). 

E proprio l’ottimismo nei confronti della scienza, la fiducia nel progresso scientifico guidato dal dubbio metodico, fulcro del procedimento analitico e deduttivo cartesiano, attraverso il quale possono essere generate proposizioni indubitabili, assolute, contribuirà a determinare un ribaltamento concettuale assai significativo: la categoria della naturalità, la supposta esistenza di un ordine naturale eterno e immutabile, viene incalzata da quella dell’artificialità, della modificabilità. La natura, compresa la natura umana, viene pensata come scientificamente perfettibile, liberandola dalla ferrea legge di necessità. Ciò che è scientificamente modificato e artificialmente costruito diventa desiderabile. 

E sarà così che nel corso del XIX sec. verrà data alla luce la prima religione laica e scientifica della Storia, il Positivismo, l’elaborazione ideologica di una borghesia industriale liberista solidamente affermata, che fa della scienza una metafisica di certezze assolute, tanto che negli ultimi anni della sua vita Auguste Comte (1798-1857), ideologo del positivismo, scrive il Catechismo positivista e fonda la Chiesa Positivista, dove vengono trasposti gli elementi dottrinali, etici e liturgici della tradizione cattolica. Una religione secolare, che consegna alla storia moderna una corrente di pensiero ampiamente condivisa in tutto l’Occidente, l’Eugenetica, dove si radicalizzano le istanze più ambivalenti (pseudo-scientifiche) e reazionarie (filo-colonialiste) dell’Illuminismo e del Positivismo, dando corso ad una serie di crimini contro la persona e contro l’umanità, che sfoceranno nelle eliminazioni di massa condotte, in particolare ma non solo, dal nazifascismo e dallo stalinismo (due regimi totalitari accomunati dalle stesse radici positiviste e dalla stessa passione, oltre che per il pensiero eugenetico, per l’occultismo e per la teosofia, a cui si ispira l’ambiente prometeico del nazionalsocialismo e del comunismo, a cui si ispiravano i Costruttori di Dio (Bogostroitel’stvo) e i cosmisti russi dei primi del ‘900, a cui si ispirano i transumanisti contemporanei).

Si impone, così, il mito di una Scienza super partes che contende a Dio il suo primato di Giudice imparziale, e così facendo sfila (definitivamente?) il destino dei popoli dalle mani dei sacerdoti in abito talare per consegnarla in quelle dei sacerdoti in camice bianco, scienziati, ricercatori, esperti STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics), che stabiliscono razionalmente leggi assolute, obiettive e valide sopra ogni ragionevole dubbio. 

Ed ecco che in poco più di 250 anni, quattro Rivoluzioni Industriali e due guerre mondiali più altre guerre minori, tutte foriere di soluzioni tecnologiche innovative, l’assolutismo scientifico prende il sopravvento sull’assolutismo teologico. 

Il Dio fattosi Uomo è morto, viva il Dio fattosi Macchina (intelligente?).

 

Claudio Messori

16 giugno 2021

 

Note:

Claudio Messori – Ricercatore indipendente, indirizzo: Terenzo 43040, Italia – Cell.: +393282876077 ; E-mail: messori.claudio@gmail.com 

https://europa.eu/europass/eportfolio/api/eprofile/shared-profile/165fe171-d807-4441-9b59-2206b1ee9044?view=html 

1 Messori, C. (2018) Dall’Uomo-Macchina Illuminista alla Robotizzazione della Società, Il Minotauro, 1(1), Persiani Editore, Bologna, Italy 

https://issuu.com/persianieditore0/docs/n1_2018

2 “Il termine tecnologia è una parola composta che deriva dalla parola greca τεχνολογία (tékhne-loghìa), letteralmente “discorso (o ragionamento) sull’arte”, dove con arte si intendeva sino al secolo XVIII il saper fare, quello che oggi indichiamo con la tecnica.” [In: Daniele Dallorto https://www.danieledallorto.it/2013/03/25/etimologia-di-tecnologia/ ]

3 Messori, C. (2019) Paleoanthropology of Consciousness, Culture and Oral Language, Open Access Library, 6, p. 1-50

https://www.oalib.com/articles/5304031#.XtPRzLNuI2w

 

Fonte dell’immagine: www.wsimag.com

 

Il Covid-19, la scienza ed il mito della caverna di Platone

di Cosimo Alberto Russo

Mai come in queste settimane di isolamento e apprensione per la pandemia del Covid-19 ha assunto un ruolo preminente l’opinione (più onesto dire “i dettami”) degli scienziati (virologi innanzitutto). Tutti noi, più o meno, ci affanniamo a cercare le spiegazioni e le indicazioni fornite da questa categoria di lavoratori. Poco importa se spesso contradditorie e in contrasto tra le varie scuole di pensiero.

Mi sembra quindi doveroso ricordare che la scienza non è altro che un metodo di conoscenza (il metodo scientifico) e gli scienziati sono coloro che utilizzano questo metodo al fine di aumentare la conoscenza di ciò che ci circonda. 

Per far ciò si utilizza, a vari livelli, un modello di rappresentazione della realtà, in quanto la realtà stessa non è conoscibile, dati i limitati mezzi del genere umano (fondamentalmente i cinque sensi, pur se amplificati dalla tecnologia).

Questo porta e ha portato a elaborare modelli poco accettabili dalla stragrande maggioranza della popolazione umana, pur se ampiamente verificati, come la meccanica quantistica e la relatività einsteniana. E rimane, punto fermo ed essenziale del metodo scientifico, che ogni modello è accettato fino a quando non se ne trova uno migliore.

Questa premessa dovrebbe farci comprendere che anche nella vicenda del Covid-19 nulla si sa e si procede a tentoni elaborando modelli che via via vengono sostituiti da altri più attendibili. Dovremmo quindi avere comprensione per coloro che onestamente si limitano a ipotizzare linee di intervento momentanee e probabilmente errate, mentre dovremmo diffidare di chi “afferma” verità incaute: la verità non è scientifica!

Bisognerebbe anche avere l’umiltà di non ridicolizzare le ipotesi di chi utilizza altri “modelli” di rappresentazione (per esempio lo sciamanesimo, la medicina ayurvedica, l’antroposofia ecc. ecc.); in fin dei conti il metodo scientifico si è affermato solamente negli ultimi tre secoli della civiltà umana, siamo certi che nei precedenti millenni il genere umano fosse in uno stato di preintelligenza? 

A questo proposito mi piace citare il mito della caverna, di Platone. In questo mito il filosofo ateniese immagina che vi siano alcuni uomini incatenati sin dall’infanzia in una caverna senza mai nulla aver visto al di fuori di essa. Nella caverna vi è un fuoco e i carcerieri proiettano, senza farsi vedere, delle ombre sulle pareti, parlando nel frattempo; così gli incatenati credono che le ombre siano la realtà e immaginano che quello sia il mondo. Ad un certo punto se un prigioniero fosse liberato e si avvicinasse all’uscita, rimanendo abbagliato dalla luce del sole fino a soffrirne, preferirebbe tornare alle ombre cui era abituato.  Ma se riuscisse ad abituarsi alla luce del sole e a vedere il mondo esterno, capirebbe che ciò che credeva reale era solo una illusione. 

Resosi conto della situazione, senza dubbio tornerebbe nella caverna per liberare i suoi compagni: il problema, però, sarebbe proprio quello di convincere gli altri prigionieri ad essere liberati. Infatti, dovendo riabituarsi all’ombra, passerebbe parecchio tempo prima di riuscire a vedere distintamente il fondo della caverna; durante questo periodo il suo tentativo di convincere gli altri della situazione sarebbe vano, in quanto ai loro occhi risulterebbe diventato cieco e, anzi, potrebbe, insistendo, spingere gli altri prigionieri ad ucciderlo, se tentasse di liberarli e portarli verso quella luce che, secondo loro, lo ha accecato.

Il mito ha varie interpretazioni, quella che qui mi interessa è l’acquisizione della consapevolezza che ciò che crediamo reale (la “verità”) è solo una illusione e che, forse, la realtà “vera” non è raggiungibile dal genere umano (i prigionieri incatenati).

Per cui, è vero che forse oggi il metodo scientifico (come la democrazia) pur essendo altamente imperfetto è ciò che abbiamo di meglio, ma occorre porre grande attenzione nell’accogliere i pareri “scientifici” come “verità”.

Cosimo Alberto Russo

10 aprile 2020

RAGUSA, 1743 – Come si scampò dalla peste, di Giuseppe Tumino

Il 29 marzo del 1743 la peste si presenta ancora una volta, l’ultima, proprio a Messina dove era apparsa per la prima volta in Europa nel 1347.

Era la terza volta in poco più di un secolo, dopo la peste del 1626 e il catastrofico terremoto del 1693, che un flagello si abbatteva sulla Sicilia.

In meno di tre mesi ci furono più di 40.000 morti e da parte del Viceré di Sicilia furono presi dei provvedimenti per isolare Messina e impedire la diffusione del contagio.

I Giurati di Ragusa misero sotto controllo militare tutte le vie di accesso alla città.

 Ma un frate del Terz’Ordine francescano, di origini ragusane, fuggito da Messina, riuscì ad introdursi a Ragusa dalla porta di Modica a guardia della quale c’era proprio suo fratello, tale Vincenzo Floridia.

Diffusasi la notizia, il convento che lo ospitava e la sua casa furono  barricati e posti sotto stretta sorveglianza, e i due fratelli furono rinchiusi nella Chiesa di S. Maria del Calvario.

Comparsi negli abitanti i primi sintomi, come i caratteristici bubboni, cosa che spesso veniva celata, furono prese delle iniziative per scongiurare il contagio.

 Di questo ci riferisce un anonimo autore di un manoscritto conservato nell’Archivio Capitolare della Cattedrale di Ragusa.

E’ sorprendente il fatto che si presero precauzioni più di ordine religioso che di ordine sanitario, mostrando così le contraddizioni della cultura di un’epoca che si apriva alla luce della ragione, ma perpetuava l’oscurità della superstizione. E purtroppo accade sempre così, anche al giorno d’oggi.

Infatti, ritenendo che i mali sopraggiungessero a causa dei peccati, si fece ricorso a rigorose penitenze e alla protezione dei Santi Giovanni e Giorgio

Dal 29 giugno al 4 agosto l’unione fra le due Parochie dispari e contrarie ab immemorabili tempore, l’una di S. Giorgio e l’altra di S. Giovanni, organizzò messe e processioni giornaliere a cui presero parte tutto il clero congiunto, tutte le confraternite e le comunità religiose.

I flagellanti camminavano a piedi scalzi, con catene ai piedi, corde al collo e corone di spine, battendosi a sangue o portando sulle spalle una pesante croce. Le statue di tutti i santi della città e i reliquiari, come non era mai accaduto, furono esposti insieme, accompagnati da canti di litanie e trombe e tamburi a lutto.

Inoltre ci viene riferita la curiosa notizia che, per riparare il male, furono rinchiuse tutte le meretrici tanto cittadini, quanto forestieri, che arrivarono al numero di cinquanta circa.

Fu così che l’epidemia fu scongiurata e la nostra città fu miracolosamente preservata dal morbo pestilenziale per l’armonia che mai per il passato si era veduta tra gli animi dell’una e dell’altra Chiesa, anche se  l’anonimo cronista si appresta subito a precisare che da questo non discendeva l’obbligo per la Chiesa di S. Giovanni di subordinarsi in futuro alla Chiesa di S. Giorgio.

Sui danni, invece, che Messina subì, esiste un resoconto che il Generale Priman, governatore di Messina, fece in una lettera inviata a S. E. in Palermo il 29 giugno 1743.

Giuseppe  Tumino

Ragusa, 26 febbraio 2020

La vita e i suoi altrove, di Nunzio Brugaletta

 E’ da poco uscito il nuovo libro a fumetti La vita e i suoi altrove, dell’ormai affermato artista Nunzio Brugaletta. L’Autore ha al suo attivo la pubblicazione di altre due opere (K, sei racconti di Franz Kafka e Attaccarsi alla vita, quattro novelle di Luigi Pirandello). In questa occasione si confronta con due giganti della letteratura russa, Dostoevskj e Gogol. La scelta è caduta su due opere considerate minori, Il sosia di Dostoevskij e Le memorie di un pazzo, di Gogol. Il filo conduttore di entrambi i racconti è lo scollamento, spesso inizialmente impercettibile, tra la realtà soggettiva e la realtà oggettiva. Le due belle graphic novel riescono pienamente, grazie alla potenza espressiva dell’artista, a coinvolgere e spiazzare il lettore, trascinandolo gradualmente all’interno della realtà soggettiva dei due protagonisti. Un libro da non perdere, del quale pubblichiamo la sapiente introduzione della prof.ssa Rita Cultrera e due pagine per ciascun racconto. Ringraziamo l’Autore per la gentile concessione.                               

p.p.

Introduzione

di Rita Cultrera

Tradurre in immagini e segni le parole che interpretano e descrivono il dramma dell’umana condizione non è fatica da poco, soprattutto quando a squadernare le vicende rappresentate è la follia, se questo è il nome con cui definiamo lo sguardo che, impietoso, abbatte ogni artificio e raggiunge il cuore dolorante della vita.

Ne il sosia di Dostoevskij e ne le memorie di un pazzo di Gogol la follia morde la vita, trascolora in essa, a volte con sotterranea perfidia, a volte in modo impudico e scoperto, specularmente nei lavori di N.Brugaletta la derelizione dell’io scompone le linee, le slabbra, le sottrae al rigore euclideo, con tecnica violentemente espressionista.

L’inconsistenza del reale si traduce in silhouette incorporee, che si stagliano su sapienti cromatismi, mentre l’astrattezza degli spazi e delle sagome depriva di concretezza il dato oggettivo, al di là di ogni preciso riferimento storico, e lo deforma in modo caricaturale.

Lo scardinamento della normalità in Dostoevskij e in Gogol opera in crescendo, se nel primo la follia è insidiata dal dubbio, nel secondo non rimane alcun margine di incertezza. Parallelamente sul versante iconico, gli esseri umani sembrano frantumarsi in una serie di fattezze fisiche che si animano separatamente, come se fossero delle maschere dotate di vita propria.

La rappresentazione realistica si sfalda sempre di più le forme si appiattiscono la figura, a tratti, lasciata quasi allo stato di abbozzo.

Ne le memorie di un pazzo le pagine si scompongono nei vari elementi che le tramano: immagine, testo e personaggio all’interno delle vignette sono sottoposte ad una spinta centrifuga che li sottrae ad ogni collocazione spaziale naturalistica, in una sorta di reductio ad unum che rende figure, oggetti e scrittura nudi segni grafici.

Rita Cultrera 

Di seguito, pubblichiamo due pagine tratte da ciascun racconto:

da “Il sosia” di Fëdor Michajlovič Dostoevskij (Mosca, 11 novembre 1821 – San Pietroburgo, 9 febbraio 1881)

 

 

 

 

 

 

…e da “Le memorie di un pazzo“, di Nikolaj Vasil’evič Gogol’-Janovskij (Velyki Soročynci, 19 marzo 1809 – Mosca, 21 febbraio 1852).

 

 

 

 

 

 

L’acquisto del libro può essere fatto on line all’indirizzo: https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/fumetti/499690/la-vita-e-i-suoi-altrove/

Nunzio Brugaletta

L’Autore si presenta: “Laureato in Matematica, ho insegnato Informatica presso l’ITC “F.Besta” di Ragusa. Da quando sono in pensione ho ripreso alcune passioni giovanili lasciate in stand-by durante l’attività lavorativa. Appassionato da sempre di disegno, fumetti, grafica, pittura e di tutto ciò che riguarda le arti figurative nelle sue varie espressioni. Disegnatore io stesso e appassionato lettore, con preferenza per i classici, ho messo assieme due passioni: il fumetto e i classici della letteratura. Ho realizzato (fino alla data odierna, Marzo 2019) adattamenti da racconti di Kafka e Pirandello da cui ne ho fatto due pubblicazioni. Continuo, almeno per ora, nella direzione di adattamenti da opere letterarie di ulteriori autori.”

 

Ragusa, febbraio 2020

 

Ferdinando Testa: “La clinica delle immagini” – Recensione di Federico Guastella

     Nei sei capitoli del libro gli argomenti sono sostenuti dall’applicabilità della psicoterapia junghiana. “Elogio dell’immaginazione” si intitola il primo che per la sua ampiezza ermeneutica è da considerare come la cornice di una tela in cui si stagliano i casi clinici presentati poi con dettagliate modalità operative. E’ grazie alle immagini che il paziente rivive il suo mondo interiore: il terapeuta le accoglie come un dono dell’inconscio e le ascolta per attivare la libido stagnante e scissa dalla sfera immaginativa.

 Coinvolgono le pagine dedicate al processo alchemico della trasformazione del piombo in oro, del “senex”, che esprime rigidità e pesantezza dello schema mentale, e del “puer” flessibilità innovativa. La narratività autobiografica, dialogata e commentata, ricca di dati sensoriali di cui sono impregnati i sogni, così dischiude il sapere emozionale del cuore che dilata l’ampiezza dello spazio immaginativo e fa scoprire connessioni simboliche tra la dimensione onirica e la realtà del sognatore. Il fine è quello di scartare le incrostazioni che lo imprigionano nel grumo delle umane confusioni. Il negativo e il positivo, considerati “la metà di un intero”, trovano così un supporto nel simbolo del viandante che di volta in volta decide quel che c’è da fare in funzione del minor male. Non è un caso che Testa in tale contesto tratti in un apposito paragrafo l’opera di Jung “Risposta a Giobbe”. Le pagine raccontano i drammatici conflitti di Dio e di Giobbe a proposito della sofferenza umana. La speranza di avere una risposta resta inappagata e non sarà mai possibile una spiegazione per le terribili sofferenze che il libro vetero-testamentale mostra. Addirittura dalla comunità, armata dalla moralità del conformismo che la rende incapace di ascoltare, di comprendere e di provare compassione, Giobbe è ritenuto peccatore e quindi va dall’alto castigato e punito. Di fronte al mistero della tragicità del dolore non ci sono parole e significati che possano alleviare i dubbi dell’essere, eppure Dio gli si è mostrato nella sua numinosità pur non avendo fornito conoscenze all’intelletto: il fatto che gli abbia rivolto la parola, allora è valsa la pena vivere l’esperienza della sofferenza.

     E’ la fusione della parola con l’immagine a concretizzare la funzione del sentire. Siamo nell’habitat della creatività, la quale, includendo il senso di una luce che brilla nelle tenebre e il non-senso di contraddizioni e incertezze, apre il cuore impietrito per farlo di nuovo palpitare: anche un sogno riscalda e ricrea ed è luce che può illuminare le tenebre. Segue “La cura dell’insolito”, dove l’analista, che scruta da più prospettive, è rivolto alla presentazione di casi clinici. In uno di essi, il primo, il percorso inizia con un atto materico: l’affondare le mani nella sabbia sprigiona nella paziente un quantum energetico di libido che sincronicamente favorisce la nascita del sogno e del racconto. Allora il corpo diventa immagine e l’immagine, lungi dal risolversi in vuota fantasia, si riempie di reazioni provenienti dai sensi, indispensabili all’espressione dell’istinto creativo per portare a compimento il compito che la vita ha affidato al paziente. Si trovano qui le pagine più corpose dedicate alla creatività come rappresentazione della totalità della vita nella quale ”ogni parte del Sé trova dignità, ruolo, presenza e ascolto” per reinventarsi in nuove nascite da vivere in profondità.

     Il terzo capitolo – “Le miniere oniriche”- potrebbe a mio parere leggersi come approfondimento del primo. Tante le sfaccettature del sogno su cui Testa si sofferma, rifacendosi tra l’altro all’opera di Jung “Su sogni e trasformazioni”. “Compagno mitico del genere umano” e anche “un mistero intorno al quale navigare”, porta la bellezza dell’immagine che può essere ricordata, raccontata e scritta. Rimanda dunque al risveglio della memoria che si modifica e si ristruttura: essa è cono di luce che, come in un Gange purificatorio, dà respiro alla coscienza, sollecitata a riprendere le emozioni, coniugandole con un linguaggio svincolato dall’aridità concettuale spesso inadeguato per tutto ciò che riguarda il regno dell’Anima. Ciò implica un preciso atteggiamento dello psicoanalista: pur nell’adeguata “distanza psichica”, egli fornisce l’energia necessaria al formarsi dell’immaginazione e nel contempo per decifrare i simboli attinge dai miti e dalle favole, dalla profondità dell’inconscio personale e collettivo, dalle leggende e dalla vita degli antenati. A favorire lo scioglimento della nigredo alchemica in cui vanno accolte tutte le possibilità psichiche putrescenti, è pur sempre la parola-racconto del sogno che lenisce il dolore e si pone come genesi di “un pensare altro” con la consapevolezza che ognuno di noi ha un compito o una croce da portare nel presente e a cui non si può sfuggire.

     Si intitola “L’animale ferito” il quarto capitolo che, richiamando il mito di Asclepio in relazione al simbolo del serpente quale rivelatore di carica energetica, esamina alcuni sogni nei quali compaiono animali che rappresentano il mondo degli istinti: non solamente un’area distruttiva e violenta, ma anche una risorsa per medicare le ferite della sofferenza. In tale ottica, la bestia interiore diviene la porta d’ingresso per vivere la carica energetica del simbolo onirico, portarlo a coscienza. Ad ostacolare i processi di simbolizzazione sono quegli arcaici meccanismi di difesa che, unitamente alle “emozioni esplosive terrorizzanti”, producono “buche vuote”. Dell’argomento si occupa il capitolo quinto “Sogno e psicopatologia” che offre complesse e variegate esperienze cliniche decodificate anche dagli apporti del mito di Dioniso, il Dio smembrato e rinato, ritenuto da Jung l’archetipo del terrore. L’approfondita ricerca di Testa fa luce sulla sofferenza emotiva accompagnata da un congelamento affettivo e relazionale, nonché da fantasie violente tali da bloccare l’attività immaginativa. Lo spazio creativo per contenere l’impulso a distruggere non è limitato al solo uso della parola, ma esteso all’operatività del disegno come racconto del sogno e del gioco della sabbia. Allora una via da privilegiare, in alternativa alla parola concettuale, diventa l’espressione figurativo-esperenziale e anche poetica in cui l’immaginazione è ponte che apre verso nuovi orizzonti. Così, a partire dall’accoglienza della “nigredo” che non nasconde nulla delle sofferenze, la creatività fa da controaltare agli aspetti distruttivi e permette alla relazione terapeutica di portare a coscienza i complessi, facendo entrare il nuovo: cioè, il cambiamento dell’Io.

Labirinto di Cnosso

Siamo ora nel sesto ed ultimo capitolo – “Sogno e Psicosi” – il cui intento è di fare intravvedere al paziente “la presenza dentro di sé di parti sane e creative”. Nel mondo degli psicotici, la psiche è dura come la pietra, priva cioè della vivacità e mobilità del pensiero e dell’intelligenza. Il viaggio dell’Io – scrive Testa – si è arenato, incagliato nei frammenti di una personalità frantumata. Incapace di mantenere una relazione dialogica, il Sé si è ritirato nel labirinto di Cnosso sempre più dominato da un Minotauro che tormenta la ragione, le emozioni e i sentimenti. Occorre perciò al terapeuta la maestria di aggirare lo sguardo pietrificante di Medusa ed essere come Perseo che utilizza le astuzie delle tecniche e gli stratagemmi della riflessione. Muovendo da tale assunto, si colloca in primo piano la grammatica dei simboli espressi anche nei fiori e nei colori come nel caso del significato della rosa, la cui immagine appare in sogno ad una giovane paziente a rivelare il proprio ritrovarsi. Con questa sua indagine Ferdinando Testa, da esperto speleologo, scende in ogni angolo buio, in ogni zona oscura dell’Ade. Esplora le zone sofferenti della psiche e inquadra sogni e racconti per creare una nuova trama narrativa. Egli opera come scultore su un pezzo di marmo informe, estraendo il nucleo della vita creativa del paziente. E’ l’elaboratore alchemico di spazi che, in alternativa a quelli del caos, restituiscono le funzioni dell’immaginare, del sentire e del pensare. Per tutto questo il saggio non è soltanto destinato agli addetti ai lavori, ma anche a quei lettori disponibili a situarsi nel proprio scenario onirico, spesso celato agli occhi della coscienza.

Federico Guastella*

Novembre 2019

*  La recensione sopra pubblicata è tratta dalla pagina Facebook “Il Libro rosso di Jung: riflessioni e immagini”, per gentile concessione dell’Autore.

Mercoledì, 4 dicembre 2019, il saggio del dott. Ferdinando Testa verrà presentato a Ragusa presso la libreria Ubik Terramatta. Sarà presente l’Autore, cureranno la presentazione il dott. Federico Guastella e il dott. Pippo Raniolo. L’ingresso è libero.

 

Male di luna ed altro – di Federico Guastella

L’illustrazione di questo articolo è tratta dal libro “Attaccarsi alla vita, 4 novelle di Pirandello a fumetti”, di Nunzio Brugaletta, che ringraziamo per la gentile concessione.

Che Pirandello abbia avuto un rapporto complesso e contraddittorio con la luna è un fatto risaputo. Forse è meno noto che l’influsso dell’astro sulla vita degli uomini gli sia derivato dall’ambiente antropologico agrigentino. Emblematica la credenza relativa alla metamorfosi dell’uomo in lupo mannaro come conseguenza del mal di luna: chi ne è affetto, nel plenilunio, si precipita fuori di casa, gridando e rotolandosi per terra. Da qui il termine, d’origine greca, licàntropo. E’ da tale superstizione che trae ispirazione la novella “Male di luna”, apparsa sul “Corriere della sera” nel 1913 e che si trova nel primo volume delle “Novelle per un anno”, nel gruppo intitolato “Dal naso al cielo”. Ben nota la toccante interpretazione nel film Kàos (1984), diretto da Paolo e Vittorio Taviani. Ecco una sintesi della narrazione: Batà, avvilito (un caso di epilessia o dissociazione della personalità?), attribuisce la causa del suo male alla luna che da bimbo l’aveva incantato per un’intera notte (“E Batà (…) prese adagio a narrar loro la sua sciagura: che la madre da giovane, andata a spighe, dormendo su un’aja al sereno, lo aveva tenuto bambino tutta la notte esposto alla luna; e tutta quella notte, lui povero innocente, con la pancina all’aria, mentre gli occhi gli vagellavano, ci aveva giocato, con la bella luna, dimenando le gambette, i braccini. E la luna lo aveva “incantato”. L’incanto però gli aveva dormito dentro per anni e anni, e solo da poco tempo gli s’era risvegliato. Ogni volta che la luna era in quintadecima, il male lo riprendeva”). “Affocata”, “violacea”, “enorme” essa ora gli appare nelle notti di plenilunio e dalla moglie Sidora, terrorizzata, si fa chiudere fuori di casa per non farla spaventare per i suoi ululati (“Se batto, se scuoto la porta e la graffio e grido…non ti spaventare…non aprire…Niente… va’! va’!”). Architettato un piano suggerito dalla madre la quale trova il modo di far convivere la figlia con il marito, Sidora si porta a casa l’ex fidanzato, Saro, per concedersi a lui durante il plenilunio. Ma l’amante, impietositosi per il tormento di Batà, la prende per matta (Ma come? Era pazza quella donna là? Mentre il marito, fuori, faceva alla porta quella tempesta, eccola qua, rideva, seduta sul letto, dimenava le gambe, gli tendeva le braccia, lo chiamava”). Nell’andare via, si accorge del volto ambiguo dell’astro: “la luna che, se di là dava tanto male al marito, di qua pareva ridesse, beata e dispettosa, della mancata vendetta della moglie”.

Luigi Pirandello (Girgenti, 1867 – Roma, 1936)

Sciamanica sembra la luna nella novella “La giara” (1909). L’avevo letta da ragazzino e mi avevano affascinato le grida di quel contadino che, davanti al palmento, chiamava:- Don Lollò! Ah, don Lollòoo. Mi piaceva disegnarla quella giara descritta da Pirandello con poche incisive pennellate: “nuova, pagata quattr’onze ballanti e sonanti (…). Una giara così non s’era mai veduta…”. E faceva pena posta nel palmento: luogo senza aria e senza luce. Non si sa chi fosse stato a spaccarla in due: “come se qualcuno, con un taglio netto, prendendo tutta l’ampiezza della pancia, ne avesse staccato tutto il lembo davanti. Don Lollò ne è il proprietario: uomo collerico, testardo e despota. Entra poi in scena Zi’ Dima Licasi: un conciabrocche che, servendosi di un mastice miracoloso, l’avrebbe “rimessa su, nuova”. Dando luogo ad un rituale pressoché magico, esclama: “verrà bene”. Diffidente si mostra don Lollò: vuole i punti di ferro per renderla davvero robusta e non cede dinanzi alle resistenze di Zi’ Dima, il quale, alla fine, si mette all’opera con il trapano. Mastice e punti insieme come si era convenuto. Ma ecco il paradosso: Zi’ Dima che vi si era calato dentro, non riesce più a uscirne: “Imprigionato, imprigionato lì, nella giara da lui stesso sanata, e che ora – non c’era via di mezzo – per farlo uscire, doveva esser rotta daccapo e per sempre”. Don Lollò non ne vuole sapere, si rifiuta che la giara venga nuovamente spaccata per farlo uscire e addirittura si rivolge ad un legale che gli fa presente l’accusa di sequestro di persona: “Da un canto, lui don Lollò, doveva subito liberare il prigioniero per non rispondere di sequestro di persona; dall’altro, il conciabrocche doveva rispondere del danno che veniva a cagionare con la sua imperizia o con la sua storditaggine”. Davvero una bizzarra avventura che si muta in una festa dionisiacamente partecipativa sotto i raggi della luna così luminosi “che pareva fosse aggiornato”. Pieni di allegria e di vino, i contadini danzano e cantano attorno alla giara e, là dentro, anche Zi’ Dima canta a squarciagola. L’atmosfera tribalmente liberatoria e demoniaca di cui l’astro notturno è magneticamente complice, magistralmente resa dai fratelli Taviani, prelude alla scena della distruzione finale che sancisce la vittoria di Zi’ Dima. Don Lollò, vinto dalla rabbia e dall’esasperazione, manda a rotolare la giara giù per la costa fino a spaccarsi contro un olivo. L’esito è di amara complicità: egli ne avrà il danno e la beffa. Se si fosse fidato del solo mastice, modificando il suo punto di vista, non avrebbe subito la sconfitta. Da una angolazione diversa, l’antropologo e scrittore di Chiaramonte Gulfi Serafino Amabile Guastella si era occupato della luna nel capolavoro Vestru (1882): poemetto di 59 sestine di endecasillabi seguite nella seconda parte, in prosa dialettale, da venticinque leggende che possono considerarsi un documento di mitologia popolare, mostrando, in buona parte una “dottrina” centrata su una visione magica e animistica della realtà. Fantasiosa la leggenda narratagli da Salvatrice Raniolo, intesa Cuticàccia, contadina di Chiaramonte Gulfi. Si riferisce alla sorte di Caino e si può rilevare come nell’immaginario collettivo vi sia stato il bisogno dell’uomo di andare sulla luna, nonché il tentativo di decifrare il sortilegio del volto lunare. All’inizio poche incisive pennellate scolpiscono il tormento a lui causato dall’uccisione di Abele. L’incubo gli si manifesta, facendolo sobbalzare dal sonno, col rumore di frondi agitate, e si mette a correre come un pazzo per sfuggire al suo rimorso. Poi, mentre va in cerca di rovi per porli davati alla grotta e ripararsi dagli animali feroci, gli appare Domineddio (‘U Signuri): per decreto divino, questi di giorno deve dimorare all’inferno per essere torturato dai diavoli  e di notte nella luna con tre fasci di spine che, a vederli, sembrano tre macchie: “Ri stu mumientu iu cumannu, ca n’e rurici uri r”o jiornu ti nni stai n’ô ‘fiernu, e chiddu ca ri tia ni vuonnu fari i riàuli, ni fannu, ca chiss’ è pìnzieri so. N’ ‘e rùrici uri r’ ‘a notti ti n’assumi n’ ‘a luna, ccu pattu ca ‘n h’ ‘a ripusari ‘na scàggia, e h’a purtari nquoddu i tri fascitedda. E Cainu tuttanotti sta n’ ‘a luna, e i tri fascitedda ‘i virièmu tutti, ca pàrunu tri stampuzzi” (“Da questo momento io comando, che nelle dodici ore del giorno te ne stai all’inferno, e quello che di te ne vogliono fare i diavoli, lo facciano, ché questo è pensiero suo. Nelle dodici ore della notte te ne sali nella luna, col patto di non riposare un attimo, e devi portare i tre fasci. E Caino tutta la notte sta nella luna, e i tre fasci li vediamo tutti, che sembrano tre macchie”). Prima dello sbarco sulla luna, le classi subalterne, quelle dell’oralità, scorgevano dunque nelle macchie lunari l’immagine di Caino con tre fasci di spine sulle spalle. E se si pensa che fosse stato Dante a parlarne, ci si accorge subito della contaminazione della cultura dotta con quella popolare. Così, nel secondo canto del Paradiso, chiede il sommo poeta a Beatrice mentre osserva la luna: “Ma ditemi, che son li segni bui di questo corpo che laggiuso in terra fan di Cain favoleggiare altrui?” (Vv. 49-519). La luna, dunque: il fascino e il mistero della favola mitologica dove campeggia l’archetipo del femminile: eros fecondo di creatività e, nel contempo, energia distruttiva. Ne sono testimonianza le dee lunari delle culture indo-europee. E appare chiaro il legame con la generatività: dal ciclo di ventotto giorni al plenilunio, alle fasi di luna calante e nera. Incanta l’immagine della donna-luna come metafora di un potere cosmico di benessere, relegata dalla cultura del maschile nel raduno notturno delle cosiddette streghe barbaramente mandate a morte. Neumann nel 1956 scriveva: “Il rischio dell’umanità consiste oggi, in parte, proprio nello sviluppo cosciente unilaterale e patriarcale dello spirito maschile, non più equilibrato dal mondo ‘matriarcale’ della psiche […]. L’uomo occidentale deve assolutamente pervenire a una sintesi nella quale venga compreso in modo fecondo il mondo femminile, che, peraltro, se isolato, è unilaterale […]. Se, in un certo modo, un corpo sano è la base di uno spirito sano, un individuo sano è la base per una sana comunità.”

Federico Guastella

Ragusa, 28 luglio 2019

 

L’Autore

Federico Guastella, abilitato all’insegnamento di Scienze Umane e Scienze umane e storia, è stato Ragusa dirigente scolastico. Apprezzato saggista, ricercatore scrupoloso ed esigente, autore di testi letterari in prosa e in versi, ha al suo attivo anche contributi di pedagogia e didattica, essendo stato impegnato in corsi di aggiornato per docenti della scuola primaria e dell’infanzia. La sua produzione spazia così dalla saggistica alla narrativa alla poesia. Nell’opera Chiaramonte Gulfi – La mia diceria (Ragusa, 2014) ha proposto un itinerario della memoria individuale e collettiva in un serrato dialogo a più voci tra l’attualità e la storia recente, tra le relazioni dei luoghi dell’anima e dei luoghi della natura e del paesaggio. Il libro Colapesce (Ragusa, 2012), scritto in collaborazione, ha valore pedagogico-educativo, oltre che letterario e demologico. Tra le ultime opere pubblicate dall’editore Bonanno di Acireale-Roma, si ricordano: Andrea Camilleri, Guida alla lettura (2015); Fra terra e cielo. Miscellanea di saggi brevi con Gesualdo Bufalino (2016); Serafino Amabile Guastella. La vita e le opere (2017); Il mito e il velo (2017); Viaggio intorno al libro rosso (2018); Ignazio Buttitta e Danilo Dolci, due profili culturali della Sicilia (2019); Luigi Pirandello. I romanzi, i miti (2020). Degno di nota il volume Una rilettura del Gattopardo (Bonanno 2021). Recentemente ha svolto una ricerca sulla Massoneria in provincia di Ragusa che si è conclusa con la pubblicazione del libro Alle radici della Massoneria Iblea (Bonanno, 2021), preceduto dall’opera Pagine esoteriche (Bonanno, 2017). Ha curato la prefazione di più opere; gli sono stati pubblicati articoli in diverse riviste; è stato premiato in più concorsi per la poesia e annualmente si è classificato al primo posto per i saggi anzidetti di cultura siciliana al concorso città di Favara (AG), indetto dal Centro Culturale “R. Guttuso”. E’ in corso di stampa la sua monografia Sguardo su Sciascia. Studioso di storia locale, attualmente è impegnato nella stesura del volume Il miele dolceamaro degli Iblei. Privilegiando la letteratura dei siciliani, sta altresì lavorando su una monografia dal titolo Sicilia letteraria – Luoghi e volti.

 

I vaccini: indietro tutta? di Silvia Giannella

Sul controverso tema delle vaccinazioni obbligatorie, abbiamo il piacere di pubblicare un approfondimento della prof.ssa Silvia Giannella.   (p.p.)

Leggo sul giornale  di oggi: Epidemia di morbillo in Madagascar: in sei mesi già più di 1200 morti; solo il 58% della popolazione è stato vaccinato (La Repubblica, 15 aprile 2019). Quando mi trovo di fronte a notizie di questo tipo, ormai sempre più frequenti, vengo assalita da una sensazione inquietante, un misto di stupore, disorientamento, angoscia. Ma forse la sensazione più sgradevole è il senso di impotenza di fronte al muro di quella che definirei “ignoranza scaramantica” da cui è stata contagiata una notevole massa di persone in tutto il mondo, paesi sviluppati e sottosviluppati.

Sono una donna anziana, laureata in biologia;  ho frequentato vari laboratori, in particolare di virologia dove ho preparato la mia tesi di laurea sperimentale e poi per quasi tutta la mia vita ho insegnato nei licei. L’insegnamento è stata una scelta felice che mi ha messo in contatto con molte persone con le quali ho stabilito rapporti di scambio e di confronto intenso, spesso problematico, ma sempre produttivo in termini di crescita e di apertura verso il pensiero degli altri. 

Spesso nell’insegnamento di  un nuovo argomento scientifico ci si trova di fronte alle cosiddette misconoscenze, cioè non è vero che gli alunni non sanno niente di quell’argomento ma ne sanno qualcosa che hanno assimilato passivamente dall’ambiente in cui sono cresciuti, dai genitori, dagli amici, insomma dalle persone con cui sono entrati in contatto nel corso della loro vita (per esempio: l’omeopatia fa sempre bene, la chimica ci avvelena,il glutine fa male a tutti). Naturalmente molto spesso queste conoscenze sono le più difficili da estirpare perché sono come degli assiomi che si sono consolidati loro malgrado. Il lavoro dell’insegnante consiste proprio nel portare testimonianze scientifiche, proponendo le letture giuste e insegnando agli studenti come si consultano le informazioni su internet (chi ha firmato quell’articolo, come si riconosce e si valuta una fonte scientifica garantita da una qualunque persona che esprime un suo pensiero senza fondamenti).

 E’ chiaro che il rapporto insegnante-alunno è molto particolare: si tratta di un adulto, l’insegnante, in cui si ripone fiducia e di adolescenti il cui ruolo è quello di apprendere, costruendo le proprie conoscenze, affidandosi alla competenza e ai consigli dell’insegnante. Se questo rapporto funziona è possibile stabilire una relazione di scambio in cui oltre ad apprendere, l’adolescente esprime anche i propri dubbi, le proprie incomprensioni, le proprie contestazioni.

Ma qual è la situazione al di fuori della scuola?

Negli ultimi anni in Italia si è verificata una specie di epidemia -è proprio il caso di usare questo termine!- per cui molti , troppi, genitori si sono convinti che i vaccini facciano male e quindi hanno deciso di non far vaccinare i figli.

Quali sono le conseguenze di questa scelta?

  1. Minore è il numero di persone sottoposte a vaccinazione maggiore è il numero di virus circolanti
  2. I bambini appena nati non possono essere vaccinati e quindi è più probabile che entrino in contatto con la malattia virale che in questa fascia d’età può essere letale
  3. I bambini che non possono essere sottoposti a vaccinazione( bambini affetti da tumore o da malattie congenite che non consentono la vaccinazione) sono più esposti a contrarre le malattie virali che, anche in questi casi possono risultare letali

Nel secondo e terzo caso si dice che viene a mancare l’immunità di gregge. L’immunità di gregge si verifica quando si raggiunge un livello di copertura vaccinale per cui gli individui non vaccinati non contraggono la malattia perché circondati da un’alta percentuale (95%) di individui vaccinati.

Ma vediamo di dare una risposta ad ognuna delle tesi dei novax:

1° tesi: i vaccini causano l’autismo

Risposta: non è vero: la percentuale di bambini autistici è la stessa nei bambini vaccinati e non

2° tesi: i vaccini sono contaminati  e contengono metalli pesanti

Risposta: esami rigorosi ripetuti più volte hanno dimostrato che i vaccini sono puri e non contengono metalli pesanti

3° tesi: i vaccini vengono somministrati troppo presto, a bambini troppo piccoli

Risposta: sono proprio i bambini piccoli che corrono i maggiori pericoli se contraggono alcune  malattie. Comunque è il servizio sanitario nazionale che fornisce precise indicazioni su quando effettuare le varie vaccinazioni.

4° tesi: i vaccini sono troppi

Risposta:il sistema immunitario è costruito in modo da rispondere prontamente a più stimoli contemporanei senza subire danni

5° tesi: i vaccini danno gravi effetti collaterali

Risposta: gli effetti collaterali gravi sono rarissimi, un caso su molti milioni

 

Cosa sono e come agiscono i vaccini

Un vaccino viene preparato usando il virus o il batterio che causano una determinata malattia ma rendendoli innocui o uccidendoli; cioè il microrganismo non è in grado di provocare la malattia ma rimane capace di farsi riconoscere dal sistema immunitario e di stimolarlo a produrre le cosiddette cellule della memoria le quali saranno in grado di riconoscere il microrganismo per tutta la vita dell’individuo e di impedire che l’agente patogeno provochi la malattia. Attualmente alcuni vaccini vengono prodotti utilizzando le tecniche del DNA ricombinante le quali permettono di sintetizzare in laboratorio le proteine (antigeni) che caratterizzano il microrganismo e che risultano capaci di indurre il sistema immunitario a produrre anticorpi e cellule della memoria per difendersi dalla malattia. In questo modo è stato recentemente prodotto il vaccino contro l’epatite B, una delle più pericolose malattie del fegato.

Uno degli aspetti più interessanti  e tra i più temuti dalle persone che non hanno mai studiato il funzionamento del sistema immunitario, è la preoccupazione che la somministrazione contemporanea di più vaccini possa sottoporre il sistema immunitario a uno sforzo eccessivo che potrebbe provocare conseguenze pericolose nei bambini.

Si tratta di un vero e proprio pregiudizio in quanto il sistema immunitario ha un’enorme versatilità: è in grado di difenderci da mille attacchi contemporaneamente senza per questo “affaticarsi”. Esso però impiega circa 20 giorni per produrre le difese contro le malattie; anche quando entriamo in contatto con il microrganismo patogeno il sistema immunitario impiega lo stesso tempo ma intanto il microrganismo  attacca il nostro corpo determinando la malattia che, com’è noto, può risultate più o meno grave.

Sappiamo bene che i bambini appena nati e per i primi due o tre mesi dopo la nascita in genere non si ammalano perché sono protetti dagli anticorpi della madre; ma dopo i tre mesi cominciano ad ammalarsi perché entrano in contatto con tanti microrganismi. Il loro sistema immunitario lavora  per difenderli  garantendo così un futuro di adulti sani.

Silvia Giannella

25 aprile 2019

Attaccarsi alla vita, 4 novelle di Pirandello a fumetti – di Nunzio Brugaletta

E’ possibile il connubio fra grande letteratura e fumetti? Sembra  proprio di sì, a giudicare dall’ottimo risultato ottenuto con il libro “Attaccarsi alla vita” da Nunzio Brugaletta, artista ragusano già noto al pubblico per le sue fulminanti vignette satiriche, pubblicate negli anni ’80 sui “Quaderni Iblei”.

Per gentile concessione dell’Autore, pubblichiamo l’introduzione al libro ed alcune tavole tratte dal suo recente lavoro, relative alle quattro novelle pirandelliane. Il libro è disponibile a questo indirizzo: https://ilmiolibro.kataweb.it/libro/fumetti/424698/attaccarsi-alla-vita/  (p.p.)

Dalla prefazione della prof.ssa Rita Cultrera:“Qui sono presentati 4 adattamenti da Novelle per un anno di Luigi Pirandello. Filo conduttore: la vita è dura e si accanisce, spesso con rabbia, sull’uomo, ma l’istinto di sopravvivenza, nella sua indomabile forza, coglie con disperato e cieco vigore anche eventi banali come il fischio di un treno, o altre improvvise epifanie, per affermare se stesso contro ogni pretesa di normalizzazione della forma a imbrigliarlo e soffocarlo.”

Quattro domande all’Autore:

1. Fumetto da leggere o guardare?

Fumetto = testo + grafica. Ovviamente c’è un racconto (la novella) ma, principalmente, il tentativo di rappresentare graficamente le sensazioni comunicate dalla novella. Un autore, specie se è un classico, lo è perché al di là del suo tempo, è riuscito a trattare temi universali e senza tempo. La lettura fa viaggiare in mondi diversi e questi adattamenti sono la descrizione di quei mondi.

Tavola tratta dalla novella “La patente”

2. Questo è Pirandello?

Assolutamente no. Questa è la mia rappresentazione del mondo offertami dai viaggi di cui sopra. Leggere un fumetto non è sostitutivo del leggere la novella dal libro. È una cosa diversa: è l’utilizzo, in accoppiata al testo (magari ridotto, magari leggermente modificato nelle scansioni temporali per ragioni di rappresentazione grafica, ma senza che il messaggio veicolato venga stravolto), della potenza dell’immagine giocata per rappresentare la ricchezza delle emozioni.

Tavola tratta dalla novella “La morte addosso” (L’uomo dal fiore in bocca)

 

3. Il fumetto aiuta l’approccio ad un autore?

Sono profondamente convinto di questo e, non solo, come appassionato da sempre di fumetti e di tutto ciò che ha a che fare con il segno grafico. Spesso nei confronti di certi autori, ritenuti difficili, si ha un certo timore ad affrontarne l’opera, come se ai tempi della scrittura ci fosse un manualetto che bisognasse conoscere prima di avvicinarsi con timore reverenziale alla lettura. L’adattamento a fumetti può veicolare un messaggio semplice: non c’è da aver paura ad affrontare la lettura e goderne: qualcuno ne ha fatto persino un fumetto (!).

Tavola tratta dalla novella “Il treno ha fischiato…”

 

4. Slow reading?

Fin da bambino la mia fruizione dei fumetti era: guardare e riguardare tante volte i disegni senza, coscientemente, leggere niente. Alla fine avevo letto tutto (la mente viaggia in modo inconscio) e mi era rimasta l’atmosfera. Questa concezione mi è rimasta, alimentata anche, intorno agli anni ’60-’70, dalla disponibilità di una quantità di fumetti da guardare. Nel mio piccolo cerco anche io di seguire questa linea direttiva.

Tavola tratta dalla novella “Male di Luna”

Buona visione e buon divertimento.

Nunzio Brugaletta

L’Autore: “Laureato in Matematica, ho insegnato Informatica presso l’ITC “F.Besta” di Ragusa. Da quando sono in pensione ho ripreso alcune passioni giovanili lasciate in stand-by durante l’attività lavorativa. Appassionato da sempre di disegno, fumetti, grafica, pittura e di tutto ciò che riguarda le arti figurative nelle sue varie espressioni. Disegnatore io stesso e appassionato lettore, con preferenza per i classici, ho messo assieme due passioni: il fumetto e i classici della letteratura. Ho realizzato (fino alla data odierna, Marzo 2019) adattamenti da racconti di Kafka e Pirandello da cui ne ho fatto due pubblicazioni. Continuo, almeno per ora, nella direzione di adattamenti da opere letterarie di ulteriori autori.”

Recensioni al libro:

“…i luoghi, persino le vignette rendono perfettamente quella sensazione di smarrimento razionale tipico della scrittura di Pirandello, attraverso un tratto squadrato e scarno adatto. Anche la prospettiva è simile a quella riscontrabile nei dipinti di alcuni pittori espressionisti (Kirchner ad esempio), la quale rende l’idea della solitudine dei personaggi, del loro senso claustrofobico, del loro sentirsi prigionieri di loro stessi e della loro condizione.” (Marta Paolantonio)

“…l’ho chiesto in lettura per recensirlo – incuriosita – e bum, l’ho letto tutto d’un fiato. Con i fumetti è così che si fa. Poi son tornata indietro e ho ammirato le tavole di nuovo. Una a una. Con calma, lentamente.”  (Nunzia Bossa)

Ragusa, marzo 2019

 

Tolleranza e Compassione, di Leopoldo Sentinelli

Nel corso della storia del genere umano su questo pianeta, c’è un elemento che è rimasto indenne ed intatto, che ha mantenuto la propria peculiarità, che non ha perso la sua essenza pur con le modifiche esteriori che hanno marcato il trascorrere del tempo, dell’era e del camminare dell’uomo.

Questo elemento è la volontà di sopraffare che si manifesta cruentemente e terrificantemente nelle guerre.

La parola “guerra” è sistematicamente accompagnata da altri sostantivi che tendono a qualificarla, a giustificarla, a spiegarla, a presentarla, e cioè “guerra di conquista”, “guerra di religione”, “guerra di sopravvivenza”,                    “guerra preventiva” ma poi sempre guerra è.

La guerra, qualunque essa sia, nasce da un elemento comune e ripetitivo, nasce dall’intolleranza, nasce dalla mancata accettazione di ciò che si ritiene diverso da noi.

La sensazione del diverso da noi si origina in un atteggiamento profondo che ci fa ricercare la differenza con l’altro; cercare la differenza ci spinge a confermare di essere migliore, o più giusto, o più forte, o più valente. Questo cercare la propria valenza rispetto agli altri ha dietro la spinta del timore di essere inferiore, di valere di meno, anche fosse solo per il motivo che l’altro esiste, vedendolo come una probabile minaccia.

Le guerre continuano ad esistere e non vedo una ricerca che tenga a risolvere il problema alle radici, cioè che estirpi dall’animo del singolo le origini psicotiche di questa metodologia di rapporto con il diverso da sé lasciando poi spazio ad altri, migliori, incruenti metodiche di risoluzione delle problematiche, in una via diretta verso una posizione interiore di maggiore comprensione ed accoglienza.

Occorre sottolineare che nell’ultimo secolo si sta facendo strada un diverso approccio al rapporto con l’altro e, passando dal macrocosmo dei rapporti tra Stati al microcosmo dei rapporti tra esseri umani, si nota con piacere che sempre più si parla di tolleranza.

Non siamo alla vetta ma certamente stiamo abbandonando il campo base.

Perché non basta tollerare!

Perché è il concetto stesso, la sua significanza etimologica, che lo pone in una fase intermedia: dal latino “tollere” e cioè “portare” è divenuto in italiano “sopportare”, tanto che tra i sinonimi dell’aggettivo “tollerante” oltre ad ” indulgente, aperto, condiscendente “, c’è anche “sofferente”.

Sofferenza dunque per lo sforzo che si sta compiendo e dolore del non poter essere liberamente, completamente, spontaneamente sé stessi, indipendentemente se il nostro sé ha un contenuto di idee, convinzioni, atteggiamenti eticamente, moralmente e spiritualmente giusti.

Se in termini sociologici la Tolleranza si basa sulla convinzione che la Intolleranza è la tendenza ad eliminare tutte le differenze che sono creatrici di violenza e sopraffazione, in senso filosofico poggia sull’accettazione di ciò che è diverso poiché facente parte di un tutto armonico pur se differenziato, in riferimento alle infinite possibilità dell’essere umano, tutte da considerare, accettare e rispettare.

Anche in campo politico vi è sempre stata ambivalenza tra tolleranza ed intolleranza ma è soprattutto dall’Illuminismo, con i vari Voltaire e Lessing, che avviene una radicale sterzata a favore della tolleranza sempre però come sopportazione del diverso. 

In campo religioso la tolleranza non era un concetto stabile ma variava a seconda dell’interlocutore; Tommaso D’Aquino diceva: “non possiamo tollerare coloro che sono cristiani e non vogliono più esserlo, perché questi hanno fatto una promessa”. E ciò comportò nei secoli a seguire stermini enormi (Catari, Albigesi, ecc. ). Di contro sempre Tommaso D’acquino accettava di tollerare ” le persone che non sono cristiani, che non possiamo pensare di convertire al cristianesimo, cioè musulmani, pagani o ebrei “.

Purtroppo è proprio nel campo religioso che almeno la tolleranza, se non qualcosa di più, dovrebbe essere una condizione sine qua non per la convivenza in un qualsiasi Stato che ormai oggi non è più omogeneo nei suoi componenti, cioè nei suoi cittadini.

Ecco quindi che i legami religiosi si incrociano con quelli sociali a formare un nuovo tessuto in cui trama e ordito siano, possano essere, tra loro armonizzati.

Sappiamo che se da una parte, lo Stato non può non essere tollerante poiché accetta ed accoglie stranieri che oggi giungono dai territori più lontani da noi, sia in senso geografico che interiore per usi, costumi e religioni, poi nei fatti ne ha paura, poiché si rende conto che accettare significa mettere in discussione sé stesso e le proprie regole.

Ad esempio in Italia è obbligatorio il casco per chi usa una moto ed in Italia vivono uomini di religione sikh, italiani e stranieri, che seguendo le proprie regole religiose si fanno crescere i capelli e li raccolgono entro ampi turbanti; come può un sikh indossare un casco? Basta forse metterlo in cima ad un turbante per soddisfare la legge? Oppure la legge deve essere cambiata per adattarla ai sikh?

Stiamo quindi vedendo che anche la tolleranza è un atteggiamento discutibile, una soluzione non finale, un’arma a doppio taglio a seconda di chi sia il tollerante e chi il tollerato.

Anche limitandosi a guardare indietro nel secolo da poco terminato, si trovano indicazioni importanti di menti e cuori elevati, da Steiner a Gandhi, da M. Luther King a Madre Teresa di Calcutta; da loro abbiamo ricevuto importanti eredità da realizzare sul piano sociale e materiale, da effettuarsi attraverso la facoltà di esprimere fino in fondo sé stessi, manifestando concretamente le proprie capacità senza ledere la libertà degli altri. 

I sentimenti, modulati dal chakra del cuore, devono insieme al pensiero ed alla volontà determinare l’azione seguente e congruente.

Occorre quindi “capire” per poter realizzare atti positivi per sé e gli altri, nel pieno rispetto fisico e spirituale del contesto cosmico con il quale l’essere umano è in imprescindibile relazione. Solo attraverso questa fusione tra sentimento e pensiero si può attuare la giusta tolleranza che diventa così atteggiamento naturale e spontaneo verso il diverso-da-sé che sta percorrendo un altro cammino.

In Oriente questo atteggiamento e questa fusione prendono il nome di Compassione, che ha una valenza diversa da quella descritta dal cattolicesimo come “aiutare il prossimo” inteso come l’altro che ho di fronte e separato da me; questo concetto non esiste nel buddhismo.

Nel buddhismo si considera che ogni essere umano nasca da un processo sovrumano, con una connotazione che sfugge alle menti più sottili, non è un mero processo biochimico.

Bene, questo punto di partenza, questa prima valutazione dell’essere umano ne sancisce la sua preziosità, senza misura materiale, poiché si riferisce a qualcosa che materiale non è.

La ragione della nostra vita materiale è al disopra della nostra coscienza.

La Verità Ultima è un fatto sovrumano, indescrivibile, inafferrabile, ineffabile, perché non possiamo coglierla con la nostra mente.

Ne dobbiamo però cogliere almeno il suo riflesso, cioè la sua validità in termini macrocosmici poiché solo l’involucro, il corpo, è un microcosmo.

Passaggio ulteriore è capire che se l’essenza di ogni essere umano è la stessa pur in un contenitore diverso, non può esistere un lui diverso da me.

Se prepariamo un infuso di thè e lo versiamo in dieci tazze diverse tra loro per materiale, forma e colore non potremo dire di bere dieci diversi thè, ma se ci soffermiamo alla semplice vista diremo che sono dieci diverse bevande.

Stiamo arrivando a poter dire che tra due individui la diversità è solo il contenitore, mentre la soggettività in senso elevato è una.

Che poi le dieci tazze non possono essere impilate tutte insieme per la diversità delle forme ma andranno riposte in modi differenti, ci porta a dire che vanno rispettate le diversità tra gli individui sia per le loro peculiarità sia per la soggettività unica che li unisce. Noi possiamo anche ora capire e seguire il filo che ci eleva al disopra delle dispute, ma domani? Tra un mese? Tra dieci anni?

Quando riusciremo ad operare il cambiamento interiore, necessario a percepire l’altro, il diverso da sé come invece un altro me stesso?

Il cambiamento si ottiene tramite un profondo desiderio di miglioramento e con una altrettanto profonda sincerità. È un processo interiore di cui pochi sono capaci; coloro che sono integri, coloro che non sono dipendenti, emotivamente ed affettivamente da altri, coloro che non si sentono minacciati da realtà che sembrano esterne a loro stessi.

Questo processo di cambiamento può partire solo dall’individuo; se tutti accettassero la diversità come insegnamento potenziale, come occasione di crescita, come presupposto di ampliamento interiore, ogni diversità eventualmente percepita verrebbe vissuta con gioia, accolta con entusiasmo.

Se fossimo su questa via ci staremmo incamminando verso l’Amore, lasciandoci alle spalle l’odio; un’enorme passo avanti nella eterna lotta tra il bene e il male che quotidianamente si svolge nell’animo di ciascuno.

Il cammino è lungo ed impervio ma abbiamo le indicazioni delle varie tappe intermedie.

Sappiamo che è necessario dissolvere le tre Radici, la rabbia, l’attaccamento e l’ignoranza, che ci condizionano in ogni atto e pensiero, che ci fanno ritenere che la felicità e la liberazione dalla sofferenza possano essere comprate.

“In fin dei conti” insegna il Dalai Lama “gli esseri umani sono tutti eguali, fatti di carne, ossa e sangue. Tutti desideriamo la felicità e vogliamo evitare la sofferenza. Inoltre abbiamo tutti diritto ad essere felici. In altre parole è essenziale riconoscere l’uguaglianza degli esseri umani”.

Leopoldo Sentinelli

Gennaio 2019

CALLIOPE, di Giuseppe Tumino

Calliope è la Musa per eccellenza, anzi viene spesso nominata per indicare le Muse in generale. Il suo nome significa “dalla bella voce”, ma questo non vuol dire soltanto dal suono gradevole, ma dalle belle e decisive parole, come quelle dei re e dei giudici da cui dipendono la giustizia e la pace.

Nella Grecia arcaica, infatti, il re di giustizia, l’indovino e il poeta sono accomunati dall’essere maestri di verità, verità che è luce, memoria ed elogio, assertoria, senza bisogno di dimostrazione.

Calliope. Dettaglio del dipinto Urania e Calliope di Simon Vouet (1634 ca.)

Per questo Calliope è riconosciuta come la più importante delle Muse fin dalla Teogonia di Esiodo dove è definita “la più illustre di tutte”; e anche Platone, nel Fedro, quando parla del mito delle cicale, ribadisce che Calliope è la prima e la più anziana delle Muse.

Essendo la maggiore e la più saggia delle nove sorelle, fu scelta da Zeus come giudice fra Afrodite e Persefone  per dirimere la loro disputa per contendersi Adone, e, come è noto,  anche in questo caso diede prova di salomonica saggezza.

Questo spiega perché nell’iconografia Calliope viene sempre raffigurata  con una corona d’oro ad indicare la sua supremazia sulle altre sorelle. I suoi simboli sono lo stilo e la tavoletta di cera, oppure un rotolo o un libro perché è protettrice di chi scrive in versi e in prosa.

Simon Vouet, pittore francese caravaggista, iniziatore del barocco in Francia, in un dipinto del  1634 conservato alla National Gallery of Art di Washington, raffigura Calliope insieme a Urania. Calliope tiene  in mano l’Odissea che appoggia sul grembo come una sua creatura.

E ancora Stravinskij nel balletto Apollon Musagete presenta Apollo nell’atto di donare a Polimnia una maschera, a Tersicore una lira e a Calliope una tavoletta.

La scrittura è frutto della conoscenza (il padre Zeus) e del ricordo (la madre Mnemosine) da cui si origina ogni opera d’arte, e  anche se per Platone la scrittura resta sempre una specie di gioco, una cosa poco seria e fredda rispetto all’oralità dialogante, senza la scrittura non sarebbero esistite né la storia né la filosofia e forse l’intera cultura occidentale.

Calliope, quindi, è la Musa di Omero, ispiratrice dell’Iliade e dell’Odissea, ed è definita da Lucrezio “callida Musa, Calliope, requies hominum divomque voluptas ”, saggia Musa Calliope, consolazione degli uomini e voluttà degli dei.

Oltre a Virgilio, pure Dante la invoca indirettamente nel II canto dell’Inferno e direttamente nel I canto del Purgatorio insieme alle altre “Sante Muse”, di cui si dichiara “vostro”. Lo  stesso   Foscolo ribadisce nei Sepolcri che Dante è “dolce di Calliope labbro”. Infatti Esiodo aveva detto che  beato è colui che le Muse amano; dalla sua bocca scorre la voce che fa scordare i dolori e i lutti”

Questa funzione consolatoria delle Muse in generale e di Calliope in particolare, è però un’arma a doppio taglio perché la  prima cosa che le Muse avevano detto proprio ad Esiodo all’inizio della Teogonia, è che esse possono, se vogliono, cantare il vero, ma possono anche dire molte menzogne simili al vero. Si tratta dello stesso incantamento provocato dalle Sirene che, nella tradizione alessandrina sono figlie di una Musa, probabilmente la stessa Calliope, e del fiume Achelaoo. Per questo il filosofo Boezio, in carcere perché ingiustamente condannato, si affiderà piuttosto alla razionale consolazione della Filosofia la quale caccerà via le Muse lusinghiere e ingannatrici definendole “scenicas meretriculas”, sgualdrinelle da teatro.

Tra l’altro le Muse non hanno esitato ad essere vendicative allorquando le Pieridi, che avevano osato sfidarle nel canto, furono mutate in rauche gazze. In quell’occasione Calliope ricevette il compito di gareggiare per tutte e fu proprio lei a dare il colpo di grazia intonando un inno a favore di Cerere e narrando della vasta isola di Trinacria sotto cui è schiacciato il gigante Tifeo che spesso muovendosi scuote la terra, come ci racconta Ovidio nelle Metamorfosi.

Calliope è la protettrice della poesia epica. Epos è parola, narrazione, e la poesia epica è fortemente legata alla tradizione orale che costringe gli aedi a memorizzare una gran quantità di versi da recitare accompagnandosi con la cetra. Nei poemi epici vengono cantate le gesta  di un eroe , usati spesso in funzione politica per fissare la memoria e l’identità di un popolo. Come dice il Dodds, la creazione poetica contiene qualcosa che non è stato scelto, ma concesso dagli dei; non a caso il poeta, quando invoca le Muse, chiede sempre che cosa deve dire, non come deve dirlo. I poeti, quindi, non inventano dal nulla, ma rappresentano e richiamano un sapere condiviso, che li precede e che tramandano perché l’eroe che cantano non è solo il protagonista del mito, ma ha pure un ruolo importante nelle istituzioni religiose e civili della città, sebbene a livello solo locale. Esisteva infatti un culto degli eroi  provocato dalla stessa poesia epica che decretava la gloria (kleos) dell’eroe in seguito quasi sempre ad una  bella morte. L’eroe quindi non è tale  solo per la sua nascita dovuta all’unione fra divinità e mortali (Platone nel Cratilo aveva detto che la parola eroe deriva da eros), ma anche per la superiorità del coraggio o del talento e pure per la sua morte che è sì un discrimine tra umano e divino, ma ne consacra lo statuto eroico e ne decreta il successivo culto della tomba.

Calliope fu pure madre di Imeneo, che presiedeva alle nozze e dei Coribanti, sacerdoti di Cibele;  da Eagro, re di Tracia, o dallo stesso Apollo, ebbe il grande Orfeo, fondatore di importanti culti misterici. Orfeo era così abile nel suonare la lira che incantava ogni creatura, sovrastando col suo canto le stesse Sirene. Dopo aver commosso persino i signori degli inferi, riebbe Euridice, la sua sposa morta per il morso di un serpente, ma venne meno alla promessa di non voltarsi a guardarla prima di averla condotta fuori e la perse per sempre. Orfeo finì poi squartato dalle donne tracie, Baccanti istigate da Afrodite che volle così vendicarsi su Calliope perché non aveva gradito il suo giudizio espresso in quella contesa che aveva avuto con Persefone per Adone.

Marcuse in Eros e Civiltà definisce Orfeo la voce che canta e non comanda perché la musica ha il potere di dare ordini senza comandare, e forse in questo si può compendiare l’eredità che  oggi ci resta di Calliope: il fascino della voce, del racconto e dell’armonia tra uomo e natura.

Il mito, insomma, ci consente di guardare la realtà sotto una nuova luce conferendo visibilità a ciò che altrimenti sarebbe invisibile. Lasciarsi incantare ancora dal canto di Calliope vuol dire trovare rifugio nel dono della bellezza liberandoci dall’ossessione dell’utilità.

Giuseppe Tumino

17 novembre 2018

Nota: Il presente articolo è stato pubblicato per la prima volta sulla rivista LE MUSE, nel supplemento di marzo 2018.

Che cos’è l’epigenetica, di Silvia Giannella

Come l’ambiente, l’alimentazione, il pensiero influenzano gli organismi viventi

L’epigenetica è una nuova scienza che ha rappresentato una vera e propria  rivoluzione nelle conoscenze scientifiche di vari ambiti di studio quali la biologia, la genetica, la medicina e la farmacologia determinando un  capovolgimento nell’approccio allo studio di queste discipline.

Infatti, mentre fino a pochi anni fa si pensava che i geni di un individuo  ne determinassero il destino, oggi sappiamo che l’ambiente in cui l’organismo vive (le sostanze chimiche, l’ambiente intrauterino, l’alimentazione, lo stress) riveste un ruolo altrettanto importante per l’individuo stesso ma anche per i suoi figli.

L’epigenetica nasce in seguito alla genetica, la scienza dell’ereditarietà: essa descrive tutte quelle modificazioni  che insorgono nel corso della vita di una cellula o di un organismo a causa dell’interazione con l’ambiente; l’aspetto particolare di tali modificazioni è che esse possono essere ereditabili pur non trasformando direttamente il DNA, il materiale ereditario per definizione.

Per capire bene l’importanza dell’epigenetica sia dal punto di vista teorico sia per le possibili applicazioni mediche, bisogna definire che cos’è la genetica e  descrivere sommariamente le principali conoscenze che la caratterizzano.

La genetica viene definita anche come la scienza dell’ereditarietà; essa riconosce nei geni, piccoli segmenti di DNA, le unità ereditarie. I geni sono contenuti in gruppi all’interno dei cromosomi, organelli presenti all’interno del nucleo di ogni cellula, in numero definito per ogni specie animale e vegetale (per es. nell’uomo ce ne sono 46).

I geni, oltre ad essere trasmessi dai genitori ai figli mediante la riproduzione sessuale, hanno il compito di far funzionare ogni singolo organismo, e, più in generale, ogni singola cellula in cui sono contenuti. Possiamo dire che essi si esprimono nella cellula cioè determinano la produzione di sostanze, le proteine, che a loro volta determinano la struttura e  permettono il funzionamento delle cellule. Per fare un esempio, possiamo dire che nelle cellule del pancreas alcuni geni permettono la produzione della proteina insulina la quale ha il compito di regolare il metabolismo del glucosio. Se i geni in questione sono alterati (per esempio a causa di una mutazione), l’insulina non viene prodotta e l’organismo risulta affetto dal diabete, la malattia per cui il glucosio non viene smaltito nell’organismo e si accumula nel sangue provocando gravi alterazioni patologiche.

In sintesi, tutti i geni di un organismo costituiscono il suo genotipo mentre i caratteri fisici e funzionali dell’organismo ne costituiscono il fenotipo.

Gli studi che si sono susseguiti nel XX secolo hanno portato a una conoscenza dettagliata della struttura degli acidi nucleici (DNA, RNA) della cellula e delle strutture cellulari implicate nel meccanismo di costruzione delle proteine (sintesi proteica).

Verso la metà del 1900, si è arrivati addirittura a definire il cosiddetto dogma centrale della biologia,secondo il quale il flusso di informazione procede in un’unica direzione:

          trascrizione                                                      traduzione

   DNA ————————>   RNA —————-> proteine

Secondo questo schema, il DNA contiene il codice genetico di un determinato organismo; esso viene trascritto in un altro tipo di acido nucleico, l’acido ribonucleico (RNA), poi, attraverso una serie di complesse reazioni chimiche, dalle istruzioni presenti nell’RNA si costruiscono le proteine. Queste ultime vanno a formare le strutture di cui sono composte le cellule e i cosiddetti enzimi che permettono alla cellula di svolgere tutte le sue funzioni. Il codice genetico rimane sempre invariato e quindi si esprime sempre nello stesso modo. Esso si modifica soltanto in seguito ad errori, le mutazioni, che avvengono in modo casuale. Queste portano, nella maggior parte dei  casi, ad alterazioni in alcune strutture e funzioni cellulari determinando malattie nell’individuo che ne è portatore.

 Si definiscono invece epigenetici quei cambiamenti che influenzano il fenotipo senza  alterare il genotipo. Questi cambiamenti vengono spesso trasmessi alle cellule figlie attraverso la riproduzione cellulare però essi non sono permanenti, ma possono essere cancellati o modificati in risposta a diversi stimoli, come, per esempio, i fattori ambientali.  Sono epigenetici per esempio, i fenomeni di differenziamento cellulare, quel processo che permette alla prima cellula uovo fecondata da uno spermatozoo, lo zigote, di dare luogo alle diverse linee cellulari, cellule nervose, muscolari, epidermiche, connettivali, senza modificare il DNA presente nello zigote, ma silenziandone alcune parti e stimolandone altre ad “esprimersi”; si formano così solo quelle proteine che caratterizzano un determinato tessuto. 

Ed è proprio a causa della natura epigenetica del differenziamento che una cellula differenziata può essere riprogrammata e diventare totipotente (cellula staminale), permettendo così la clonazione cioè la formazione di un intero organismo a partire dal suo nucleo.

Altri importanti studi in campo epigenetico riguardano l’influenza dell’alimentazione nel determinare l’insorgenza di una malattia: si è visto, per esempio, che esiste una correlazione tra l’aumento di assunzione di cibo di un soggetto e un maggior rischio di diabete e di malattie cardiovascolari . Molti studi hanno dimostrato che spesso questo rischio viene trasmesso anche alle generazioni  successive: ciò dimostra  che anche alcune modificazioni epigenetiche possono essere trasmesse  dai genitori ai figli.

Molto interessanti si sono rivelati gli studi sui gemelli monozigoti (i gemelli uguali, che derivano dalla scissione di una cellula fecondata da uno spermatozoo). Questi, pur avendo lo stesso DNA, nel corso della crescita si possono differenziare l’uno dall’altro a causa dell’ambiente cioè delle diverse esperienze affrontate, dei differenti stili di vita; questo può determinare cambiamenti nell’espressione di alcuni geni, attivandoli o disattivandoli.

Un altro campo in cui l’epigenetica si sta rivelando fonte di nuove conoscenze è quello oncologico.

Si è sempre pensato che all’origine del cancro ci sia una mutazione genetica: uno dei più noti risultati di questa alterazione è l’incontrollata riproduzione cellulare che, insieme ad altre trasformazioni patologiche, porta a morte l’individuo affetto dal cancro. Attualmente sappiamo  che la malattia può essere causata anche da processi epigenetici che modificano la trascrizione di alcuni geni bloccandoli o attivandoli in modo incontrollato. Questa scoperta  ha rivoluzionato le conoscenze sul cancro nel senso che non si pensa più a questa malattia come a qualcosa di scritto nel destino di un individuo – i suoi geni – ma  a qualcosa che può essere determinata dal nostro stile di vita, dalla nostra alimentazione dalle sostanze inquinanti con cui entriamo in contatto.

Non solo, ma anche l’approccio terapeutico cambia: mentre appare arduo andare a modificare a monte l’alterazione genica causa del cancro, sembra molto più fattibile sintetizzare farmaci in grado di interagire con un prodotto genico alterato come per esempio una proteina modificata e dannosa per l’organismo. L’alterazione diventa così potenzialmente reversibile, individuando il percorso terapeutico mirato a un bersaglio più accessibile.

E’ così che l’epigenetica nata come un corollario della genetica (epì-genetica), si è trasformata in una disciplina a sé stante in grado di aprire importanti prospettive di studio.

Silvia Giannella

10 novembre 2018

I cicli planetari e gli aspetti

di Pippo Palazzolo*

Introduzione

In tutte le cose troviamo la ciclicità, tutto ha un inizio, una crescita, un declino e una fine. La durata dei cicli può essere variabile, ad esempio la vita umana, oppure relativamente regolare, ad esempio il ciclo di lunazione.

Fin dall’antichità l’osservazione dei movimenti planetari e dei loro cicli è stata effettuata con grande attenzione, fino a raggiungere la capacità di prevederne in anticipo le posizioni celesti e pubblicarle nelle effemeridi, che oggi hanno raggiunto una precisione scientifica.

Tutto ciò ci permette di poter analizzare i fenomeni connessi alle fasi dei cicli e a poterne prevedere i tempi. Ad esempio, già oggi vi posso dire che la prossima Luna Piena si formerà il 23 novembre 2018, alle 5:40 ora di Greenwich, con il Sole a 0°52′ e 6” del segno del Sagittario e la Luna allo stesso grado dei Gemelli. 

Le osservazioni puntuali fatte in questi millenni anche sulle fasi dei cicli planetari del sistema solare, hanno sempre più affinato l’analisi astrologica, che si è arricchita anche delle moderne conoscenze psicologiche. Già Tolomeo, nel I secolo d.C., distingueva tuttavia la scienza dei movimenti degli astri, l’astronomia, esatta in quanto misura i movimenti di entità fisiche, dall’astrologia, non altrettanto esatta perché il suo oggetto di studio è l’essere umano, con tutta la sua complessità (vedi “Tetrabiblos”, di Claudio Tolomeo), non riducibile a eventi univocamente definiti. 

Il cerchio zodiacale

La rappresentazione dei movimenti planetari nel  sistema solare viene fatta nel cerchio zodiacale. I 360 gradi del cerchio vengono divisi in 12 settori di 30 gradi e i pianeti, il Sole e la Luna vi occupano un posto in un punto preciso, di cui conosciamo la longitudine (i meridiani), i gradi di distanza dal punto gamma (0° dell’Ariete). Nella volta celeste, i corpi occupano una posizione ben precisa anche in riferimento alla distanza dall’eclittica, misurata in gradi di distanza a Nord o a Sud di essa (i paralleli). Pertanto, può accadere che due pianeti occupino lo stesso grado longitudinale (es. 15 gradi Toro), ma trovarsi uno a 8 gradi Nord e l’altro a 5 gradi Sud, rispetto all’eclittica. In questo caso, noi diremo che sono “congiunti” (stesso grado nel segno zodiacale del Toro), ma all’osservazione diretta, non li vedremo vicini, avendo una distanza di latitudine di 8+5=13 gradi. La Luna, quando oltre che congiunta, si trova anche sullo stesso parallelo del Sole (ovvero il cerchio dell’eclittica), dà luogo al fenomeno delle “eclissi” soli-lunari.

Le fasi dei cicli

Considerando la nostra posizione sulla Terra come punto di osservazione del cielo, possiamo immaginare intorno a noi due cerchi: l’orizzonte terrestre, con i quattro punti cardinali e l’eclittica, il percorso apparente del Sole. Avendo questi due cerchi di riferimento, possiamo posizionare in un grafico i corpi celesti (rappresentazione geocentrica o tolemaica). La distanza apparente fra i pianeti, il Sole e la Luna si potrà quindi misurare in angoli del cerchio, da 0° a 360°. Ad esempio, quando la Luna si trova allo stesso grado del Sole, abbiamo la Luna Nuova, è l’inizio di un nuovo ciclo di circa 28 giorni, durante il quale la Luna si allontana apparentemente dal Sole, cominciando prima a “crescere”, per 14 giorni, per poi decrescere (Luna calante), per altri 14 giorni. Allo stesso modo, tutti i pianeti hanno momenti di congiunzione, allontanamento (fino all’opposizione), riavvicinamento (fino alla congiunzione successiva).

Gli “aspetti” maggiori o distanze angolari nascenti dalla divisione del cerchio per 1, 2, 3, 4 e 6.

Il rapporto di “aspetto” fra due pianeti indica delle “qualità” del tempo in cui si formano. Agli inizi delle teorie astrologiche, la qualità di tali aspetti veniva valutata come “positiva” o “negativa”, in riferimento ad eventi esteriori della vita personale o collettiva. Tale semplificazione non è ormai utilizzata, se non come residuo di una conoscenza astrologica superstiziosa, basata su frammenti delle teorie astrologiche ben più complesse, quali quelle utilizzate nel periodo rinascimentale ed ancora fino al XVII secolo. La rivoluzione illuministica, infatti, con il suo seguito di “scientismo” e di esaltazione del metodo scientifico quale unico parametro per misurare la veridicità di una disciplina, non esitò a relegare l’Astrologia ai margini del “sapere ufficiale”, non potendo accettare l’aspetto incerto delle previsioni astrologiche e la sua declinazione più deterministica e meno giustificabile. Gli studi sull’Astrologia tuttavia continuarono, anche se si svolgevano per lo più nel chiuso e nel riserbo di piccoli circoli culturali ed esoterici. 

L’inizio di un ciclo planetario è la congiunzione fra i due pianeti, quando la loro distanza è zero (i due pianeti hanno lo stesso grado nel cerchio zodiacale). La distanza zero si ha dividendo il cerchio per 1: 360:1=360 (identica posizione per entrambi i pianeti). I principi relativi ai due pianeti si uniscono e si fecondano reciprocamente, creando le premesse per una evoluzione che si potrà osservare nelle successive fasi del ciclo, quando il pianeta più veloce (o di transito rispetto ad uno di nascita), formerà delle distanze angolari significative dal pianeta più lento (o di nascita).

La prima fase importante del ciclo è il sestile, una distanza di 60° fra i due pianeti. L’angolo è il risultato della divisione del cerchio per 6 (360:6=60) e si può formare in due momenti del ciclo: in allontanamento o separazione, dopo la congiunzione, e in avvicinamento o in applicazione, prima della nuova congiunzione, che rappresenta la fine del ciclo. E’ una fase che rappresenta un momento di “costruzione”, di collaborazione facile fra i due principi relativi ai due pianeti. La relativa figura geometrica inscritta nel cerchio è l’esagono.

Il quadrato è la distanza di 90° fra i due corpi celesti e nasce dalla divisione del cerchio per 4 (360:4=90). Quattro angoli di 90° permettono di tracciare il quadrato inscritto nel cerchio. Nella fase del ciclo, il momento della quadratura è considerato come una sorta di “collaudo” di quanto si è avviato con la congiunzione, se il percorso che stiamo facendo non è quello giusto, si manifestano ostacoli e difficoltà che richiedono una soluzione, un aggiustamento di rotta. Anche il quadrato può essere di allontanamento (il primo) o di avvicinamento (il secondo). Questo aspetto può presentare difficoltà anche perché mette in relazione segni zodiacali ed elementi (fuoco, terra, aria e acqua) molto diversi fra loro. Contrariamente alla sua fama negativa, il quadrato, sia di nascita che di transito, deve essere considerato come un propulsore del tema, l’energia che consente di attuare cambiamenti, di prendere decisioni, di assumere impegni che in condizioni statiche non si prenderebbero (per “quieto vivere”…).  

Ed eccoci al famoso trigono, che nasce dalla distanza angolare di 120° fra i due pianeti, ovvero dalla divisione del cerchio per 3 (360:3=120). I due pianeti si trovano ai vertici del triangolo equilatero inscritto nel cerchio. Vi sono diversi motivi per i quali questo aspetto gode di buona fama, ad esempio l’incidenza di due forze con un angolo di 120° è la più fluida e i principi connessi ai pianeti si incontrano con facilità, i pianeti si trovano in segni affini e dello stesso elemento, insomma sembrano tutti elementi positivi. A mio avviso e non soltanto mio, il trigono è sopravvalutato in positivo, tanto quanto il quadrato lo è in negativo. Non sempre le facilitazioni simboleggiate dal trigono, nel tema o nei transiti, si trasformano in fortune eclatanti o grandi successi: l’equilibrio del triangolo può portare anche alla staticità e all’adattamento alle situazioni, anche poco gradite, senza sforzi ma anche senza grandi risultati. Nell’analisi, quindi, bisogna valutare attentamente il quadro complessivo del tema e gli altri  aspetti concomitanti.

La metà del ciclo si ha nella fase di opposizione, quando la distanza fra i due pianeti di 180°, data dalla divisione del cerchio per 2 (360°:2=180). I due pianeti si guardano, nel cerchio, uno di fronte all’altro, i principi a loro connessi si scontrano bruscamente e possono, a volte, portare ad una “impasse”, un blocco, una situazione in genere difficile, ma anche necessaria. E’ il momento nel quale ciò che si è iniziato con la congiunzione giunge ad una manifestazione chiara, in positivo o in negativo. In ogni caso, è il momento di fare il primo bilancio, per procedere agli eventuali aggiustamenti di rotta, a volte per abbandonare completamente il progetto. La tensione dell’aspetto è data anche dalla presenza dei due pianeti in segni ed elementi opposti, che è necessario portare a sintesi se si vuole continuare e non distruggere quanto iniziato al momento della congiunzione.

Dopo aver raggiunto l’opposizione, il pianeta più veloce comincerà ad avvicinarsi a quello più lento, percorrendo l’altra metà dell’eclittica, fino alla nuova congiunzione fra i due pianeti e la fine del ciclo. Anche la seconda metà del ciclo vedrà la formazione degli aspetti che abbiamo visto nelle fasi di allontanamento, anche se in questo caso saranno aspetti in avvicinamento, con un significato in parte diverso. Vedremo, quindi, formarsi il trigono, poi la quadratura e infine il sestile di avvicinamento. Il trigono in questo caso ha un significato di sviluppo armonioso di quanto ha resistito alla fase di opposizione, mentre il quadrato avrà il significato di “ultimo appello” per le cose che non vanno. Infine, il sestile avrà un significato di cooperazione per la preparazione di un nuovo progetto, di una nuova fase che prenderà il via con la successiva congiunzione.

Gli aspetti minori: la divisione del cerchio per 5, 7, 8, 9, 10, 12

Gli aspetti cosiddetti minori nascono dalla divisione del cerchio per 5 (quintile, 72°), per 7 (settile, 51,42°), per 8 (semiquadrato, 45°), per 9 (novile, 40°), per 10 (decile, 36°), per 12 (semisestile, 30°). Dobbiamo anche aggiungere il biquintile (72×2=144°) e il quinconce (distanza di 150°), che dà luogo ai due vertici del pentagono inscritto nel cerchio). 

Contrariamente alla definizione di “aspetti minori”, questi aspetti hanno un grande valore nell’interpretazione di un tema natale o dei transiti, pur trattandosi di distanze angolari non così evidenti come quelle degli aspetti maggiori, che per tale motivo sono utilizzati con più facilità e frequenza, specie nell’Astrologia divulgativa e semplificata. Forse la loro difficoltà di individuazione e la maggiore complessità interpretativa li ha fatti gradualmente cadere in disuso nella pratica astrologica comune. A tali aspetti dedicheremo un apposito incontro di approfondimento.

Conclusione

Questa conversazione ha avuto come principale obiettivo la presentazione di un modo di interpretare i simboli astrologici meno statico, sottolineando la natura ciclica e dinamica delle configurazioni planetarie che chiamiamo aspetti, sia di nascita che di transito. Ogni aspetto è un momento dei cicli planetari e non può essere interpretato senza riferirsi a tutto il ciclo al quale appartiene. Così, se analizziamo un Saturno “contro”, perché in un dato momento si trova opposto al nostro Sole di nascita, per valutarne i significati dovremo fare riferimento al contesto dell’intero tema, agli eventi del momento iniziale (congiunzione) di cui l’opposizione è il “momento della verità”. In poche parole, non potremo dare un giudizio di negatività solo perché è in opposizione al Sole: i confronti possono essere duri, a volte spiacevoli, ma possono essere utili a correggere errori e comprendere meglio i nostri obiettivi più autentici. Senza quei momenti di crisi, probabilmente avremmo perseverato in comportamenti oppure obiettivi sbagliati, negativi alla nostra evoluzione, al nostro particolare progetto di vita.

Infine, per dare un significato personale ed autentico ai cicli planetari ed agli aspetti, dobbiamo sempre partire dalla più profonda conoscenza di noi stessi, seguendo il motto socratico: “Conosci te stesso!”. Solo a partire da noi, dai nostri vissuti, dal percorso che vogliamo seguire nella nostra vita, i segnali che ci vengono dal cielo avranno un significato ben preciso, diverso e utile per ciascuno. Sta poi a noi comprenderlo e seguirlo oppure ignorarlo e proseguire nella via intrapresa: a questo punto scatta quello che Dante chiama “libero volere” e che ci rende responsabili delle nostre scelte.

Pippo Palazzolo

10 novembre 2018

 

*Il presente lavoro è una sintesi della Conversazione tenuta dall’autore il 10 novembre 2018 presso la Delegazione di Ragusa del Centro Italiano di Discipline Astrologiche.

IL TERZO MUNTU, di Santo Burgio – Recensione di Giuseppe Tumino

Aimé Césaire, il padre della négritude, sosteneva che per l’uomo africano ci sono due modi di perdersi: segregarsi nel particolare o dissolversi nell’universale.

Anche per l’uomo europeo ci sono due modi estremi, sbagliati, di porsi verso il migrante africano: la chiusura becera o la finta accoglienza per specularci sopra.

Intanto gli africani, che non sono più razziati e deportati e non sono più colonizzati, spontaneamente si presentano per offrirsi a un nuovo sfruttamento.

Tra le finzioni ideologiche dello straniero-minaccia e dello straniero-risorsa, c’è una terza via da percorrere: quella più difficile dell’intelligere, per una mediazione culturale che si sforzi di tenere insieme i fili di molte matasse, tra accettazione e rinuncia, tra identità e alterità.

E “Intelligere” è proprio il nome della collana editoriale che presenta l’ultimo lavoro, uscito lo scorso aprile, per le edizioni Agorà & Co., del prof. Santo Burgio, docente di filosofia comparata nella sede universitaria di Ragusa Ibla.

In questo libro intitolato Il Terzo Muntu. Filosofia e tradizione nel pensiero africano contemporaneo, l’autore presenta una panoramica della filosofia africana dalla sua nascita nel 1945 con l’opera di P. Tempels, La philosophie bantue, fino agli ultimi esiti attuali.

Il terzo muntu è il migrante africano che subentra al colonizzato e al “primitivo” edenico precoloniale.

Parecchi e interessanti gli autori passati in rassegna dopo Tempels: Oruka, Kagame, Senghor, Boulaga.

Oltre l’etnofilosofia e la retorica di una tradizione africana, creata a posteriori, o la négritude, che ha inventato una presunta personalità africana, intuitiva e sensitiva, complementare alla fredda razionalità occidentale, si scopre la finezza argomentativa e l’acume critico di una filosofia africana che rilegge e riusa l’ontologia, la morale e la politica.

Santo Burgio ci guida sapientemente in questo percorso non consentendoci nessuna indifferenza alla questione e, nel frattempo, facendoci luce su un mondo di riflessioni, meritevoli di essere conosciute, che non hanno ancora trovato spazio adeguato nel mondo accademico e nella pubblicistica.

Si tratta di una filosofia interculturale, “una provocazione che tiene insonne il pensare europeo” e cerca di ripensare la modernità in modo alternativo al progetto di dominio della natura e dell’uomo.

Giuseppe Tumino

28 agosto 2018

Nasce in Sicilia il Gruppo interculturale “Mundus”

Il Gruppo interculturale “Mundus” è nato per rispondere alle esigenze di dialogo aperto, interculturale e interdisciplinare, sulle maggiori questioni di carattere culturale e sociale di cui si dibatte oggi nel mondo.

Gli amici promotori del Gruppo appartengono a diverse aree culturali, dalla filosofia alla scienza, dall’arte alla psicologia, includendo discipline che non hanno al momento uno status epistemologico definitivo, pur essendo oggetto di seri studi e ricerche, che riteniamo meritevoli di attenzione.

Il libero dibattito e il rispetto delle posizioni di partenza di ciascuno è la premessa per conseguire una crescita nella comprensione dei diversi temi che verranno trattati.

Recensione: “Il mito e il velo” di Federico Guastella

di Giuseppe Nativo

Fuori e dentro la storia. Mito e vicende umane. Intrecci indissolubili dove il cielo si incontra con la terra dando origine ad una dimensione altra, gravida di simboli e leggende. Lì il mito, sorta di “velo” tra immanente e trascendente, facendosi carico del “suo alto valore misterico”, si incarna come “libro sacro di una civiltà”. In tale prospettiva la Sicilia, centro del Mediterraneo, incrocio di pensieri e culture e culla di civiltà, conserva echi di vetusta testimonianza: incisioni rupestri preistoriche come quelle dell’Addaura, necropoli come Pantalica, insediamenti rupestri come Cava d’Ispica, mirabilmente descritta da Gesualdo Bufalino come “una valle lunga e magra” in cui è possibile farsi ammaliare da “un termitaio di grotte, loculi, sacelli che le meteore e gli uomini hanno misteriosamente scavato”.

Alfeo e Arethusa, di Carlo Maratta

E’ proprio in questa fascinosa Trinacria che le pietre narrano e cantano racconti dove coesistono almeno due dimensioni, quella immaginaria e quella allegorica. In Sicilia i miti abbondano: qui Odisseo incontra e acceca il gigante Polifemo, figlio di Poseidone; nei pressi di Enna, Ade rapisce Persefone; la Sicilia è luogo degli infelici amori di Aci e Galatea, di Alfeo e Aretusa.

Federico Guastella
Qual è il confine tra storiografia e narrazione mitica? A cercare di esaminare quel “velo” ultra-millenario di valore misterico e simbolico che ammanta il mito è il recente lavoro poliedrico di Federico Guastella, “Il mito e il velo – Simboli e leggende” (Gruppo editoriale Bonanno, Acireale-Roma, 2017, pp. 220). L’autore – paternese di nascita, ragusano per affezione e pronipote dello scrittore Serafino Amabile Guastella – con l’occhio clinico dello storico, la perspicacia del saggista consumato e la destrezza del narratore disincantato, apre la finestra del tempo offrendo al lettore un viaggio sulla cultura mediterranea, ai confini tra antropologia e storia che tocca da vicino la ricchezza delle tradizioni che rappresentano il “retaggio prezioso lasciato dalle civiltà precedenti”, come annota il prefatore Raffaele Puccio. In tale contesto si inserisce la civiltà egizia alla quale Guastella dedica ampio spazio. Quelle che attirano l’animo del lettore sono le magiche suggestioni offerte da un’Isola esoterica in cui riecheggiano radici lontane come i culti isiaci. 

Molteplici le tracce egiziane in Sicilia come una statuetta funeraria dedicata a Iside, rinvenuta nella necropoli di San Placido (Messina), la cui funzione era quella di risparmiare al defunto i lavori pesanti nell’al di là. I più importanti santuari dell’Iside siciliana erano ad Enna e ad Erice dove, fra rupi scoscese e grotte scavate nella roccia, si celebravano riti iniziatici. Colpisce non poco, a d esempio, la festa di Iside in Corinto la cui descrizione fatta da Apuleio nelle “Metamorfosi”, ha molte similitudini con quella di Sant’Agata a Catania. A parlarne fu il modicano Emanuele Ciaceri (1869 – 1944) mettendo specificamente in luce sopravvivenze di moduli isiaci in alcuni particolari della mascheratura e del comportamento dei partecipanti al rito.

Stimabile fatica, dunque, questa di Federico Guastella che si legge come un accattivante romanzo i cui protagonisti, sebbene appartengano a un mondo remoto, parlano ancora alla mente e al cuore di ciascuno.

Giuseppe Nativo

Ragusa, 15 giugno 2018

Nota: la presente recensione è stata pubblicata sul quotidiano “La Sicilia” di Catania del 13 giugno 2018.

Home Page

“Il Mito e il Velo” di Federico Guastella – Quarta Parte

 Pare di poter dire che il “logos” non può prescindere dai miti, e viceversa1. “L’inconscio si esprime per immagini”: è questa una affermazione di Jung, che distanziandosi da Freud (costui aveva visto i miti come  “sogni secolari di una umanità ancora giovane”  e, a livello psichico, come pulsioni regressive ed elementari), aveva attinto  visioni e dottrine dalle più antiche culture religiose,  misteriche, iniziatiche e figurative. E’ per tutto questo che Jung ha considerato il mito come manifestazione  di archetipi operanti nell’inconscio collettivo, come testimonianza di un patrimonio comune a ogni cultura a prescindere dal tempo e dello spazio.

Parlano ancora i miti? Possono trovare ancora spazio nella vita dell’uomo del nostro tempo, nel ritmo della ruota della vita?2

Questi interrogativi rimandano ai bisogni dell’anima e alle sue intuizioni creative, a una riflessione sul mondo della psiche, all’antagonismo tra bene e male, ai tesori e ai draghi in essa vengono allevati, a dirla con Jung. In quest’ottica, i miti sono l’essenza dell’anima. Interpretarli, coglierne l’essenza equivale ad aprirsi alla vita, a connessioni simboliche, a evocazioni, a prese di coscienza che nutrono l’Anima. Nel mito possono ritrovarsi la propria storia, la propria emozionalità, le proprie esigenze di trasformazione, nonché l’accettazione di ciò che non può essere modificato. La connotazione è tipica del pensiero immaginifico, del sentirsi internamente liberi malgrado la presenza di forti condizionamenti esterni. Il mito, in sostanza, affonda nelle radici del cuore e si pone come motore del libero fluire dell’immaginazione attiva. Senza di essa Afrodite viene sostituita dall’energia distruttiva dei Titani, ove si consideri la mera visione monoculare del gigante Polifemo sorretto esclusivamente dalla forza del corpo. 

James Hillman – foto tratta da Repubblica.it

J. Hillman constata che nella società moderna i miti si sono perduti e gli dei, sostiene, sono diventati malattie3. Si è perso il rapporto con il sacro, e con esso il senso dell’uomo. Eppure, gli dei non sono scomparsi, sono diventati patologie, giacché abbiamo creduto di liberarcene ma essi sono diventati le nostre patologie. “Cerca il tuo mito e troverai la tua guarigione”. Un tempo l’uomo era immerso nel sacro, ma, allontanandosi dall’invisibile, ha smarrito la propria anima, dimezzandosi. E’ questa in fondo la sua sofferenza, la sua deprivazione. Da qui nasce l’esigenza di una psicologia che faccia “anima”, andando cioè alle radici dell’inconscio: vale a dire “aprire la bocca ai morti”, farli di nuovo parlare, riconnettere l’uomo col mondo del sacro, attingendo agli archetipi, aprendo spazi di comunicazione con l’invisibile che trascende la realtà contingente.

Se nel mito in principio era il Caos, cioè un miscuglio universale e disordinato della materia, o una forma indefinibile e indescrivibile identificata con una divinità capace di generare divinità enigmatiche, cieche e capricciose; nella filosofia di Anassimandro esso prese il nome di “àpeiron”, cioè una quantità infinita e indefinita della materia, “abbracciane” e “governante” il tutto, da cui tutte le cose presero origine: siamo così ad una prima spiegazione naturalistica come prima elaborazione filosofica del mito, più sistematica delle precedenti tipiche dei presocratici. Nasce da qui l’attenzione ai dati dell’esperienza in un processo di continuità e discontinuità nel contempo: “Comincia, così,” – commenta Vincenzo Guzzo – “a definirsi la comprensibilità di passaggio dal “mythos” al “logos”, dal pensiero mitico a quello razionale4.  Le sue riflessioni in merito ad una possibile contrapposizione sono puntuali. La coppia mitologia-scienza è troppo spesso presentata come opposizione di errore e di verità e questo è un limitare la stessa razionalità che, ridotta all’esattezza della dimostrazione, si preclude il vastissimo campo della comunicazione immaginifica cui è collegata la storia simbolica di ciascuno. Indubbiamente, le funzioni del mito e della scienza sono diverse. E’ stato scritto che il primo è “materno” e racconta ciò che è stato; invece l’inquieto Logos è “paterno”, la cui tensione è orientata al futuro5. Eppure, anche il mito possiede una sua razionalità: ha le sue verità anche se sfuggono a una lucida chiarificazione per la natura ambigua dei simboli in esso racchiusi6. “Il mito”, ha scritto Vernant, “mette dunque in gioco un tipo di logica che si può chiamare, per contrasto con la logica di non contraddizione dei filosofi, una logica dell’ambiguo, dell’equivoco, della polarità7”. Abbraccia perciò narrazioni che affascinano l’uditorio, parlano di cose essenziali attinenti alle verità pi profonde dell’esistenza e presentano personaggi le cui avventure si svolgono in un altro tempo: “su un altro piano e secondo un modo d’essere diverso da quello della vita comune8”.

Roberto Calasso – foto tratta da Il Libraio.it

“Queste cose non avvennero mai, ma sono sempre” è la massima di Salustio utilizzata come epigrafe  da R. Calasso nel suo splendido testo letterario9, dove egli senza spiegare racconta anche miti che mai sono stati ascoltati. Sapientemente sfoglia le plurime pagine della mitologia e mostra scenari suggestivi di quando uomini e dei erano in stretto contatto, come l’ultima volta fecero in occasione delle nozze di Cadmo e Armonia. Egli valorizza così il pensiero immaginifico, gettando in una sorta di ebbrezza che nutre il polimorfismo della psiche, il suo carattere onirico che, pur sfuggendo alla verificabilità fenomenica, vive plasticamente in noi in una serie continua di visioni, di cui la pittura, a partire dal Quattrocento in Italia, si è fatta interprete. Nel congedarsi Cadmo, il fenicio, è ben consapevole che il dono da lui portato alla Grecia, l’alfabeto, avrebbe rimpicciolito la presenza piena degli dèi nella sorte degli uomini. In effetti, fu la scrittura a dare al discorso un ordinamento più rigorosamente concettuale e a opporsi alla parola del mito. I Greci stessi ne furono coscienti: “alla seduzione che deve provocare la parola per tenere affascinato l’uditorio essi hanno opposto, spesso per preferirla, la serietà un po’ austera ma più rigorosa dello spirito10”. Ma si può rinunciare al drammatico e al meraviglioso, nonché alla partecipazione emotiva? Ha senso la distanza tra il mito e il Lógos senza opportunità di comunicazione? E’ davvero impossibile il dialogo? A questi interrogativi sono state fornite diverse risposte la cui analisi esula dallo scopo di questo libro. Si deve a Schelling l’affermazione del mito come “tautogoria”: egli si riferisce, respingendo la concezione allegorica, a una “mitologia della ragione” che attiva l’interdipendenza di sapere e vita a partire da un impulso psichico e necessario. Poiché la cultura concorre con ogni linguaggio di varie e molteplici manifestazioni del sapere che fanno luce sulla condizione umana, l’esigenza dell’unitarietà è insopprimibile. L’energia psichica è per Jung “attività immaginativa” che egli nutrì con sogni, visioni, fantasie e specificamente con lo studio della mitologia: “lavorare sulla mitologia lo entusiasmava fino a stordirlo11” ed egli distingueva il “pensare indirizzato”, logico e verbale, e il “fantasticare”, passivo, associativo e immaginifico: “la facoltà del pensiero indirizzato, estranea allo spirito degli antichi, è una tipica acquisizione moderna, mentre il pensiero fantastico si afferma là dove il primo non ha corso12”. In sostanza, si era reso conto, afferma il famoso prefatore, di che cosa significasse vivere senza un mito: “chi è privo di un mito è un uomo che non ha radici, senza un vero rapporto con il passato, con la vita degli antenati (…) e con la società umana del suo tempo13”. L’avevano compreso gli gnostici per quali il mito era un messaggio esterno che risveglia il messaggio interno iscritto nell’anima: non sorgeva, pertanto, da un’incapacità di produrre un discorso razionale, ma era l’espressione più efficace per avere scintille di conoscenza su ciò che travalica la ragione14.

Abbiamo capito che a favore dell’esperienza umana totale le due realtà non sono incompatibili e possono stare insieme come convivono in Kant la “Critica della ragion pura” e la “Critica della ragion pratica”. Penso alle suggestioni, quanto mai singolari, dei miti sul problema del male (dal vaso di Pandora15 alle inquiete visioni del peccato originale); e mi apre a comunicazioni sottili l’arcaico schema del dio che soffre-muore-risorge (Osiride, Dumuzi-Tammuz, Purusha, Dioniso, Cristo). Disponiamo di due risorse immense: l’intuizione e il discorso. Non è sensato una scelta che escluda l’una per privilegiare l’altra. Occorre piuttosto costruire ponti per connettere e non per separare in analogia alla connessione tra l’emisfero destro e quello sinistro del cervello: ognuna delle due funzioni assolve a specifiche funzioni ed entrambi concorrono a interpretare la realtà in modo più compiuto. “Da secoli”, ha scritto Calasso, “si parla dei miti greci come se fossero qualcosa da ritrovare, da risvegliare. In verità sono quelle favole che aspettano ancora di risvegliarci ed essere viste, come un albero davanti all’occhio che si riapre16”. Se il mito accoglie la suggestione, l’incanto dei simboli, non cercando catene di causa ed effetto, il logos si nutre di ragionamenti e dimostrazioni in modo preciso e rigoroso. Solo attraverso l’unificazione della psiche è possibile giungere alla creatività, a elementi fondativi nella vita, al ricollegamento con il divino, al recupero delle proprie radici atemporali. Il mito è rappresentazione di simboli. A dirla con Calasso, quella stoffa, dentro il mondo, come dentro la nostra mente, continua a tessersi. Se è vero che la scrittura ha affievolito il legame tra il divino e l’umano, lo stesso studioso, tornando in argomento nell’opera La letteratura e gli dei (2001), affermerà che gli dei continuano a vivere nei libri. In realtà, il mito, la sua “sapienza romanzesca”, è uno strumento di ermeneutica metafisica. Sia mito che scienza vanno perciò considerati come complementarietà in uno scambio che arricchisce e integra più prospettive, tenendo distanti da uno scientismo assolutizzante e da una inventività di tipo irrazionale.

Accortamente, Guzzo chiarisce: 

“D’altra parte il pensiero mitico, senza il logos, può offrire il fianco alle infinite insidie dell’esistenza perché non dispone della capacità ordinatoria che può consentire alla coscienza di vincere il panico e di gestire il quotidiano venendo fuori dall’indistinto che è proprio della pre-esistente dimensione del chàos17”. 

Vorrei ora concludere, citando un pensiero di Ferdinando Testa, insigne analista e studioso accurato de Il libro rosso di Jung, che pone in evidenza il tramonto dell’attuale periodo storico, rinunciatario dell’evoluzione della coscienza attraverso il mito:

“Il simbolo, nel mito di Demetra-kore, è stato reciso, addormentato e coperto dal manto di neve in una terra fredda e sterile; Demetra, la madre terra, è adirata e a lutto perché la sua parte giovane e verginale, Kore, è stata rapita ed il sopra ha perso i contatti con il sotto: c’è frattura e separazione (…). Il mito, danza mitica per percorrere i sentieri del sacro, non ha più un temenos dove potersi manifestare e la luce di Apollo cerca di penetrare massivamente nelle azioni di Hermes: allora tutto appare, si mostra virtualmente, tradendo la funzione dell’immaginazione che si pone come uno spartiacque bordeline tra il noto e l’ignoto, il visibile e l’invisibile, la parola e il silenzio18”.

Federico Guastella

14 giugno 2018

_____________

Note:

1. V. Guzzo, In principio fu il mito, Tipheret, Acireale-Roma, 2013, p. 91.

2. Nella mitologia greca, Issione era il figlio di Flegias, re dei Lapiti ed ebbe una relazione, che sfociò in matrimonio, con Dia, figlia di Deioneo. Contrariamente ai patti, Issione non fece a Deioneo i doni che gli aveva promesso per le nozze, anzi lo uccise crudelmente, facendolo cadere in una fossa piena di carboni ardenti. Zeus lo perdonò, ma Issione, invitato ad un suo banchetto, cercò di sfruttare l’occasione per concupire Era; accortosene, il dio gli inviò una donna che aveva creato con le sembianze di Era da una nuvola, chiamata Nefele. Issione provò a toccarla e fu colto in flagrante nel tentativo di amplesso. Zeus, irato, lo consegnò ad Hermes perché lo torturasse; il dio messaggero obbedì, legando strettamente il re e flagellandolo senza pietà, fino a quando non avesse ripetuto: “I benefattori devono essere onorati”. Poi lo legò ad una ruota di fuoco che girava senza sosta nel cielo (Variazioni intendono la nascita dei centauri come frutto dell’unione fra Nefele ed Issione). Questo mito Verrà poi ripreso da Schopenhauer nella sua concezione dell’arte come liberazione. Issione è anche protagonista, insieme a Nefele, del primo racconto dei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese, intitolato “La nube” (L’opera comprende ventisette brevissimi racconti, strutturati in forma dialogica, scritti dal dicembre del 1945 al marzo 1947, anno della pubblicazione).

3. J. Hillman, Il lamento dei morti, Bollati Boringhieri, Torino, 2014.

4. V. Guzzo, In Principio fu il mito, op. cit., p. 91.

5. L. Loito, Il mito e la filosofia, Mondadori, Milano, 2003, p. 44.

6. K. Hübner, La verità del mito, Feltrinelli, Milano, 1990.

7. J. P. Vernant, Mito e società nell’antica Grecia, Einaudi, Torino, 1976, p. 250.

8. Ivi, p. 208.

9. R. Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Adelphi, Milano, 1988.

10. J. P. Vernant, Mito e società nell’antica Grecia, op. cit., pp. 195-196.

11. Sonu Shamdasani, Introduzione al Libro Rosso di C. G. Jung (Bollati Boringhieri, Torino, ediz. studio, 2009, p. XXXVI).

12. Ivi, p. XXXVII.

13. Ivi, p. XXXVIII.

14. Il canto della perla. Acta Thomae 108-113, a cura di Carlo Angelino, Il melangolo, Genova, 1987.

15. Sia nella “Teogonia” che ne “Le opere e i giorni”, Esiodo parla del furto del fuoco, offrendo due versioni che s’intrecciano l’una con l’altra. L’analisi formale di Vernant su tre livelli è quanto mai illuminante (in Mito e società nell’antica Grecia, op. cit., pp. 173-191). Ma atteniamoci al fatto in sé. Dopo che fu ingannato da Prometeo, trafugando il fuoco, Zeus premeditò un male: la donna, destinata esclusivamente agli uomini, un dono-tranello come segno della loro condizione infelice, plasmata per la celebrazione delle nozze. Con lei, beni e mali furono inscindibilmente uniti. Prima d’allora gli uomini ignoravano la sofferenza. Questo dono, da parte di tutti gli dèi, malefico e seduttore è chiamato “Pandora”. E’ Ermes a condurla fino a casa di Epimeteo, fratello di Prometeo. Questi l’aveva avvisato di non accettare mai un dono di Zeus, ma di rifiutarlo e rimandarlo indietro, e lei porta con sé un vaso regalatole dal re olimpico, che le aveva ordinato di lasciare sempre chiuso. Ecco, allora fronteggiarsi due aspetti della condizione umana: la sottile astuzia e l’impulsività che provoca errori. Malgrado le raccomandazioni, Epimeteo accetta il regalo ed è Pandora, spinta dalla curiosità, a sollevare il coperchio della giara. Dopo l’apertura, tutti i mali si riversano fra gli uomini. Mali invisibili e muti, imprevedibili e perciò inevitabili. Senza la possibilità di prevedere quel che accadrà domani, c’è per posto per la speranza, Elpís, che rimase chiusa nel ventre della giara finché Pandora l’aprì nuovamente per farla uscire. La speranza: illusione, consolazione che fa sopportare l’ambiguità della vita.

16. R. Calasso, Le nozze di Cadmo e armonia, Adelphi, Milano, op. cit., p. 315.

17. V. Guzzo, In Principio fu il mito, op. cit., p. 91.

18. F. Testa, I volti dell’immaginazione, “Hiram” 4/2013.

Il volume “IL MITO E IL VELO” è disponibile presso le librerie Paolino e Flaccavento di Ragusa.  Per l’acquisto on-line sul sito di Amazon  oppure Ibs.it

Home Page

“Il vento delle parole” di Ferdinando Testa – recensione

di Federico Guastella

«Il vento delle parole» è il titolo del libro di Ferdinando Testa, pubblicato da IOD edizioni (Casalnuovo di Napoli, 2017). Le sessanta pagine, divise in quattro capitoletti preceduti da una introduzione, risultano di godibile lettura e conducono lungo un percorso sulla specificità della poesia.
Le epigrafi scelte sono abbastanza significative e già danno il filo d’Arianna cui aggrapparsi per potere entrare e uscire in modo agevole dai meandri del labirinto in cui convivono il terribile e il sublime.

«La poesia aggiunge vita alla vita» dice un aforisma di Mario Luzi che, quasi in modo scultoreo, apre il varco ad una poesia che, pur non consolando, ha un ruolo trascendente in una prospettiva futurocentrica. Il soggetto è uno sguardo da dove può con stupore cogliere il fascino dell’altrove che nasce dall’eros entro una dialettica di desiderio e di superamento del limite che aspira all’unione di aree della mente individuale e collettiva: il conscio e l’inconscio, l’onirico e il reale, il visibile e l’invisibile:

“La parola poetica fende lo spazio della coscienza, apre dei solchi della madre terra, della realtà materiale e solleva l’Io verso dimensioni / Altre, nuove forme del vedere che portano ad oltrepassare i confini del noto, per bussare alla porta dell’ignoto, dell’irrazionale, di tutto ciò che invece deve ancora venire, ma che è già in nuce nel regno dei morti, l’inconscio.”

Nell’intreccio di mito e di poesia che agisce nella psiche, si può allora scorgere la bellezza di Afrodite con tutto ciò che incarna e simbolizza. Lei emana dall’incanto dello sguardo, assale l’anima, attiva il circuito dell’amore e dell’immaginazione, coinvolge la sfera del sensibile come risposta alla presenza nel mondo non disgiunta dal calore di metafore corporee. Da tali coordinate muove il recupero dell’Anima mundi che appare ferita nella sua immaginazione:

“Parlare di Afrodite vuol dire fare danzare l’Anima nei giardini della bellezza, in cerca di immagini che nutrono la necessità dell’incontro dell’incontro con Eros (…). Allora la bellezza, che ispira Afrodite, affonda il suo sguardo nella percezione di ciò che è visibile, privilegiando la presenza dei suoni, la fragranza degli odori, le sfumature dei colori, la delicatezza dei sapori.”

Sicché, la risposta estetica all’esistenza toccando il dolore, lenisce paure e angosce nel ritmo di emozioni impregnate di metafore pulsanti. Non c’è scampo per chi è preso da Afrodite. Costui mette a nudo l’Anima, manifestandola.
In tale cornice, la bellezza afroditica è «energia libidica» cui niente può opporsi, ed ecco che il poeta attinge a modalità e stili sfuggenti alla dimensione razionale per avventurarsi nel caleidoscopio di sogni e di simboli.

Leggendo questo libro, il cui impianto è sostenuto da preziose e documentate citazioni, ci si sente coinvolti da una singolare scrittura per metafore, mentre alchemica è la prospettiva che consente a Ferdinando Testa di guardare ai processi di trasformazione della personalità tra i due poli della materia e della psiche, della relazione e dell’immagine. Specificatamente, facendo interagire la poesia con le sue sapienziali esperienze di psicoterapeuta, introduce alla creatività come capacità emozionale di essere in un contesto di sensorialità grazie alla quale può gustarsi ogni presenza che si trova nell’essere al mondo.
Una delle riflessioni che pone è come stabilire una relazione tra terapeuta e paziente in cui è deficitario il rapporto con la realtà. Prende allora corpo la funzione di condivisione della parola poetica nella psicosi ed è tra relazione terapeutica e creatività che si celebra il farsi dell’Anima:

“Afrodite, come la poesia, apre all’attività immaginativa, getta i semi nel terreno freddo, gelido e gioioso dell’esistenza umana e dipinge la tragicità dell’evento con l’anelito alla totalità dell’assoluto, all’invisibile come motore dell’universo: l’imago dei.”

Come a dire che le parole poetiche, veicolate dal vento che viene da lontano, sottraggono all’effimero, restituiscono all’immaginazione la possibilità di ritrovare la scintilla divina e salvare il mondo.

Federico Guastella

Nota: la recensione è tratta dal sito Sololibri.net, su autorizzazione dell’Autore.

giugno 2018        

Home Page

Riflessioni (sulla vita…e sul buddismo), di Cosimo Alberto Russo

Si pensa che la vita abbia avuto inizio con la nascita di organismi monocellulari, come e perché non si sa. Questi organismi, con il passare degli anni (secoli e millenni), hanno dato luogo alla formazione di organismi pluricellulari, formati cioè dall’aggregazione di più cellule in un unico organismo più o meno complesso.

Cellula – Immagine tratta dal sito MeteoWeb

Si è avuto quindi l’inizio del lungo percorso evolutivo di piante e animali fino alla situazione attuale; ma ogni organismo pluricellulare (umani compresi) non è altro che l’aggregazione di miliardi di cellule connesse tra loro in modo molto elaborato.

Non è mia intenzione illustrare gli organismi viventi e le loro interazioni, mi interessa esporre alcune riflessioni estremamente personali che magari possono risultare interessanti per qualcuno.

Intanto va precisato cosa si intende per essere vivente: è qualcosa in grado di riprodursi autonomamente. Finora l’unico essere vivente che conosciamo è la cellula.

Infatti piante ed animali non sono altro che cellule aggregate che si riproducono formando altre cellule aggregate.

Queste cellule, sin dalla loro origine monocellulare, hanno come fine (almeno così appare) espandersi con la riproduzione e quindi aumentare di numero in modo esponenziale. Per far ciò hanno necessità di nutrirsi continuamente, e per questo non possono fare altro che divorarsi l’un l’altra, riproducendosi nel frattempo in maniera frenetica.

La vita non è altro, quindi, che un ribollire di cellule che si divorano e si riproducono forsennatamente.

Non è una descrizione particolarmente consolatoria e appagante, ma così è.

Possiamo pensare ad un osservatore nello spazio che vede il pianeta Terra; da lontano sembra un pianeta privo di vita, ma via via che l’osservatore si avvicina inizia a distinguere la presenza di animali e piante; più si avvicina, più vede la diversità biologica delle varie specie presenti, ma continuando ad osservare da vicino, fino ad entrare all’interno dei singoli corpi, scopre che tutti sono costituiti di cellule. Andando ancora più a fondo nello studio si accorge che le cellule non sono altro che un insieme di atomi (in massima parte atomi di carbonio e idrogeno) e poi ancora più in dettaglio particelle più piccole (protoni, neutroni, elettroni).

Ma andando ancora più vicino vedrà che anche alcune di queste particelle sono costituite da particelle ancora più piccole (quark) e, proseguendo, si renderà conto che in realtà non ci sono altro che quanti di energia (campi quantistici) che si esprimono sotto forma di particelle.

Ma rimanendo a livello delle cellule…questa visione, a suo modo terribile e quindi inaccettabile ai più, si può collegare al “primo giro della ruota del dharma” di Gautama (Siddharta, il Buddha della nostra epoca).

Siddharta, il Buddha -dal sito: Prashantpandyanet.wordpress

Il primo giro della ruota del dharma non è altro che il primo discorso tenuto da Gautama dopo “l’illuminazione”.In questo discorso il Buddha espose le “quattro Nobili Verità”:

 

  1. La vita è sofferenza
  2. L’origine della sofferenza è l’individuo (l’ego, l’io)
  3. Il superamento della sofferenza si ha con la fine dell’io
  4. La via per arrivare a ciò è la meditazione

La prima Nobile Verità mi sembra perfettamente comprensibile alla luce della visione della vita su esposta: cellule che si divorano e si moltiplicano.

Come si può superare la sofferenza se non uscendo da questo ciclo terribile di cannibalismo e riproduzione? Non c’è altra via!

Questo ciclo dell’esistenza è l’oceano del “samsara” senza fine, dove, anche morendo, si è subito cibo di altre cellule che daranno vita a nuovi organismi.

Il Buddha capì tutto questo e capì (dopo anni di meditazione e tentativi vani) che l’unica via per la “liberazione” è uscire definitivamente dalla vita: trasformarsi in pura energia! Nel buddismo tibetano si dice “realizzare il corpo di luce”, in fisica quantistica si potrebbe dire “dissolversi in quanti di luce”, tornare, cioè, alla vera natura dell’esistente: quanti di energia e campi quantistici.

Per far ciò bisogna iniziare a superare l’illusione (nell’induismo espressa con il termine maya) che gli organismi viventi esistano come singole entità; abbiamo visto già che non è così: sono semplici aggregati cellulari, uguali a qualsiasi altro organismo.

Il modo per arrivare alla comprensione e quindi alla conoscenza (il buddismo è noto come la via della conoscenza) è meditare.

Realizzare il “corpo di luce”…è un altro discorso.

Cosimo Alberto Russo

27 maggio 2018

“Ritmi” – Poesie di Federico Guastella

Siamo lieti di pubblicare due delle poesie dello scrittore e poeta Federico Guastella, appena pubblicate dall’editore  Libreria Editrice Urso di Avola (SR), per gentile concessione dell’Autore.

“Ritmi” di Federico Guastella, ed. Libreria Editrice Urso, Avola (SR), 2018

“Le poesie di Federico Guastella mostrano uno sguardo trasognato che s’apre a visioni suggestive quasi sempre di passione, di ardore, di attese e di scoperte. Continuo e instancabile è l’approccio che il poeta ha con l’Amore, vissuto ance in una dimensione ultra terrena fino a risolversi nell’infinito. (…). Non mancano venature di malinconia, ma è la gaiezza l’essenza dei componimenti di questa raccolta con cui l’Autore mostra la sua umanità aperta ai valori della speranza e della bellezza.” (tratto dalla Premessa).

 

Reti di anime

La notte soffia mistero fra le stelle, e ne stupisco.

Mistero d’inquietudine,

inquietudine di meraviglia.

Occhi lucenti scrutano distanze

da questa cerchia di monti.

Il sogno trafigge la stanca clessidra:

presagio di luce o cifra del nulla?

Mi sfugge il senso,

e sento che il desiderio cerca

reti d’anime in questi nostri

deserti di pietra.

Sorrido!

E ora è così grande quiete:

rinasce l’incontro

e umido, umido d’amore.

 

Mito

Mi piace guardare il sole

quando lento s’innalza

sull’orizzonte.

Incantesimo… E risuonano in me

i silenzi lungo i pendii dei colli.

Mi accoccolo entro il dono della luce.

Avanza sorridendo;

pettina la terra mentre le chiome

degli alberi luccicano di miele

da prendere in cucchiai d’argento.

Dimentico le prossime amarezze

e mi lascio accarezzare dal mistero

dell’alba.

Divento sogno e scivolo, estraniato,

oltre le colonne d’Ercole.

Sfioro con un soffio la vita non vissuta,

vibro con ciò che non è mai stato mio

e addolcisco la caffettiera che gorgoglia

con visioni rimaste senza storia.

Le porto in me: cristalli fantasiosi

di tante vite e di molti volti.

Il resto è sorte che scorre.

 

Federico Guastella

Marzo 2018

Federico Guastella

 

 

 

 

 

 

 

 

Ulteriori informazioni sull’Autore alla seguente pagina: Chi siamo?

 

Home Page

 

 

 

 

 

 

Dal volume “Il Mito e il Velo” di Federico Guastella – Terza Parte

Lévi-Strauss ne Il crudo e il cotto1  ha scritto:

“I miti non hanno autori: dal momento che sono percepiti come miti, qualunque sia la loro origine reale, non esistono se non incarnati in una tradizione. Quando un mito viene raccontato, gli uditori individuali ricevono un messaggio che non viene, propriamente, da nessuna parte; uesta è la ragione per cui gli si assegna un’origine sovrannaturale”.

Eliade, che ha insistito nei suoi scritti sull’origine sacrale del mito, ha dato risalto al motivo del perfezionamento individuale e collettivo:

“I miti descrivono le diverse, e talvolta drammatiche, irruzioni del sacro (o del «soprannaturale») nel Mondo. E’ questa irruzione del sacro che fonda realmente il mondo e che lo fa come è oggi. Anzi: in seguito agli interventi degli Esseri Soprannaturali l’uomo è quello che è oggi: un essere mortale, sessuato e culturale (…). I miti rivelano che il Mondo, l’Uomo e la Vita hanno un origine e una storia soprannaturale e che questa storia è significativa, preziosa ed esemplare2“.

L’animo ha bisogno di narrazioni che educano la mente, facendo scorrere fluidi psichici3. Il mito,  raccontando il mondo, è perciò luce che proviene dall’energia di “Estia”, dea dell’essenza delle cose secondo la lettura del nome fatta da Platone nel Cratilo e dal pitagorico Filolao, per il quale l’Uno che si trova in mezzo alla sfera è chiamato Estia. Essendo anche la dea dell’intimità e dell’interiorità, lei dona immagini e mette in moto l’impulso ad agire con il gusto della lentezza come nel movimento della spirale. Rinnova l’energia trasformativa, ampliando gli orizzonti a nuove prospettive. 

A quel tempo splendeva il Temenos di Eros, il divino e l’umano, comunicando, si compenetravano e quelli che Jung chiama “Archetipi dell’inconscio collettivo”, regolatori del rapporto tra microcosmo e macrocosmo, non erano stati ancora messi a tacere dalla banalità e dalla fretta, da fastidiosi rumori e da un esasperato razionalismo dell’utile economico che ha sacrificato l’immaginazione del pensiero mitico. C’è una memoria non personale in noi dove si situa il mito che tende a ripresentarsi nelle diverse culture: si potrebbe ad esempio fare riferimento al tema del confronto del bene e del male, a quello degli eroi, oppure ai vari racconti dell’arroganza e dell’orgoglio puniti come nell’episodio vetero-testamentale della torre di Babele. 

Il superamento del senso del limite, i desideri smodati della società esagerata e consumistica sono problemi attualissimi già presenti nel mito greco dei centauri4, portatori di violenze collettive, anche se, e qui sta la dimensione della complessità, alcuni di loro erano stati i portatori della medicina. 

E’ a tutt’oggi  ragionevole il senso del limite? Ovviamente c’è il desiderio e c’è anche una norma, ed entrambi devono poter coesistere, armonizzandosi nella giusta misura che era l’ideale di vita dei greci. Gli psicologi parlano di capacità di contenimento delle frustrazioni. Ci si potrebbe anche riferire alla prudenza dell’agire e alla rinuncia di volere tutto ad ogni costo, oppure agli esiti di un pragmatismo esasperato che viola gli equilibri ecologici. Il soddisfacimento è il più delle volte immediato e aggressivo; non tollera norme e le azioni sono selvatiche, liberando impulsi fine a se stessi. Legato a uno sfogo, esso sconosce ogni sorta di inibizione e di pudore, mentre cede all’esibizione narcisistica e lesiva.

E’ chiaro che l’andare oltre il limite senza dubbio è soddisfare la sete d’infinito, è trascendersi per perfezionarsi. Ma è la volontà di potenza, la razionalità illimitata come dominio incontrastato ad essere controllata nel mito di Prometeo5: egli certamente viene punito per avere rubato agli dèi il fuoco della conoscenza, e tutto questo dovrebbe intendersi come monito a non superare alcuni precisi limiti, la cui violazione comporta distruzioni inarrestabili. Se il mito ha incatenato Prometeo, da noi è stato scatenato, volendo ignorare che non è la tecnica a incutere timore, ma ciò che di male essa potrebbe fare.  

Anche Sisifo è punito per la sua malafede e per i continui imbrogli tramati per il suo esclusivo vantaggio funzionale all’estensione del suo dominio6. 

Sisifo – dipinto di Tiziano Vecellio, 1584 ca.

La lettura mandata avanti da Camus è invece riabilitativa del personaggio, e questo conferma che un mito va interpretato da diverse ottiche, sfuggendo a schemi ermeneutici rigidi e precostituiti. Spingere verso l’alto la pietra e vederla ogni volta ricadere, mostrando l’inutilità dei suoi sforzi, è il supplizio più atroce. Difficile immaginare una situazione più angosciante. Ma seguendo l’intuizione di Camus, si può arrivare alla conclusione opposta: è nell’attimo disperante della sua fatica, scrive Camus, che con vigore si manifesta la presa di coscienza; l’eroe tragico è cosciente della pena inflittagli ed è consapevole della passione per la vita che l’ha indotto a contraddire gli dèi. Pertanto, ricordare Sisifo è come ammirarne la forza d’animo, l’inesauribile speranza di riuscire a vincere la propria sorte. Ogni volta il suo sforzo è accompagnato da una coscienza di sé sempre più forte. Per Camus Sisifo insegna la fedeltà superiore che nega gli Dei e solleva i macigni. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.  La sua risposta di fronte all’assurdo è la non-rassegnazione, anzi la rivolta contro l’insensatezza del mondo. L’uomo può e deve avere il coraggio di reagire, levando alta la sua voce, la sua protesta, la sua prospettiva di senso per affermare l’autonomia, il valore e la dignità della rivolta7. 

Il mito di Narciso (dipinto del Caravaggio)

Attualissimo, peraltro, il mito di Narciso per l’ossessiva  considerazione dell’ “ego” . Non è  forse vero che l’attuale contesto è inondato di immagini che corrispondono maggiormente alle idealizzazioni, scartando quelle della quotidianità che non  suscitano intense emozioni? La visione distorta della realtà è sempre in agguato, provocando quei disturbi di personalità indagati da Freud che parò di narcisismo primario e secondario.  La fisionomia del narcisista è ormai nota: non avendo egli un’adeguata stima di sé,  si sente confermato e rassicurato non tanto da autentiche relazioni affettive, ma dall’ammirazione che egli può trarne. Chi fu in effetti Narciso? Egli è personaggio mitologico di cui esistono diverse varianti in cui appare giovane superbo e bellissimo: soprattutto crudele, in quanto disdegnava ogni persona che l’amava. Vediamone alcuni dettagli. Il mito greco narra che aveva molti innamorati,  costantemente da lui respinti fino a farli desistere. Solo un giovane ragazzo, Aminia, non si dava per vinto, tanto che Narciso gli donò una spada perché si uccidesse. Aminia, obbedendo al suo volere, si trafisse l’addome, avendo prima invocato gli dei per ottenere una giusta vendetta. Sicché, condannato dagli dèi ad essere innamorato di se stesso, Narciso trascorreva la propria vita ad ammirare la sua stessa immagine riflessa in uno specchio d’acqua. Preso dalla disperazione e sopraffatto dal pentimento, prese la spada che aveva donato ad Aminia e si uccise trafiggendosi il petto. Dalla terra sulla quale fu versato il suo sangue, si dice che spuntò per la prima volta l’omonimo fiore. Di bel altro effetto il pathos nel racconto di Ovidio, probabilmente basato sulla versione di Partenio. Quando Narciso raggiunse il sedicesimo anno di età, era un giovane di tale bellezza che ogni abitante della città, uomo o donna, giovane o vecchio, si innamorava di lui. Egli, orgogliosamente, li respingeva tutti. Un giorno, mentre era a caccia di cervi, la ninfa Eco furtivamente lo seguì tra i boschi fino a quando gli si mostrò, abbracciandolo. Narciso l’allontanò immediatamente in malo modo. Eco, con il cuore infranto, trascorse il resto della sua vita in valli solitarie, gemendo per il suo amore non corrisposto: di lei rimase solo la voce. Nemesi, ascoltando i suoi lamenti, decise di punire  Narciso. Mentre era nel bosco, egli si imbatté in una pozza profonda. Appena vide per la prima volta la sua immagine riflessa, se ne innamorò perdutamente senza rendersi in un primo momento conto che fosse lui stesso. Comprendendo poi che non avrebbe mai potuto ottenere quell’amore, si lasciò morire, struggendosi inutilmente. Quando le Naiadi e le Driadi vollero prendere il suo corpo per collocarlo sul rogo funebre, al suo posto trovarono un fiore a cui fu dato il nome narciso.  Si potrebbe ora sintetizzare dicendo che egli, innamorato di se stesso, finì per rimanere prigioniero della propria immagine, struggendosi dell’impossibilità di possederla.

Federico Guastella

Ragusa, 25 aprile 2018

Note:

  1. C. Lévi-Strauss, Mitologica I. Il crudo e il cotto, 1966.
  2. M. Eliade, Mito e realtà, Traduttore: G. Cantoni, Editore Borla, 1993.
  3. Marcello Veneziani nel volume “Alla luce del mito” (Marsilio, 2017), affrontando l’argomento in una circolarità ermeneutica tra miti classici e problematiche contemporanee, volge attenzione al mito come ad un “bisogno dell’anima”. Egli scrive che esso “non è un pensiero fondato sul calcolo e sul tornaconto, non è pensiero utile e conveniente, ma gratuito, essenziale, rivolto al bello, radicato nella tradizione, nella ripetizione e nel rito ma aperto all’inaudito, all’eccezionale, al miracoloso, mirato all’Essere, di cui il divenire è una vicenda interna”. L’uomo del post-moderno può scorgervi la bellezza di una verità altra rispetto alle inadeguatezze e agli scetticismi del vivere quotidiano, può ritrovarvi opportune chiavi di lettura sul mondo soggettivo e oggettivo e può ampliare gli orizzonti di vita, dilatando i confini del tempo e dello spazio: “La prima vita è quella che accade anche senza volerlo, la vita spontanea, quotidiana e ordinaria, immersa nel fluire delle cose e dei fatti, che si perde nella vita e poi nella morte. La seconda è la vita che si sporge oltre se stessa fino all’invisibile, la vita che pensa e che sogna; è cosciente di sé, ha una visione, coglie un disegno e si protende oltre la morte. Una si spande nel mondo e si spende nel tempo, l’altra cura di mettere in salvo. Le due vite scorrono quasi parallele ma talvolta, come accade negli scambi ai binari, s’intrecciano, stridono e perfino si urtano. Una può dirsi ‘la vita piccola’, l’altra ‘la vita grande’. La prima ha limitati orizzonti, rinchiusa nella gabbia dei giorni e dell’ego. La seconda è la vita del mito e del pensar grande”. In sostanza, l’uomo ha bisogno di grandi narrazioni che coinvolgano la sua sfera simbolico-immaginativa, perché torni a riflettere sulle grandi domande dell’esistenza: da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo. E’ questo lo scenario dell’immagine d’una verità radicata nella psiche: ripensare al mito equivale attrezzarsi di interpretazioni ricostruttive della smarrita dimensione umanistica: “Il pensiero mitico non è poi astratto ma intriso nel mondo, è un geo-pensiero che occhieggia nei luoghi e riconosce il genius loci. Il pensiero mitico si esprime quindi con la parola che si traduce in immagine e in metafora, ma non si esaurisce nel linguaggio delle parole, perché si esprime anche nel silenzio e nel canto, nella musica, nella danza e nel gesto, nel disegno e nella pittura, nel video e negli ologrammi. Il pensiero mitico non si rivolge solo alla mente ma ha come suo destinatario i cuori intelligenti, le anime pensanti, le intelligenze visionarie, cioè capaci di dotare la ragione di occhi lungimiranti. E ancora. Il pensiero mitico non esclude dai suoi orizzonti la fede e la mistica, il miracolo e la magia, il presagio e la profezia, il sentimento e la commozione, il carisma e il simbolo”. Indubbiamente non è un’ancora di salvezza, ma di certo, restituendo vitalità all’immaginazione, apre le porte ai fenomeni interni ed esterni alla Psiche: “il mito non ripara dal pensiero della morte, non offre soluzioni né panacee; può confortare, dona cerimonie d’addio, riti di purificazione e di propiziazione, ma non riesce a dire nulla al di là della soglia. Racconta, esplora, consola, rende concepibile la morte, rasserena il passaggio finale con amor fati, lo inserisce nel flusso perenne di nascite e morti, tramonti e rinascite; insegna che il mondo non nacque con noi e non finirà con noi, siamo solo un punto, un episodio, una vicenda minuta del cosmo. E la morte nostra non è la fine del mondo. Ma nulla può dirci, può darci per sciogliere il mistero. La morte – prosegue l’autore – è la verità da cui non si sfugge e che non si può dire; il mito può dotare di un viatico, un rituale, un abito cònsono per affrontarle ambedue. Ma non trattiene, non risolve l’enigma, non spiega la morte e il destino che segue. Racconta, racconta, ti riempie gli ultimi sguardi di ardite visioni e ti tiene la mano al passaggio …”. Il mito può perciò porsi come antidoto al consumismo dilagante che affievolisce il potere della riflessione, può aiutare a ritrovare il filo, può orientare a nuove rotte e a nuovi approdi: “La via d’uscita, facile a dirsi e ardua a realizzarsi, è restituire i sogni alla notte e la veglia al giorno, ridare il cielo agli dei e la terra agli uomini, ripristinando il duplice bisogno di miti e di realtà che ci rende uomini; collocati però nel loro giusto topos e kairos, mai scambiandoli di posto e di momento”.
  4. Il centauro, creatura della mitologia greca, ha la sembianza di metà uomo fino al basso ventre e metà cavallo. Campioni di tiro con l’arco, avevano la particolarità di esasperare i pregi e i difetti del genere umano: dall’estrema saggezza all’incredibile crudeltà. Costui ha origine dall’amore sacrilego fra il re dei Lapiti, Issione, e una sosia della dea Era, Nefele, dalla cui unione nacque, appunto, questo essere deforme che si accoppiò con le giumente del Monte Pelio ed originò una razza di creature ibride, metà uomini e metà cavalli. I centauri sono sempre dipinti con carattere irascibile, violento, selvaggio, rozzo e brutale, incapaci di reggere il vino. La raffigurazione li presenta armati di clava o di arco, ed essi caricavano i nemici emettendo urla spaventose. La più famosa leggenda che li coinvolge è quella della loro battaglia contro i Lapiti in occasione della festa nuziale di Piritoo: la cosiddetta “Centauromachia”. Invitati ai festeggiamenti ma, non essendo abituati al vino, si ubriacarono, dando sfogo al lato più selvaggio della loro natura. Quando la sposa Ippodamia (“colei che doma i cavalli”) arrivò per accogliere gli ospiti, il centauro Euritione balzò su di lei e tentò di stuprarla. In un attimo anche tutti gli altri centauri si lanciarono addosso alle donne e ai fanciulli. Scoppiò allora una battaglia nella quale anche l’eroe Teseo, amico di Piritoo, intervenne in aiuto dei Lapiti. I centauri furono alla fine sconfitti e scacciati dalla Tessaglia; ad Euritione furono mozzati naso ed orecchie. Alcuni centauri acquisiranno leggende proprie, come il saggio e pedagogo Chirone (colui che usa le mani non per violenza, ma per guarire in qualità di terapeuta; depositario della Tradizione come conoscenza sapienziale), amico di Apollo e dei Dioscuri, e non discendente da Centauro. Questi, maestro di Achille, era infatti figlio della ninfa oceanina Filira e del dio Crono e dovette la sua natura ibrida ad un incidente occorso durante la sua nascita: una maledizione scagliata da Rea, moglie di Crono, al figlio illegittimo del marito secondo Apollonio Rodio e Virgilio, o il suo concepimento per opera di due immortali mutatisi in cavalli: l’una per sfuggire al seduttore e l’altro per meglio inseguire la riottosa amata. Dante colloca i centauri nell’inferno (Canto XII) come custodi-giustizieri dei violenti contro il prossimo, in rapporto diretto con il loro carattere avuto in vita. Nel film “Medea” di Pasolini (1969), i protagonisti della prima scena sono l’infante Giasone e il Centauro Chirone. Così Pasolini: “(Il centauro) è un’immagine onirica relativamente chiara, nella simbolica freudiana: il simbolo del blocco parentale, padre e madre. Il cavallo raffigura sia il padre che la madre. E’ il simbolo dell’androgino: della potenza paterna e della maternità (nel senso in cui viene intesa la coppia madre-figlio, dato che la madre antica porta il bambino sulla schiena” in P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Mondadori, Milano, 1999, p. 1506).
  5. La fonte del mito di Prometeo è Esiodo (Teogonia, 535-616; Le opere e i giorni, 45-105 ). Il Titano Prometeo (pro-metis, colui che pensa in anticipo, è il preveggente e per questo anche l’astuto). A seguito di precedenti eventi fraudolenti (Egli offre a Zeus una porzione di bue appetitosa, ma immangiabile, mentre dona agli uomini le parti commestibili), che avevano indotto Zeus a rifiutare il fuoco agli uomini i quali già liberamente ne disponevano (“Zeus non dava più il fuoco” o “Zeus nascose il fuoco”), aveva astutamente sottratto un seme di fuoco agli dei (la “techne”, il potere della conoscenza, il simbolo della cultura, un processo intellettuale che differenzia gli uomini dalle bestie e ne consacra il carattere di creature civilizzate), portandolo sulla terra nascosto in una canna. Voleva donarlo all’umanità perché potesse progredire. Zeus, geloso e restio a metterlo in comune con gli uomini, si adira per l’inganno a suo danno e gli infligge il castigo: lo condanna a essere legato giorno e notte ad una rupe dove un’aquila gli rode il fegato che perennemente gli ricresce. Ecco la scena descritta dalle parole stesse di Esiodo: “Legò Prometeo dai vari pensieri con inestricabili lacci, / con legami dolorosi, che a mezzo di una colonna poi avvolse, / e sopra gli avventò un’aquila, ampia d’ali che il fegato / gli mangiasse immortale, che ricresceva altrettanto / la notte quanto nel giorno gli aveva mangiato l’uccello dalle grandi ali”. Così colui che aveva consegnato agli uomini una ineguagliabile fonte di energia, diventa il nutrimento dell’aquila di Zeus, l’uccello che, portando il fulmine del dio, è messaggero della sua forza invincibile. Tutti i giorni l’aquila di Zeus divora il suo fegato senza lasciarne una sola briciola, poi durante la notte l’organo ricresce, si rigenera affinché l’animale possa trovare, al mattino, il suo pasto intatto. Così sarà fino a quando Eracle, con il consenso di Zeus, libererà Prometeo, che riceverà una sorta di immortalità dalla morte del Centauro Chirone. Era quest’ultimo un eroe saggio e benevolo che aveva insegnato ad Achille e a molti altri eroi ad essere invincibili. Ha così luogo uno scambio. Prometeo, nato mortale, offre a Chirone il suo diritto alla morte e in cambio prende la sua immortalità. Alla fine, Prometeo, che non aveva saputo rimanere nel limite, sfidando l’ordine di Zeus attraverso l’ingegno e il coraggio, riacquista la sua libertà (Jean-Pierre Vernant, L’universo, gli dèi, gli uomini, Einaudi, Torino 2000). Nel Protagora, Platone, raccogliendo le suggestioni di Eschilo, racconta che Prometeo ruba a Efesto e ad Atena sia il fuoco che il sapere tecnico.
  6. Di Tanato si parla nella leggenda di Sisifo, figlio di Enàrete e di Èolo. Il suo identikit è negativo. Con l’astuzia e senza scrupoli, egli è riuscito ad estendere il territorio di Corinto. Tra l’altro, si narra che quando Zeus rapì Ègina, passò da Corinto e fu visto da Sìsifo. Dopo qualche tempo l’Asòpo, che dappertutto cercava la figlia, si presentò a Sìsifo per chiedergli se sapesse qualcosa di lei. Allora Sìsifo, per trarne vantaggi, disse al vecchio dio-fiume che gli avrebbe rivelato chi aveva rapito la figlia se a lui avesse reso il favore di donare una sorgente alla cittadella di Corinto. L’Asòpo acconsentì e fece scaturire la fonte Pirène. Fu così che Sìsifo gli disse il nome del rapitore . Allorché Zeus conobbe l’accaduto, lo fulminò e lo precipitò negli Inferi, dove gli fu imposta la pena di sospingere senza sosta, lungo la ripida erta di un monte dalla cima aguzza, un enorme macigno. Una volta trasportatolo alla sommità, di nuovo rotolava in basso. Sìsifo era costretto a ricominciare l’estenuante fatica. Senza sosta e per l’eternità. Con un tremendo colpo di folgore Zeus colpì anche l’Asòpo per avere osato contrastarlo, costringendolo a rientrare nei suoi argini e a non travalicarli più, sicché il fiume rimase per sempre nel suo alveo. A tutt’oggi, a prova di quella punizione, reca sul fondo tracce di carbone. Secondo un’altra versione, Zeus diede ordine a Tanato di andare a prendere l’infame delatore e di consegnarlo ad Ade per l’opportuno trattamento. L’astuto Sìsifo, che si aspettava qualcosa di spiacevole come conseguenza del suo incauto comportamento, si era però preparato: passando al contrattacco, non appena si vide in pericolo, riuscì a sorprendere il terribile demone e ad incatenarlo. Scansata la morte, Sìsifo continuò a vivere indisturbato. Zeus, vedendo che da qualche tempo sulla terra nessun uomo più moriva, indagò e intervenne personalmente per ristabilire l’ordine naturale delle cose. Una volta scoperto che il fenomeno era da imputarsi a un’altra trovata di Sìsifo, mandò Ares ad imprigionare il temerario. A furia di minacce lo obbligò a rivelare dove teneva nascosto Tanato e a liberarlo. Naturalmente, appena liberato, il diligentissimo demone poté subito ritornare ai suoi compiti. Poiché rimaneva una questione in sospeso con quell’uomo che l’aveva incatenato, scelse proprio lui come sua prima vittima. Sìsifo si era preparato anche a questa evenienza, e prima di essere portato nell’Ade da Tanato, aveva preso a parte la moglie Mèrope, ingiungendole di non rendergli onori funebri e di tenere il segreto su questo suo ordine. Arrivato nell’oltretomba e interrogato da Ade circa il motivo per cui lì non giungeva nella maniera ordinaria, Sìsifo si lagnò a gran voce dell’empietà della sua donna, gemendo e gettandosi per terra, perché la mancanza di una sepoltura gli impediva un degno soggiorno nel regno dei morti. Ade e Persefone, indignati dal comportamento di una simile donna, acconsentirono alla richiesta di Sìsifo di poter ritornare sulla terra a rimproverare e castigare la consorte come meritava appunto per ricordarle i suoi sacrosanti doveri. Naturalmente, una volta risuscitato, Sìsifo si guardò bene dal richiamare e dal punire la sua complice. Tanto meno si diede la pena di ridiscendere agli Inferi. Egli visse fino a tardissima età. Quando poi morì, gli dèi infernali, che ancora lo stavano aspettando, se lo videro riconsegnare da Hermes in persona che raccomandò loro di stare attenti a non lasciarselo sfuggire di nuovo. Per impedirgli altri imbrogli, gli riservarono un trattamento coi fiocchi al fine di evitare un’altra evasione di Sìsifo dal Tartaro: l’occupazione anzidetta, perché non potesse escogitare alcuna opportunità di sottrarsi alla pena per l’eternità.
  7. A. Camus, Il mito di Sisifo. Saggio sull’assurdo (Le mythe de Sisyphe. Essai sur l’absurde, pubblicato da Albert Camus nel 1942 presso Gallimard (Parigi), quando non aveva ancora trent’anni, in nuova edizione con aggiunta del saggio su Kafka nel 1948 e con nuovo confronto critico rispetto al manoscritto nel 1957. In italiano è stato pubblicato per la prima volta nel 1947 dall’Editore Bompiani.

Il volume “Il Mito e il Velo” di Federico Guastella è disponibile presso le librerie Paolino e Flaccavento di Ragusa e può essere acquistato on-line.

 

Home Page     

HÒLOS, poesia inedita di Fabio Strinati

HÒLOS

Agli occhi vi si creano somme di parti,
un colore d’aria che sferza e spira
dove mente e corpo,
sono un tutt’uno col “ comportamento emergente ”.
Integro: indiviso tronco mescolato
che nasce e procrea la sua forma
al microscopio che non varia né sfuma
fra il suolo e i biomi:
intero e tutto figli di una scatola, ( uno scatolone? )
unità – totalità che al ritmo della vita
è vivente come il piccolo pensiero
che nel “ complesso corpo “
si assembla e si trasforma,
nell’infinitamente e perpetuo moto,
quel mutamento ch’è anima “ X ”
e intimamente,
energica ch’è l’evoluzione.

Fabio Strinati

Marzo 2018

 

Spartiti di musica visiva contemporanea

Per contattare l’Autore, scrivere a strinati.fabio@tiscali.it

Home Page

Il Mito – dal volume “Il Mito e il Velo” di Federico Guastella

Le divinità nacquero in un tempo indefinito e con loro gli esseri umani raggiunsero la consapevolezza di una sfera soprannaturale, essendo pervenuti ad un alto grado di civiltà. Agli dèi eressero templi per esprimere l’aspirazione all’Ordine universale e con la recinzione d’uno spazio sacro, considerato un “centro”, o “il cuore del mondo” che fa superare la condizione umana per il recupero di quella divina, divisero l’interno da tutto l’esterno.

Pasolini nel film “Medea” pone in evidenza la ricerca insopprimibile di un centro, l’omphalós, luogo sacro dell’insediamento. Quando gli Argonauti giungono nella spiaggia di Iolco e piantano le loro tende, producono la ribellione di Medea per non avere essi dapprima svolto il rito richiesto dalla Tradizione:

“Questo luogo sprofonderà perché senza sostegno! Aaaah! Non pregate Dio, perché benedica le vostre tende! Non ripetete il primo atto di Dio … Voi non cercate il centro. No! Cercate un albero, un palo, una pietra! Ah.”.

Tempio di Zeus – immagine tratta da http://www.archart.it/olimpia-tempio-di-zeus.html

E’ la stessa etimologia della parola a suggerirne il significato: “Tempio” deriva, infatti, dal latino “Templum”, che in origine, designava il tratto di cielo circoscritto dall’auriga con il lituo, isolandolo idealmente dal resto. La radice “Tem” si ritrova nella lingua greca, dove “Tèmenos” vuol dire recinto sacro e “Tèmno”, tagliare: cioè, separare, dividere. In questo senso, il Tempio è stato forse considerato come una “centrale energetica”, dove aveva luogo la rigenerazione spirituale. Essenziale era circoscrivere uno spazio “sacro” e sentirne la “vibrazione spirituale” allo stesso modo di Anfione il quale col semplice suono della lira eresse le mura possenti della città di Tebe.

Nel Tempio, che spesso sorgeva accanto al Teatro (il sacro nel sacro), si svolgevano culti e riti di purificazione e fu dalla partecipazione esoterica (i riti riservati agli iniziandi) ed essoterica (la fede della popolazione che portava gli “ex-voto” nel periodo delle feste), che si sviluppò la cultura del mito, inteso come “parola”, “discorso”, “racconto”, “narrazione”1. L’intreccio tra Tempio e mito si rende concreto nel prologo dell’ Edipo re a Colono, a cui si accosta Furio Jesi2: Edipo, cieco e mendicante, si trova nel boschetto sacro delle Erinni; appena il coro dei vecchi di Colono vi scorge la sua presenza, senza nemmeno chiedergli chi fosse lo invitano ad uscire. La sfera sacrale non può essere violata dai profani: soltanto l’iniziato può fare il suo ingresso in un’altra sfera in cui è protetto da sguardi indiscreti ciò che può essere colto da tutti.

Forse i miti nacquero per un bisogno di rassicurazione, perché l’uomo potesse ripararsi dall’angoscia del vuoto, dall’oscurità dell’origine e della fine.

Nasceva così il tempo sacro delle cosmogonie come visione d’insieme sulla formazione del cosmo, come svolgimento dal Caos all’ordine3 unitamente ai miti degli dei cui seguiva il ciclo dell’eroe – l’homo novus – per il bisogno di avere figure esemplari in grado di indicare il sentiero dell’affermazione, di provocare l’insorgenza del sentimento della grandezza attraverso la lotta interiore che conduce a un orizzonte di vita superiore. Il mito, quindi, come prova da superare e come ricerca dell’immortalità. Non è forse la ricerca un mezzo insostituibile per tentare di ritrovare ciò che si è perduto? Non ci si mette in cammino quando si vuole approdare al luogo che custodisce il segreto delle origini? Del resto, in tutte le tradizioni si parla di qualcosa che è stata perduta e nascosta: è il Graal che i Cavalieri di Uthere di Arturo

Il Sacro Graal – tratto da http://www.crystalinks.com/

cercano affannosamente; è il vedico Soma, la bevanda di immortalità che in altre forme ritroviamo nei misteri greci; è il mazdeico Haoma; è la pronuncia del gran “Nome” presso gli Ebrei; è la Verità, insomma, della Tradizione iniziatica. Non importa che la divinità risorta si fosse chiamata in altri contesti Rha, Osiride, Attis, Dioniso, Bacco o in qualunque altro modo: il significato è identico e rimane immutato; c’è sempre un Dio che viene ucciso, ma che alla fine risorge. Tutti i personaggi citati, cui a titolo esemplificativo vanno aggiunti Orfeo, Mitra, Cristo, Krishnna, sono riconducibili al ciclo cosmico e vegetativo: cioè, al mito del Sole che scompare e ogni volta rinasce, mentre la Luna, inconsolabile vedova, lo va cercando nella notte stellata. Il mito è così discesa e ascesa, un viaggio in discesa e in salita come insegna il cammino che Dante compie dallo stato di peccamonisità a quello ascetico attraverso la percorribilità dei tre regni. La condizione di beatitudine è una conquista che procede dall’abisso alla luce, dalle apparenze della caverna platonica alle essenze dell’alto e della rinascita.

Campbell ha scritto che l’universo diventava così “un’immagine sacra”. La volta celeste4, luogo privilegiato dell’osservazione, educava e alimentava il bisogno di grandi trasformazioni che conducevano al superamento di prove aventi come tappa finale il ristabilimento dell’equilibrio violato, cioè la conquista di una potenza originaria perduta.

Il mito – si sa – è parola che si fonda sul “Vedere” rispetto al “Logos” che coinvolge il processo razionale. Se il pensiero razionale è per sua natura analitico e discorsivo, quello mitologico o simbolico è sintetico e crea un mondo aperto di significati, rendendo così accessibile al microcosmo l’universale. In quanto essenza dell’universo, è presenza di potenza nella storia, giacché è stato il primo passo illuminante intorno alla rappresentazione del mondo; si può dire che l’uomo pre-filosofico l’abbia concepito come affabulazione sacra relativa a contenuti religiosi coi quali si tenevano legati i membri della comunità. Ciascuno poteva ritrovarsi nelle narrazioni in cui il cielo si congiungeva con la terra. Essi si conoscevano, vi si riconoscevano, dandosi una spiegazione sul mistero dell’esistenza, ovvero sul senso nascosto delle cose. Poi l’arte e le religioni ne veicoleranno i significati grazie anche agli apporti dell’archeologia. Via via che gli archeologi scavavano nelle viscere del passato, ci si poteva trovare a contatto con statue, con disegni, con templi, con lingue che comunicavano le antiche credenze. Il Mito, quindi, che è intreccio di memoria e di parola, racconta eventi sulla formazione del cosmo elaborati attraverso l’intuizione e l’immaginazione. Con esso l’uomo ha narrato se stesso, il proprio dramma, l’anelito che l’attraversa, proiettandosi in una dimensione di eternità. Si potrebbe dire che il complesso dei miti di una determinata civiltà costituisca un vero e proprio libro sacro, l’“ubi consistam”, il punto di riferimento e di stabilità. Le leggende non avevano il carattere della conclusività: venivano dinamicamente accresciute o ridotte. Esse, come gli dèi, viaggiavano da un paese all’altro, da un’epoca all’altra, dando luogo alla rielaborazione sincretica di varie tradizioni.

Il mito è universale, è patrimonio collettivo dei popoli, coinvolge ogni civiltà e ogni epoca. Dal paleolitico al neolitico, dall’induismo al buddismo, dai tibetani agli egiziani, dal mondo iranico a quello ebraico, la mitologia ha da sempre fornito racconti e liturgie. Esso esula dal tempo e dallo spazio, non è inchiodato a una specifica civiltà, anche se in questa sede il discorso viene prevalentemente focalizzato sulle manifestazioni della cultura egizia e greca.

Nella bella presentazione al volume di Robert Graves I miti greci, Umberto Albini scrive:

“Il mito è il bisogno di spiegare la realtà, di superare e risolvere una contraddizione della natura (come nasca il primo uomo, per esempio), il mito è spiegazione di un rito, di un atto formale che corrisponde a esigenze della tribù (l’invocazione della pioggia), il mito è struttura delle credenze di un gruppo, di un etnos (la condanna dell’incesto) ecc. ecc. Ma, come dice la parola, il mito è innanzitutto un racconto; c’è una storia da presentare, che ha lati terribili, ma anche spesso risvolti patetici, ci sono dei personaggi in azione, una trama che si snoda5”.

I miti potrebbero essere pensati come storie sacre che diedero origine ai riti e alla drammaturgia: essi infatti rifluivano nelle tragedie e si concretizzavano nello spazio teatrale, dando agli spettatori, che già li conoscevano, l’opportunità d’una partecipazione più intensa. Così come può essere fondativo di un rito, un rito stesso può generare un ciclo mitologico e letterario6.

“Misterico” è parola che proviene dall’Ellade antica e designa quegli aspetti della “pòlis” indicanti segreti religiosi. Il termine sarebbe collegato con quello di “meyn”, che significa “chiudere la bocca”, ovvero “mantenere il segreto”, dato che il mito confluiva in particolari riti d’entrata in manifestazioni sapienziali, estranee alle credenze comuni. Senza lo psico-dramma, il mito avrebbe perso la sua essenza; senza poterlo rivivere in un cerimoniale in cui gli adepti sono attori e protagonisti ad un tempo, si sarebbe ridotto a favola che, per quanto educativa, è basata soltanto sull’ascolto senza essere rivissuta e partecipata.

Federico Guastella

Ragusa, marzo 2018

_____________

  1. M. Bettini, Racconti romani “che sono lili’u”, in L. Ferro e M. Monteleone, Miti romani, Torino, 2010, pp. V-XXIX.
  2. F. Jesi, Mito, Isedi, Milano, 1973.
  3. L’architettura del cosmo, probabilmente elaborata dai discepoli di Orfeo, fa esplicito riferimento all’uovo cosmico. Suggestivo è il mito secondo cui la “Notte” profonda, come assenza di luce e di limiti, senza fecondazione produsse un Uovo d’argento, primordiale, da cui nacque Eros “colmo di desiderio”: aveva ali che stillavano oro ed era paragonato ai vortici sollevati dal vento. Per effetto di Eros, accoppiatosi nottetempo con Abisso, si produssero i diversi elementi costitutivi del cosmo: il cielo, l’oceano, la terra e anche la razza indistruttibile degli dèi. E’ questa la testimonianza che si trova nella parabasi degli Uccelli di Aristofane. Secondo un’altra tradizione, reinterpretata in senso neoplatonico nel Trattato sui Primi Principi del bizantino Damascio (V secolo), in origine esistevano tre forze primordiali: Kronos (il Tempo), Aither (l’Aria) e Chàos. La creazione ebbe inizio quando Kronos pose all’interno di Aither un Uovo, da cui uscì Phànes, il Brillante, lo splendente, ossia la Luce che poi si accoppierà con la buia Notte dando origine al Cielo e alla Terra. Nella versione attribuita a Ieronico ed Ellanico, Eros ha un carattere bisessuale, formato dal maschile e dal femminile, oltre a un Dio alato che, avente un corpo doppio e teste taurine, è l’ordinatore del cosmo. Costui è Protogonos, ma anche Zeus o Pan, creatore di tutte le cose dalla luce che emana (C. Calame, I Greci e l’Eros – Simboli, pratiche e luoghi, Editori Laterza, Roma-Bari, 2010, pp. 146-150) .
  4. Un accenno merita il personaggio Atlante, denominato Atlas nella mitologia romana, di cui esistono diverse versioni sulla sua nascita. Per la maggior parte di queste, egli è il figlio del titano Giapeto e della ninfa Climene. Altre leggende invece, narrano di lui come il frutto dell’amore tra Zeus e Climene; per altre ancora risulta figlio di Poseidone e Clito. Nel mito egli è il pilastro della porta del cielo. Quando Zeus decise di affrontare il padre Crono per spodestarlo e prendere il suo posto come re degli Dei, dovette costringerlo con la forza a rigettare tutti i fratelli che, alla nascita, erano stati divorati proprio a causa di una profezia della quale Crono stesso era ossessionato. Durante tale rappresaglia anche i Titani vi presero parte, ma ebbero la peggio perdendo il sanguinoso scontro. In conseguenza di ciò, Zeus condannò Atlante, in quanto Titano, a sostenere con la nuca e la sola forza delle braccia l’emisfero celeste chálkeos (“bronzeo”), sidéreos (“ferreo”) e asteróeis (“stellato”). 
  5. R. Graves, I miti greci, Longanesi&C., Milano, 1963, p. V.
  6. A. Panaino, Riflessioni su alcuni aspetti esoterici ed iniziatici dei Misteri Eleusini, “Hiram”, 3/2014, pp. 13-15.

Il volume è disponibile presso le librerie Paolino e Flaccavento di Ragusa e può essere acquistato on-line sul sito www.tipheret.org

 

Home Page

Parte Terza – Introduzione all’opera “Il Libro Rosso” di C.G. Jung: PERCORSI INIZIATICI

di Federico Guastella

 

La psicologia analitica di Jung, diversamente da Freud, presenta una più ampia prospettiva che, collegata con l’inconscio collettivo, include un particolarissimo intuito, un istinto psichico in grado di cogliere percezioni sottili come se la vita fosse già scritta in noi. Per lo psicologo svizzero avere un segreto, o una premonizione di cose sconosciute ha un grande valore, perché l’uomo si accosta alla percezione di un mondo misterioso e inesplicabile. La vita è completa soltanto quando lo sguardo trascende l’immediatamente verificabile per cogliere qualcosa che resta inesplicabile. Jung riconosce alle immagini una realtà psichica di grande valore che colma la solitudine e le presenta nel recinto sacro del cuore, quasi accarezzandole, dal momento che costituiscono la trama della microstoria, aperta a diversi percorsi iniziatici. L’immaginazione non è astrazione dalla realtà; in quanto attività creatrice dello spirito, essa, con lo stupore e con la meraviglia delle emozioni, dà consistenza a ciò che dimora in noi. Immergendosi nell’attività onirica, Jung si sente “profeta”; egli vive in un diverso stato di coscienza, i cui effetti benefici si riversano nel mondo dei pensieri; tratta le sue visioni come “un’opera d’arte” con rispettosa, discreta attenzione e le racconta alternando toni di lirismo con quelli di un crudo realismo a volte a fosche tinte. Siamo nel dialogo, del tutto originale, tra inconscio e coscienza, dove le “visioni” interagiscono con le “riflessioni”, con le “massime” e con “i commenti” che  egli riporta nel corso della narrazione. Senza le visioni, la psiche diventa nevrotica se non psicotica: l’esperimento, egli ha scritto, gli ha insegnato quanto possa essere d’aiuto – da un punto di vista terapeutico – la scoperta di immagini che si nascondono dietro le emozioni. Siamo nel linguaggio dell’anima che apre a nuovi mondi e a nuovi personaggi; siamo nel libero scorrere del racconto che i Greci amavano con la meraviglia dell’irrazionale. Anche il suo accostamento alla cultura dei “Ching”, che gli ha consentito  di elaborare il concetto di “sincronicità”, testimonia quanto grande sia stata la sua attenzione nei confronti di ciò che non è spiegabile razionalmente1. E’ l’Io, il Tu di Jung come in una sorta di specchio, il protagonista del Libro Rosso che appare direttamente nel capitolo VI, “Scissione dello spirito”. Prima di allora è egli stesso a raccontare le sue fantasie visive e a ritrovare la propria anima con cui dialoga e si confronta anche attraverso lo scontro. Si nutre delle sue energie, ritirandosi dalle cose e dalle persone, nonché liberandosi da abitudini e da stereotipi; è con lei che prende parte attiva nel sofferto pellegrinaggio che conduce al “Dio in noi” attorno al quale l’Io ruota come fa la terra intorno al sole. Passando dall’inconscio, si individua, assimila qualità dei personaggi incontrati, si rinnova ed esprime la biografia personale e collettiva fino a incontrarsi con il “Sé” che abbraccia coscienza e inconscio: espressione indifferenziata di tutte le possibilità umane e, nel contempo, il punto dal quale si sviluppano ulteriori opportunità che in esso vogliono convergere. Come nel gioco degli specchi, il quale con tutti i suoi illusionismi moltiplica la “figura” facendo sconfinare il reale nella finzione che incanta e disorienta, l’Io si dissocia nella pluralità. Le rifrazioni alterano la dimensione del tempo e dello spazio visibile, mentre la narrazione viene affidata alla magia dell’imprevedibilità. Senza mai annoiare, sul palcoscenico si stagliano i suoi personaggi che in buona parte provengono dal mondo mitologico e biblico. L’Io li considera reali2 e spesso li associa ad altre figure. Alcuni viaggiano in compagnia e altri si manifestano l’uno dipendente dall’altro. C’è chi cerca la solitudine illudendosi di scoprire significati e ci sono quelli che scelgono di percorrere altre vie, agli antipodi di quelle consuete, per tentare di rinnovarsi.3

«Metamorfosi» di Kafka è una metafora dell’ineluttabile alienazione, ancorché vi sia qualche spiraglio (la musica e l’arte in genere), quella di Apuleio è rispondente a nuove opportunità di crescita e di perfezionamento a partire dalla sofferenza dovuta agli inquietanti nemici psichici. “Per continuare a vivere tu hai bisogno di essere intero”: è detto nel capitolo XI, “Soluzione”, a volere indicare la riappropriazione di se stesso, intesa come affrancamento dalla dispersività introdotta dai conflitti presenti nell’anima (“fonte di sventura esterna”), da conquistare attraverso le varie fasi di un lungo viaggio che indirizzano all’unitarietà della personalità, tale da abbracciare l’insieme dell’umanità. Come Iside apre a Lucio un nuovo sentiero, analogamente è quanto avviene nel paragrafo 13 delle “Prove”, dove l’Io ha la visione della “Grande Madre” che indica la via della rinascita. Nell’ottica di tutto ciò che deve ancora venire, Il Libro Rosso rende dunque diretto il dialogo tra Jung e la sua anima, che è trasversale al mistero, e mostra la scissione tra svegliati e dormienti: i primi sono iniziati alla verità, alla vera via, o semplicemente alla vita; i secondi appaiono ciechi o addormentati dal potere della ragione che analizza senza immaginare l’impronta divina in noi. Non è consentito il dormire per chi vuole intraprendere il cammino iniziatico in compagnia dell’anima. Non può non venire in mente la Teologia platonica (1482), dove Marsilio Ficino le attribuisce un ruolo centrale: il legame tra la corporeità della materia, l’intelligenza angelica e Dio. Lei scende nella molteplicità del tempo e dello spazio e risale trascendendo le forme fisiche: quando vola al di sopra della mente, prevede il futuro in uno stato di visione trascendente.  Il  viaggio di Jung nelle insondabili profondità della psiche comincia con lo scoppio della prima Guerra. Non a caso Sonu Shamdasani scrive: “non è esagerato affermare che, se la guerra non fosse stata dichiarata, con ogni probabilità il “Liber novus” non avrebbe preso forma” . Quelle di Jung non erano fantasie personali, ma espressioni dell’inconscio collettivo, anticipatrici di eventi reali. E’ nella frattura del corso storico4, che si attua in lui la stretta connessione tra psiche individuale e psiche collettiva, evidenziando, in molteplici forme, lo spettro della follia che mutava l’antico ordine consolidato, ma ormai logoro e obsoleto. Siamo nel “Prologo” dove egli parla di visioni anticipatrici di un tempo in cui le tenebre prevarranno sulla luce: 

“Nell’ottobre 1913, mentre ero in viaggio da solo, durante il giorno fui improvvisamente sopraffatto da un visione: vidi una spaventosa alluvione che inondava tutti i bassopiani settentrionali situati tra il Mare del Nord e le Alpi. Andava dall’Inghilterra alla Russia e dalle coste del Mare del Nord fin quasi alle Alpi. Vedevo i flutti giallastri, le macerie galleggianti e la morte di innumerevoli persone5.

E’ la terrifica visione della Grande Guerra con cui Jung lotta. Per circa due ore non l’abbandona; ritorna più intensamente dopo due settimane al punto da fargli pensare che la sua mente si  sia ammalata. Folle l’evento che incombe sul destino dell’Europa. Un mare di sangue ricopre i paesi nordici: com’era possibile, si chiede quasi incredulo, lo smarrimento di quanto è umano negli uomini? Le visioni devastanti lo turbano ed egli le trascrive, ponendo attenzione ai segni che gli si stampano sulla retina. Il  resoconto è dettagliato:

“Nel 1914, all’inizio e alla fine del mese di giugno, e all’inizio di luglio, feci per tre volte il medesimo sogno. Ero in terra straniera, e all’improvviso, di notte e proprio in piena estate, dagli spazi siderali era calato un freddo inspiegabile e mostruoso, tutti i mari e i fiumi ne erano rimasti ghiacciati, e gelata era ogni forma di vegetazione6.

Simile al primo è il secondo sogno. In entrambi, Jung si trova in un paese sconosciuto; il terzo, agli inizi di luglio, lo impressiona di più:

“Mi trovavo in una remota regione inglese. Era necessario che tornassi in patria il più in fretta possibile con una nave veloce. Arrivavo in fretta a casa. In patria trovavo che in piena estate era calato dagli spazi siderali un freddo mostruoso che aveva congelato ogni forma di vita. Lì c’era un albero fronzuto, ma privo di frutti, le cui foglie si erano trasformate, per effetto del gelo, in dolci grappoli, colmi di un succo salutare. Io li coglievo e li offrivo a una grande folla in attesa. Nella realtà stava succedendo questo. Nel periodo in cui scoppiò la Grande Guerra tra i popoli europei mi trovavo in Scozia, costretto dalla guerra decisi di ritornare in patria con la nave più veloce e per la rotta più breve. Trovai il freddo polare, che aveva fatto gelare ogni cosa, trovai l’alluvione, il mare di sangue, e ritrovai anche il mio albero privo di frutti, le cui foglie il gelo aveva trasformato in rimedio salutare. E io colgo i frutti maturi e li offro a voi senza sapere che cosa vi dono, quale agrodolce e inebriante pozione, che vi lascia un sapore di sangue sulla lingua7.

 La solitudine si dilata all’infinito, l’assale con un gelido brivido. E’ la notte del 1914: eventi luttuosi stanno per arrivare nella tenebra che cancella la luce del mondo. Ad evidenziarsi è l’interconnessione dell’io personale con la storia. L’atteggiamento transpersonale emerge dal testo in tutta la sua evidenza. Jung partecipa al dramma del conflitto bellico, lo vive radicalmente e l’anticipa, interagendo con l’irrazionalità della storia; sente il suo Io contorcersi nel dolore per il carico dei morti gravante su di lui. E’ lo spirito del profondo, da lui percepito a seguito della visione dell’alluvione, a suggerirgli che la guerra è l’espressione di un diverbio interiore che si scatena esteriormente: gli uomini vivono grandi lacerazioni interne al punto da uccidersi reciprocamente. E’ il conflitto ad essere la causa della sventura esterna. L’arrovella il prevalere del demone sanguinario e il suo monito è deciso: l’uomo assassina una parte della sua vita quando uccide il suo prossimo. Sicché, egli viene invaso dal mistero dell’autosacrificio: vuole diventare “Cristo”, riconoscendo nella forza dell’amore il più alto del piacere. Era stata la Grande Guerra a modificare i suoi punti di vista, la rottura delle possibilità di rapportarsi con il mondo, messo radicalmente in crisi dal disordine devastante. Anche in questa prospettiva si colloca Il Libro Rosso che, agli albori del conflitto mondiale, interpreta il “caos” in cui sarebbe piombata l’umanità sonnecchiante sotto l’ordinato mondo della coscienza. L’opera non impone; stimola alla riflessione, fa sorgere interrogativi sui segreti dell’anima e sollecita a sguardi interiori alla scoperta di visioni che rigenerano attraverso il ricorso a simboli di cui i personaggi sono portatori. E’ nella prospettiva “della via di quel che ha da venire” – questo il titolo del Prologo – che Jung assume la “speranza” come motore della storia individuale e collettiva, come superamento della cappa di scetticismo opaco gravante sulla società del Novecento.

Federico Guastella

Ragusa, 19 febbraio 2018

____________

1. “I Ching” significa “Libro dei Mutamenti” ed è una delle opere più importanti della letteratura mondiale. Non si conosce l’età in cui fu scritto anche se per alcuni pare che fosse stato scritto nel XII secolo a.c.); fra l’altro, varie sue parti sono state aggiunte in tempi successivi. E’ in questo scritto che le filosofie dominanti in Cina – Confucianesimo e Taoismo – hanno qui le loro radici comuni in una visione oracolare della realtà. Riferendosi alla scienza, che si basa su leggi di natura statistico-probabilistiche,  egli non esclude le “eccezioni” ad opera del caso, e constata che già la cultura orientale aveva intravvisto le concezioni metodologiche dei fisici moderni. Egli scrive: “Secondo l’antica tradizione, sono delle “entità spirituali” operanti in modo misterioso quelle che fanno dare una risposta sensata. Queste entità formano, per così dire, l’anima vivente del libro. Essendo così quest’ultimo una sorta di essere animato, la tradizione vuole che all’I Ching si possano porre delle domande nella fiducia di ottenerne risposte intelligenti”.  Jung ammette di non avere una risposta alla moltitudine di problemi che sorgono quando si vuole di conciliare l’oracolo dell’I Ching con i canoni scientifici correnti. Non può fare però a meno di ammettere che “l’irrazionale pienezza della vita” gli ha insegnato a non scartare alcunché: è chiaro che questo metodo cinese di divinazione “mira alla conoscenza di sé, sebbene attraverso i millenni sia stato anche messo al servizio della superstizione”.

2. Nel mistero ho imparato a prendere sul serio sul piano personale quelle figure sconosciute che fluttuano liberamente nel mondo interiore in cui abitano, poiché sono reali in quanto agiscono”: capitolo I, “Liber secundus”, “Il Rosso”, p. 105.

3. Guida alla lettura del Libro Rosso di C. G. Jung, op. cit., p. 175.

4. A. Gibelli, L’officina della guerra. La grande guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino, [1991] 1998.

5. “Prologo”, “La via di quel che ha da venire”, ed. studio, p. 11.

6. Ivi, p. 12.

7. Ivi, pp. 12-13.

 

Home Page

Note su “Il Libro Rosso” – Parte seconda: Alchimia e visioni, di Federico Guastella

Suggestivo appare il contributo di Luisa Marinelli come messa a fuoco di alcuni temi fondamentali de “Il libro Rosso”. L’incipit coinvolge e già fornisce una chiave di lettura, quasi invitando, con raffinata discrezione, il lettore a utilizzare un’ermeneutica che, scevra di categorie logiche, faccia leva sul magismo dei flussi di coscienza. Lei scrive:

“Come un antico manoscritto di verità e saggezza Il Libro Rosso di Jung tocca e lascia presagire, accompagna fino all’uscio del significato e lì abbandona, trasuda principi di immemorabile origine che solo Intuito e Terzo Occhio possono afferrare. E se con spirito di erudito e scientifico raziocinio tento di comprenderlo divento come il cieco nell’oscurità che si muove a tentoni e striscia nel vuoto“1.

Jung, operando nelle infinite possibilità del regno onirico, dava così vita a un tessuto narrativo retto da leggi assolutamente personali, spesso al limite dell’incomprensibilità. Non a caso erano gli anni in cui il dublinese Joyce, uno dei più grandi autori di narrativa del XX secolo, strutturava la libertà di associazione e di ricerca in una direzione illimitata. Non soltanto egli si avvaleva della psicanalisi per sondare l’inconscio, ma frequentemente faceva ricorso all’allegoria in modo che una parola o un episodio non avessero mai un unico significato. E’ la presenza di una forte connotazione alchemica che dà ai contenuti il fascino particolare della “metamorfosi” come attiva partecipazione al processo individuativo. Nell’Epilogo, aggiunto nel 1959, Jung dichiara che l’incontro con l’alchimia2 l’aveva indotto a interromperne l’elaborazione, essendo riuscito a sistemare le sue esperienze in un tutto organico3. Peraltro, nei “Ricordi” si legge che fu lo studio di vecchi testi alchemici a fornirgli la chiave della sua esperienza clinica e delle sue riflessioni specificamente sul mondo simbolico delle fantasie.L’alchimia, dunque: chiave fondamentale de “Il Libro Rosso”, una sorta di «gnosi pagana» aperta alla scoperta del proprio mito, alla mitologia personale perché, facendo i conti con la sofferenza, si possa trasformare l’oscurità in opportunità di crescita consapevole, nell’accoglienza del mistero divino attraverso la discesa agli inferi e la conseguente risalita. Emerge da qui la stretta connessione del mito con l’operatività alchemica. In virtù dell’intreccio di Alchimia e mito, l’uomo assume un ruolo attivo: non subisce, ma elabora tutta quella ricchezza di energie che spingono ad osare per maturare nuovi livelli di presenze significative. Scrive Nante:

“Per Jung l’alchimista – in relazione al processo psichico – è un uomo in cerca del mistero divino, il mistero dell’inconscio proiettato sulla materia: insomma, un individuo teso alla realizzazione personale, diretta, di un’esperienza dell’inconscio”4.

Ci si potrebbe perciò riferire al “Libro Rosso” come al resoconto di un viaggio che racchiude immagini tra l’onirico e l’allucinatorio, a una singolare narrazione autobiografica che, incrociandosi perfino con la liricità del sentimento, ha molto del racconto filosofico la cui stazione di partenza è la scoperta dell’anima con l’immaginazione attiva. Far fluire i contenuti dell’inconscio senza ricercarne una spiegazione, accontentarsi di provare sensazioni, anziché adoperare parole vuote, equivale a confrontarsi con le proprie immagini interne attraverso la sperimentazione; lo spiegare, invece, è un’operazione arbitraria; è come se si compisse un assassinio: l’assassinio dei dotti è detto nel “Prologo”. Trovare una spiegazione razionale prima del tempo uccide l’esperienza simbolica e blocca un processo in atto. Le immagini non vanno interpretate, ma vissute fino in fondo; è la vita che col tempo darà le risposte adeguate5. L’essenziale, scrive nell’Introduzione Sonu Shamdasani, non sta nell’interpretare o capire le fantasie, bensì nel farne esperienza. L’energia psichica è per Jung “attività immaginativa” che nutre con i sogni, con le visioni, con le fantasie. Per una presa di coscienza era lo studio della mitologia a sostenerlo: “lavorare sulla mitologia lo entusiasmava fino a stordirlo”6, ed egli distingueva il “pensare indirizzato”, logico e verbale, e il “fantasticare”, passivo, associativo e immaginifico: “la facoltà del pensiero indirizzato, estranea allo spirito degli antichi, è una tipica acquisizione moderna, mentre il pensiero fantastico si afferma là dove il primo non ha corso”7. Jung si era reso conto, afferma il famoso prefatore, di che cosa significasse vivere senza un mito: “chi è privo di un mito è un uomo che non ha radici, senza un vero rapporto con il passato, con la vita degli antenati (…) e con la società umana del suo tempo”8. Dai miti al proprio mito si svolge il suo tragitto alla ricerca della “propria equazione personale” con l’attivazione di un processo di auto sperimentazione. L’energia psichica, che lo travolge, gli si manifesta in sogni e in visioni allucinatorie evocate di proposito anche in stato di veglia che aprivano dinanzi al suo sguardo un teatro di rappresentazioni con plurimi personaggi i quali animavano una sorta di terapia della psiche. Siamo nell’effetto catartico di cui parla Aristotele a proposito della “tragedia”: vi era coinvolto lo spettatore al punto da rivivere le proprie passioni con equilibrio e con distacco. Sia che si tratti di sogni o di visioni avute da sveglio come quella dell’ottobre del 1913 quando si recava in treno a Sciaffusa (l’Europa gli appariva devastata da una spaventosa inondazione), come per Platone e Sant’Agostino, ecco profilarsi i dialoghi interiori. Sonu Shamadsani parla di un metodo di investigazione che aveva molte somiglianze con varie pratiche di auto-sperimentazione, sia del passato che coeve, con cui aveva familiarità: “Jung, trascrisse le proprie fantasie, datandole, nei Libri neri e vi aggiunse osservazioni relative agli stati d’animo e alle difficoltà che avevano accompagnato la loro comprensione. I Libri neri non sono dunque un diario di avvenimenti, e anche il numero dei sogni in essi riportati è ristretto. Sono, piuttosto, la registrazione di un esperimento. Jung stesso, nel dicembre 1913 definì il primo libro nero come ”il libro del mio esperimento più difficile (…). A questo punto Jung cominciò a comporre quello che diventerà il Liber novus (…). La principale differenza tra i Libri neri e il Liber novus sta nel fatto che i primi sono stati redatti da Jung per uso personale e possono quindi essere considerati come la registrazione di un esperimento, mentre il secondo si presenta nella forma di un’opera destinata alla lettura del pubblico, a cui difatti si rivolge. Non a caso il testo della minuta si apre con l’apostrofe “Amici”, e la medesima formula allocutiva ricorre anche in seguito“9.

Nel Capitolo del Liber primus “Insegnamento”, Jung, che parla di immedesimazione nelle visioni, dice di sentirsi libero e di provare piacere nelle esperienze primordiali, della foresta e delle bestie selvatiche, compiendo anche “esperienze sorprendenti” dal significato oscuro che lo spaventano. L’apparizione dell’immagine come una visione, o un’allucinazione, è già interpretazione del sogno. Le visioni sono da raccontare, sono racconti della vita psichica, rappresentano processi e percorsi di eventi biografici connotati da gioia e da sofferenza. L’inconscio si fa laboratorio poetico e fa affiorare storie che segnano la vita di dinamiche relazionali. E’ l’inconscio a organizzare visivamente risorse interne per costruire identità altre. In fondo, è questo il metodo dell’analisi: un mezzo per far leva sull’esperienza immaginativa che opera con l’inconscio per fare emergere tendenze non riducibili esclusivamente ai traumi infantili e al rapporto genitoriale nel periodo dell’infanzia.

Federico Guastella

Ragusa, 3 febbraio 2018

 

Note:

1. Dott.ssa L. Marinelli, Riflessioni su “Il Libro Rosso” di Carl Gustav Jung (http://psiche.org/pi…/riflessioni-su-il-libro-rosso-di-jung/).

2. “Alchimia”, che significa “Arte della pietra filosofale”, proviene dall’arabo “Al-Kimya”, ma l’ispirazione è egiziana: “Kemi” nell’antico Egitto equivale a “Terra nera”, cioè il limo del Nilo, indispensabile all’agricoltura in un paese insidiato dall’avanzare del deserto. Pur essendo amorfo, ha in sé una varietà di potenzialità senza le quali non è possibile alcuna manifestazione di vita. Kemi, dunque, è il “preformale”, il “potenziale”, il “virtuale”, presupposti per il compimento dell’Opus. Secondo Jung, l’alchimista, come il cabalista, che intraprende la via della “Grande Opera”, compie un viaggio all’interno del proprio inconscio, realizzando un processo di sviluppo verso la consapevolezza del Sé. Il compito è di “riunire ciò che è sparso”, disperso, frammentario, affrancandosi dalla fragilità dell’esperienza per ancorarla a livelli superiori. Ciascuno è attivatore delle proprie depurazioni; in alchimia la trasformazione ha luogo attraverso tre fasi fondamentali: l’Opera al Nero, l’Opera al Bianco, l’Opera al Rosso. Essenziale allo sviluppo del processo è la morte iniziale con la contestuale “putrefactio”, simbolicamente espressa dall’immagine del seme che deve marcire nella terra affinché possa fruttificare. Siamo così nella sequenza corrispondente alla “Nigredo” della stagione invernale che, nel linguaggio mitico è assimilabile al “chaos” o alle “acque primordiali”. E’ noto l’acrostico V.I.T.R.I.O.L. dell’alchimista medievale Basilio Valentino che per esteso recita Visita Interiora Terrae, Rectificando, Invenies Occultum Lapidem e che si può così tradurre: “Penetra nelle viscere della Terra e, percorrendo il retto sentiero, scoprirai la pietra che si cela ai tuoi occhi”. E’ il fuoco della conoscenza e dell’amore l’agente che attiva la combustibilità per lasciare il “caput mortuum”, cioè le scorie, la cui proprietà è quella di non infiammarsi più. L’Athanor, ovverosia il forno dell’alchimista, corrisponde all’interno dell’albero in cui circola la linfa. La bianca colomba, levatasi in volo torna così all’Arca recando il ramoscello d’ulivo ed è questa una chiara allusione al dominio di tutte le forze attivate  che rappresentano l’ “Albedo. Dall’argento infine si passa all’ultima fase del processo, la “Rubedo”, oppure “Opera al rosso”, che segna il termine delle fatiche di depurazione: l’oro qui ha il significato dell’anima liberata dalle sua ruggine; il corpo si riunisce e si fissa con quello dello Spirito. E’ nell’inconscio che bisogna sprofondare per operare sulle impurità, quali disagi e resistenze, blocchi e nodi che angosciano e deprimono, tentando di espellere ogni limitazione, ogni metallo pesante. Così, il guardare dentro di sé significa dare luogo a un senso di rinascita, al risveglio spirituale. E’ questa l’operazione dello svuotamento per consentire alla scintilla divina di purificare l’animo.

3. “Ho lavorato a questo libro per sedici anni. Me ne ha distolto il mio incontro con l’alchimia nel 1930. L’inizio della fine sopraggiunse nel 1928, quando Wilhelm mi spedì il testo di un trattato alchemico, Il fiore d’oro. A quel punto il contenuto di questo libro trovò la sua strada verso la realtà e non potei più continuare a lavorarci. All’osservatore superficiale esso si presenterà come un’assurdità. E lo sarebbe effettivamente diventato, se non fossi riuscito a cogliere la forza travolgente delle esperienze originarie. Con l’aiuto dell’alchimia, alla fine sono riuscito a sistemarlo in un tutto organico. Ho sempre saputo che quelle esperienze contenevano qualcosa di prezioso, e perciò non ho saputo far niente di meglio che trascriverle in un libro «prezioso», ovvero con un suo prezzo, e dipingere – meglio che potevo – le immagini che emergevano mentre le rivivevo. So che è stata un’impresa spaventosamente inadeguata, ma nonostante il molto lavoro e le distrazioni le sono rimasto fedele, anche se io mai un’altra / possibilità …”. Così si conclude il “Libro rosso”. Il testo si interrompe lasciando la frase incompiuta (pag 427). Si potrebbe dire che essa appare come una chiara indicazione verso varie e possibili risposte, sui plurimi sentieri da percorrere ai fini del proprio perfezionamento.

4. Nante, Guida alla lettura del Libro Rosso di C. G. Jung, op. cit., p. 129.

5. Dilthey, alla fine del XIX secolo,  rimprovera al positivismo di trascurare la peculiarità dell’oggetto, dello scopo e del metodo delle “scienze dello spirito”. Il positivismo infatti riteneva che le scienze dell’uomo, esattamente come le scienze della natura, ricerchino delle leggi capaci di spiegare i fenomeni per mezzo dell’osservazione. Secondo Dilthey questa concezione è errata in tutte le sue parti. In primo luogo, rifiuta assolutamente che le scienze dell’uomo ricerchino delle leggi. Egli, conformemente alla tradizione della “scuola storica” tedesca, nega l’autonomia disciplinare dell’economia, della sociologia e del diritto e riconosce la storia come la sola disciplina unitaria in cui viene a convergere ogni indagine sull’uomo. Tuttavia, contesta l’esistenza di leggi della storia: la storia è la creazione libera dello spirito umano; dunque, essa è il regno del fatto individuale, irriducibilmente singolare e imprevedibile.  In secondo luogo, le scienze dello spirito non mirano a “spiegare” i fenomeni, come insegnano i positivisti, deducendoli da altri fenomeni precedenti o concomitanti. Le scienze dello spirito ci fanno piuttosto comprendere il significato dei fenomeni che si studiano. In terzo luogo, il naturalista indaga su qualcosa di totalmente estraneo a sé. Lo storico invece indaga su un oggetto che ha la sua stessa natura. E’ peculiare, dunque, dei fenomeni storici che essi, in quanto fatti spirituali, siano fenomeni dello stesso genere cui appartiene anche l’attività di riflessione dello studioso e si colleghino a questa nell’unica e universale connessione della “vita dello spirito”. In virtù della affinità tra soggetto e oggetto, che caratterizza il campo delle scienze dello spirito, la realtà indagata si rivela si rivela accessibile dall’interno, attraverso un’ ”esperienza vissuta” (“Erlebnis”, in tedesco) del tutto diversa dall’osservazione sensoriale esterna. La comprensione cui mira lo storico è un “rivivere” il fenomeno indagato: un riprodurlo interiormente immaginando i motivi che l’hanno determinato simpateticamente, in forza dell’umana affinità con i protagonisti del fenomeno stesso. In proposito, il commento di Nante è pienamente condivisibile. Egli scrive: “Non è il caso di soffermarsi sulle controversie che portarono a queste distinzioni e formulazioni, ma è indubbio che esse gravitano nel pensiero di Jung e, di fatto, sono accolte nel suo metodo, che può essere definito “fenomenologico-ermeneutico” (Ibidem, p. 59).

6. Sonu Shamdasani, Introduzione a Il Libro Rosso di C. G. Jung, op. cit., p. XXXVI.

7. Ivi, p. XXXVII.

8. Ivi, p. XXXVIII.

9. Ivi, pp. XLVII-LIII.

 

Per contattare l’Autore, scrivere a federico.guastella@tin.it

Home Page

Dall’Illuminismo ai Cyborgs

di Claudio Messori*

Siamo lieti di pubblicare sul nostro sito questo ampio saggio di Claudio Messori. Si tratta di un lavoro originale e ben documentato, che offre diversi spunti di riflessione sulle inquietanti prospettive che si aprono all’umanità intera, dopo il tumultuoso sviluppo economico degli ultimi due secoli. “Le Ali di Ermes” pubblicherà volentieri i commenti che i lettori vorranno inviarci, per approfondire le tematiche trattate dall’Autore e aprire un dibattito. Buona lettura!       p.p.

Abstract

Il declino del sistema feudale e la progressiva ascesa della borghesia medievale a ruoli di potere e a funzioni di governo, conduce l’Occidente (17° secolo) a teorizzare e ad assumere un modello di pensiero materialista, riduzionista e meccanicista, basato su un rapporto privilegiato, tendenzialmente esclusivo, con la Scienza (metodo scientifico galileiano), la tecnica e la tecnologia. Il presente lavoro prende in considerazione gli elementi storici, sociologici e antropologici (come il perfezionamento illimitato dell’umanità auspicato dall’Illuminismo francese, e la meccanizzazione del ciclo produttivo prospettata dal proto-liberismo Inglese) di questa rivoluzione paradigmatica, che ci aiutano a comprendere il processo causale che ha portato al tecno-centrismo 4.0 contemporaneo.

Viene evidenziato come, grazie all’intreccio tra gli ideali dell’Illuminismo francese, con le sue due anime (Naturofila e Tecnofila), e la lungimiranza imprenditoriale anglosassone (dimostratasi vincente con la Rivoluzione Industriale 1.0), prenda forma il paradigma positivista, e con esso la religione secolare positivista, la cui affermazione e diffusione genera una corrente di pensiero ampiamente condivisa in tutto l’Occidente, l’Eugenetica, che radicalizza le istanze più ambivalenti (pseudo-scientifiche) e reazionarie (filo-colonialiste) dell’Illuminismo e del Positivismo, dando corso ad una serie di crimini contro la persona e contro l’umanità, che sfoceranno nelle eliminazioni di massa condotte, in particolare ma non solo, dal nazifascismo e dallo stalinismo (due regimi totalitari accomunati dalle stesse radici positiviste e dalla stessa passione per il pensiero eugenetico). 

Viene evidenziato come il cuore del processo di industrializzazione inizi a pulsare nelle fabbriche, dove l’introduzione dei sistemi meccanici nel ciclo produttivo innesca il processo di integrazione uomo-macchina, che presto diviene il fulcro, il fattore economico, sociale e culturale trainante della civiltà occidentale. Sarà quindi grazie alla evoluzione dei sistemi meccanici impiegati nelle filiere produttive e alla affermazione del modello economico liberista, che tra la seconda e la terza Rivoluzione Industriale si consolida l’alleanza tra mondo accademico, industriale e militare (academic/industrial/military iron triangle). Una alleanza destinata a giocare un ruolo determinante nelle due guerre mondiali del 20° secolo e in tutte quelle successive.

Il presente lavoro mette in evidenzia come le due guerre mondiali abbiano incrementato in misura esponenziale lo sviluppo scientifico e tecnologico occidentale, che, una volta trasferito dal settore militare a quello civile, ha fatto decollare la Rivoluzione Industriale 3.0.

Dalla seconda guerra mondiale, l’academic/industrial/military iron triangle statunitense esce rafforzato e diviene leader mondiale dello sviluppo scientifico, economico e tecnologico. La computerizzazione della società e lo sviluppo della cosiddetta Intelligenza Artificiale sono effetti collaterali del nuovo modo di concepire la relazione integrata tra soldato e armamento, maturato nel settore militare statunitense proprio nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Il modello di automazione soldato-macchina uscito da quella esperienza bellica, e gli enormi sviluppi tecnici e tecnologici che si sono succeduti, hanno aperto la strada alla creazione di ibridi uomo-macchina (cyborgs) e alla robotizzazione della società (Rivoluzione Industriale 4.0), destinata ad essere un effetto complementare delle guerre contemporanee.

In conclusione, viene prospettata la nascita di una nuova religione secolare neo-positivista, ispirata ad una scientifica ed ermafrodita divinità, chiamata Coscienza Universale.

1. Dall’Uomo nuovo illuminista alla Rivoluzione Industriale positivista

“The necrophilous person is driven by the desire to transform the organic into the inorganic, to approach life mechanically, as if  all living persons were things. All living processes, feelings, and thoughts are transformed into things.”

Erich Fromm – The Heart of Man (1964)1

Il cambiamento rivoluzionario nel rapporto con la tecnica e con la tecnologia, di cui si è fatta promotrice e portatrice la civiltà occidentale con l’adozione del paradigma illuminista (18° secolo) e positivista (19° secolo), nella definizione del proprio impianto identitario [1], ha trasformato, in un arco di tempo di appena 300 anni, e trasformerà enormemente, le dinamiche e la struttura delle società sottoposte a questo cambiamento e vincolate alle leggi di mercato che lo governano. Da adesso in poi, tutta la vita politica, sociale culturale, economica e persino religiosa ruota attorno al sapere tecnico e tecnologico. Questa è la peculiarità e il carattere distintivo del paradigma occidentale contemporaneo, che lo distingue da tutti gli altri modelli paradigmatici, al tempo stesso la sua forza e il suo limite.

Dall’avvento della Rivoluzione Industriale 2.0 (seconda metà del 19° secolo) ad oggi, il potere maturato dal tecno-centrismo è cresciuto esponenzialmente. Sull’onda dell’incalzante sviluppo, prima militare e poi civile, di tecniche e soluzioni tecnologiche sempre più versatili e performanti, la rivoluzione tecnologica, il cui cuore ha iniziato a pulsare nelle fabbriche, è riuscita ad imporre una nuova scala di valori sociali, dove il patrimonio di capacità, di possibilità e di tendenze, filogenetiche ed epigenetiche, che conferiscono identità e dignità all’essere umano2, viene vincolato, e subordinato, alle capacità, possibilità e tendenze che dipendono dall’apporto tecnologico.

In particolare, l’attuale Rivoluzione Industriale 4.0, promossa dal vannevariano (Vannevar Bush, 1947) “academic/industrial/military iron triangle3, sta imprimendo un radicale cambio di passo al processo di integrazione uomo-macchina, teorizzato dall’Illuminismo e avviato dalla Rivoluzione Industriale 1.0, tale da aprire seri interrogativi sia sul destino dello statuto antropologico umano, che sul futuro della civiltà umana.

Nel nuovo scenario ipertecnologico contemporaneo, l’essere umano non si deve più solo adattare e conformare all’impiego di sistemi meccanici, più o meno sofisticati e performanti. Oggi, per essere competitivi e socialmente adatti (fit vs unfit), i soggetti umani, in particolare le nuove generazioni, devono sottoporsi ad una vera e propria mutazione tecno-genetica, che li spinge a fondersi e a confondersi con piattaforme, sistemi, dispositivi e soluzioni artificiali, che non aggiungono, ma semmai sottraggono, valore alla loro umanità. Ciò che invece acquisisce enorme valore e prestigio, è il consumo (compulsivo) delle nuove tecnologie, grazie al quale viene acquisita una identità digitale, che eleva al rango di nativi digitali.

La identità digitale è una locuzione legata al fenomeno della Digital Transformation (D.T.), o meglio della Digital Mutation (D.M.), che sta investendo con velocità le società tecnologicamente avanzate, coinvolgendo soprattutto il modo in cui si comunica, si consuma, ci si informa sul mondo, si studia e si lavora (è in atto un progressivo fenomeno di automatizzazione del settore manifatturiero e dei servizi, con conseguente estinzione di alcune tipologie di lavoratori e dei relativi posti di lavoro)4. La D.T. modifica abitudini, tradizioni, princìpi e relazioni grazie all’evolversi organico di un insieme eterogeneo e combinato delle quattro macro aree (megatrend) digitali delle tecnologie: mobile (mobile devices, smartphone e tablet); big data (analisi di data set e informazioni, sia correnti che future, in tempo reale, attraverso processi di analisi di dati strutturati e non strutturati); cloud computing (piattaforme di sviluppo o di gestione dati) e social (social network, piattaforme online che permettono agli users di creare un profilo pubblico, o semi-pubblico, e interagire con altri users in quella sede). Tutte quattro esposte a problemi di data security (hackeraggio).

Mutazione”, dunque, è il termine esatto per descrivere non una transizione, ma una vera e propria modificazione tecno-genetica e di pensiero delle persone e della società che porta alla generazione di identità digitali tanto reali quanto quelle appartenenti alla dimensione fisica, forse, addirittura, ancora più potenti di queste ultime, perché la digital identity si può plasmare a seconda delle proprie o delle altrui esigenze, e non è legata a limiti materiali. Attraverso la creazione, gestione e condivisione di contenuti digitali, si può dar vita a espressioni virtuali di se stessi (es. avatar), che contribuiscono allo stesso modo dell’identità fisica a definire chi è una persona e cosa è e rappresenta (alimentando la sedimentazione di un disturbo dissociativo dell’identità?).

Il processo di integrazione uomo-macchina contemporaneo, ci regala sistemi cibernetici antropomorfi pseudo-intelligenti (robot), ibridi uomo-macchina (cyborg) e nuove generazioni di organismi geneticamente modificati (ingegneria genetica). Effetti collaterali di un processo di integrazione uomo-macchina concepito in ambito militare durante la seconda guerra mondiale.

Come scriveva l’antropologo digitale Frank Rose agli inizi degli anni ’80 [2], all’alba della Rivoluzione Industriale 3.0: “The computerization of society……has essentially been a side effect of the computerization of war”.

Norbert Wiener (1894-1964) [3], padre della cibernetica moderna, fu uno degli scienziati che durante la II Guerra Mondiale collaborarono ad un progetto dell’OSRD (Office of Scientific Research and Development, lo stesso organismo governativo statunitense che sotto la direzione di Vannevar Bush [4] controllava anche il Manhattan Project, che portò alla realizzazione del primo ordigno nucleare), dal quale prese forma l’idea di ottenere il massimo di efficienza, di affidabilità e di efficacia operativa in combattimento, dalla integrazione dell’uomo (soldato) e della macchina (armamento) in un unico sistema, in cui l’elemento umano e l’elemento meccanico si fondono, da un punto di vista ingegneristico, in un’unica struttura.

Come racconta Wiener [il grassetto nel testo è mio]:

The antiaircraft gun is a very interesting type of instrument. In the First World War, the antiaircraft gun had been developed as a firing instrument, but one still used range tables directly by hand for firing the gun. That meant, essentially, that one had to do all the computation while the plane was flying overhead, and, naturally, by the time you got in position to do something about it, the plane had already done something about it, and was not there. It became evident—and this was long before the work that I did—by the end of the First World War, and certainly by the period between the two, that the essence of the problem was to do all the computation in advance and embody it in instruments which could pick up the observations of the plane and fuse them in the proper way to get the necessary result to aim the gun and to aim it, not at the plane, but sufficiently ahead of the plane, so that the shell and the plane would arrive at the same time as induction.  I had some ideas that turned out to be useful there, and I was put to work with a friend of mine, Julian Bigelow. Very soon we ran into the following problem: the antiaircraft gun is not an isolated instrument. While it can be fired by radar, the equivalent and obvious method of firing it is to have a gun pointer. The gun pointer is a human element; this human element is joined with the mechanical elements. The actual fire control is a system involving human beings and machines at the same time. It must be reduced, from an engineering point of view, to a single structure, which means either a human interpretation of the machine, or a mechanical interpretation of the operator, or both. We were forced—both for the man firing the gun and for the aviator himself—to replace them in our studies by appropriate machines. The question arose: How would we make a machine to simulate a gun pointer, and what troubles would one expect with the situation?

La Rivoluzione industriale 4.0 viene propagandata, con tutti i mezzi di cui dispone l’academic/industrial/military iron triangle contemporaneo, come se si trattasse di una Eldorado disseminata di promesse, destinate ad incrementare il Bene Privato & Pubblico, accarezzata dall’idea che ciò che è naturale debba essere progressivamente sostituito da ciò che è artificiale, e che il modello di essere umano da perseguire, debba aderire sempre più al modello iper-tecnologico e ingegnerizzato di uomo-macchina concepito per scopi militari.

____________

Fromm, E. (2011) The Heart of Man, Lantern Books, p. 37

2. È grazie alla disponibilità filogenetica ed epigenetica di capacità, possibilità e tendenze che consentono il superamento della stereotipia comportamentale animale, che il genere Homo si contraddistingue come l’unica specie in grado di aumentare volutamente la propria capacità, possibilità, tendenza ad esistere. Lo sviluppo della coscienza e della conoscenza umana impiegate a questo scopo, non è presente in nessun’altra specie animale, ma caratterizza la nostra specie [Messori 2016]

3. Vedi: Norbert Wiener, “Men, Machines, and the World About”, in Medicine and Science, 13-28, New York Academy of Medicine and Science, ed. I. Galderston, New York: International Universities Press, 1954.
http://21stcenturywiener.org/wp-content/uploads/2013/11/Men-Machines-and-the-World-About-by-N.-Wiener.pdf

4. In una recente intervista rilasciata alla free digital news publication Quartz, Bill Gates, co-fondatore della Microsoft, propone di ammortizzare le conseguenze negative che si avranno sul piano fiscale per la perdita di milioni di posti di lavoro (ovvero per la perdita degli introiti derivanti dalla tassazione applicata ai redditi da lavoro dipendente e autonomo), tassando i robot che andranno a rimpiazzare il personale umano in esubero: Certainly there will be taxes that relate to automation. Right now, the human worker who does, say, $50,000 worth of work in a factory, that income is taxed and you get income tax, social security tax, all those things. If a robot comes in to do the same thing, you’d think that we’d tax the robot at a similar levelVedi: The robot that takes your job should pay taxes, says Bill Gateshttps://qz.com/945493/get-out-shows-that-even-the-most-intelligent-films-can-fall-prey-to-asian-american-stereotypes/

1.1 L’anno zero illuminista

I should like you to consider that these functions  (including passion, memory, and imagination) follow from  the mere arrangement of the machine’s organs every bit as naturally as the movements of a clock or other automaton follow from the arrangement of its counter-weights and wheels.

Descartes – Treatise on Man (1633)5

Tra il 18° e il 19° secolo, quando l’età media degli europei passa da 35 a 40 anni, e quando “l’animale posto più in alto, che di solito si pensava fosse la scimmia, era collegato con il tipo di uomo posto più in basso, di solito essere ritenuto il nero” (George L. Mosse)6, l’Occidente ha elaborato e adottato, per la prima volta nella storia orale e scritta dell’umanità, un modello identitario che esautora la casta sacerdotale e nobiliare dalla loro millenaria funzione di governo delle anime e dei corpi, per trasferire il mandato del governo sui popoli nelle mani di un nuovo ceto dominante, la borghesia, erede storica dei valori e degli interessi maturati dalle Corporazioni delle Arti e dei Mestieri medievali, con a capo i suoi esponenti più influenti e facoltosi, i banchieri rinascimentali.

A questo scopo, gli intellettuali illuministi (“une assemblée de philosophes occupés à préparer le bonheur du monde”, Pierre Louis Manuel, 1792) hanno escluso, con effetto retroattivo, dalla prospettiva di conoscenza dominante, tutto ciò che non attiene al mondo sensibile, instaurando un modello paradigmatico materialista, riduzionista e meccanicista, in base al quale solo ciò che può essere spiegato razionalmente, e da cui sia possibile ricavare un profitto materiale, ovvero solo ciò che può essere calcolato, misurato, riprodotto ed eventualmente commercializzato, è degno di attenzione e può essere considerato reale. Tutto il resto appartiene a un piano di realtà fittizio, come la mente (res cogitans vs res extensa), oppure è il frutto di fantasie e di superstizione.

L’effetto retroattivo applicato alle nuove categorie del reale, conferisce all’Età dei Lumi il carattere di spartiacque tra una storia superiore, inaugurata con la formulazione di, e il ricorso a, leggi fisiche traducibili in un linguaggio quantitativo universale e costante (metodo scientifico galileiano7), funzionale al catechismo del profitto imprenditoriale borghese, e una storia inferiore, scritta nel corso del tempo sulla base di categorie del reale generate in altri luoghi e in altre epoche, da altre comunità umane, attraverso forme di conoscenza diverse da quella adottata dagli illuministi.

A cadere sotto la ghigliottina dell’anno zero illuminista, non fu quindi solo la testa dei nobili, e con essi la credibilità dei misteri della fede cattolica (consustanzialità), strumentalmente invocati dalla casta sacerdotale, quella della Santa Romana Chiesa che tra il 12° e la metà del 15° secolo ha prima torturato e poi arso vive milioni di donne accusate di stregoneria dalla Santa Inquisizione; quella che tra il 14° e il 16° secolo, con la complicità della nobiltà feudale, ha intrapreso una fiorente attività commerciale basata sulla compra-vendita dell’indulgenza plenaria.

Vittima eccellente dell’impeto riformatore illuminista fu la centralità del ruolo assegnato all’Uomo dal nucleo fondativo di tutte le rappresentazioni interne della realtà esterna e di tutti i sistemi di valori, e dei rispettivi sistemi relazionali, sociali, culturali, cultuali, utilitaristici e non utilitaristici, generati dalle comunità umane dal Paleolitico Medio in poi. Questo ruolo, scaturito dalla nascita psicologica dell’essere umano (Paleolitico Medio) [5] [6], si esprime simbolicamente nella forma dell’Axis Mundi, l’Asse che mette in comunicazione ciò che sta in alto (vertice) con ciò che sta in basso (base), la triade archetipica che orienta l’esistenza umana (questo è anche il significato del simbolismo della croce [7] [8]) e le assegna una posizione ben precisa nella relazione gerarchica con il mondo immanifesto (immateriale intangibile dimensione incorporea) e con il mondo manifesto (materiale tangibile dimensione corporea), tale per cui: in alto è il Cielo, ciò che sta sopra, ciò che eccede e sovrasta il mondo ordinario delle forme e dei mutamenti (l’instabilità e l’impermanenza delle forme e delle loro ombre non permette di considerarle come reali,  bensì come quasi reali: solo il ritmo del movimento che le penetra le eleva alla realtà [7]), il non-luogo della alterità, del non-nato, del Non-Essere; in basso è la Terra, ciò che sta sotto, il mondo sensibile, il luogo dell’identità, della individuazione, del nato, dell’Essere; in mezzo è l’Uomo, il medium che cammina eretto sulla Terra cercando di accordare la propria identità-immanenza terrena con l’alterità-trascendenza del Cielo (sarà solo a decorrere dal Paleolitico Superiore che l’immagine primordiale da cui scaturisce l’Uomo-come-medium, prodotta nel corso del Paleolitico Medio dalla funzione imaginifica [6], e via via rivestita di contenuti magico-simbolici, verrà sottoposta ad un lento processo di elaborazione, che segna il passo alla formulazione delle norme e delle credenze religiose, che hanno prescritto i tempi e i modi delle trasformazioni culturali e sociali, a cui sono andate incontro le civiltà neolitiche e post-neolitiche; un ruolo prescrittivo che è tutt’ora presente, laddove i sistemi sociali sono retti da istituzioni, norme e credenze religiose).

____________

5. Citazione tratta da: Lopez-Cajun, Ceccarelli, M. (edited by) (2016) Explorations in the History of Machines and Mechanisms: Proceedings of the Fifth IFToMM Symposium on the History of Machines and Mechanisms; Koetsier, T.: Lewis Mumford Revisited; Springer, p. 178.

6. Mosse, G. L. (2003) Il razzismo in Europa. Dalle origini all’olocausto, Editori Laterza, p. 18.

7. Si divide in quattro fasi, due induttive e due deduttive: osservazione, ipotesi, sperimentazione, matematizzazione.

8. Come scrive C.G. Jung: My views about the ‘archaic remnants’, which I call ‘archetypes’ or ‘primordial images,’ have been constantly criticized by people who lack a sufficient knowledge of the psychology of dreams and of mythology. The term ‘archetype’ is often misunderstood as meaning certain definite mythological images or motifs, but these are nothing more than conscious representations. Such variable representations can not be inherited. The archetype is a tendency to form such representations of a motif—representations that can vary a great deal in detail without losing their basic pattern [ Jung, C.G. (1968) Man And His Symbols, Mass Market Paperback].

1.2  L’Homme nouveau

Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello
Stato sono concetti teologici secolarizzati. Non solo in base al loro
sviluppo storico, poiché essi sono passati alla dottrina dello Stato
dalla teologia, come ad esempio il Dio onnipotente che è
divenuto l’onnipotente legislatore, ma anche nella loro struttura
sistematica, la cui conoscenza è necessaria per una considerazione
sociologica di questi concetti.

Carl Schmitt  – Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità (1922) 9

Al suo posto, al posto dei contenuti simbolici archetipici che hanno portato ad interpretare l’essere umano come mediatore elettivo tra la Terra e il Cielo, il riformatore illuminista settecentesco introduce la figura dell’Homo Technologicus (Homme Machine, J.O. de La Mettrie, 1747), un Uomo nuovo (Homme nouveau) che interpreta il mondo e sé stesso come un mosaico di componenti meccaniche in movimento, azionate dall’apporto di energia, suscettibile di essere misurato, calcolato, controllato, modificato, migliorato, riprodotto.

Per gli illuministi prima, e per i positivisti poi, l’Universo è un sistema meccanico di oggetti solidi (res extensa) che riempiono porzioni di uno spazio altrimenti vuoto, posti in relazione reciproca secondo leggi di moto che, almeno in linea di principio, sono calcolabili. Su questo Universo regna un Dio illuminista, un Deus otiosus. Un Dio logico come il suo predecessore, quello che si è fatto-Uomo-in-Cristo con un dogma della fede10 [1][7][8][9], accuratamente decontaminato da qualsiasi traccia di trascendenza, un Dio meccanico, un Grande Orologiaio. Un Essere Supremo, il Deus Absconditus degli esoterici, il Grande Architetto che grazie alla sublime arte della matematica e della geometria ha creato tutto ciò che popola lo spazio compreso tra la Terra e il Cielo, senza lasciare nulla al caso. Il Tutto, sostengono gli illuministi, è stato calcolato secondo un disegno matematico di causa-effetto, per essere consegnato nelle mani dell’Homme nouveau eletto dal Dio meccanico, ovvero nelle mani dei maschi-bianchi-istruiti-benestanti dediti allo studio, all’addomesticamento e alla manipolazione empiristica e utilitaristica della res extensa: gli unici esseri del creato in cui questo Dio ha compiutamente infuso la res cogitans.

Un Homme nouveau che sceglie di escludere (dualismo cartesiano) la dimensione immateriale, fittizia (res cogitans), vissuta soggettivamente e non circoscrivibile dalla razionalità (non traducibile in un linguaggio quantitativo universale e costante come quello impiegato per descrivere il mondo formale res extensa), dalla propria prospettiva di conoscenza11.

Un Uomo nuovo destinato a governare la, e ad essere governato dalla, Ragione (Pura?) della Scienza dell’utile e del costruttivo, tale metafisica applicata per scopi pratici [1][6][9] di aristotelica memoria, che può modificare radicalmente la struttura dell’esistenza umana e dell’essere umano stesso; il luogo dove risiedono le Idee e gli Universali (le Idee prime, che hanno come oggetto di conoscenza la res cogitans, e le idee seconde, che si occupano della res extensa); il piano (logico) di lavoro del dubbio metodico, fulcro del procedimento analitico e deduttivo cartesiano, attraverso il quale possono essere generate proposizioni indubitabili, assolute.

Un Uomo nuovo incarnato dai banchieri-mercanti-artigiani del diciassettesimo e diciottesimo secolo, che non vogliono più essere secondi a nessuno, né al clero né alla nobiltà feudale. La borghesia imprenditoriale e liberista, che più di tutti è riuscita a trarre vantaggio e impulso dagli effetti della Riforma Protestante (16° secolo), dalla circolazione delle idee promossa con l’invenzione della stampa a caratteri mobili (1455) e dalla lezione di economia e finanza impartita ai contemporanei e ai posteri dalla famiglia dei Fugger (16°-17° secolo).

Un Uomo-macchina che capitalizzerà le risorse tecnologiche (seconda metà del 18° secolo, Inghilterra, Rivoluzione Industriale 1.0), vale a dire il sapere e il saper fare relativi alla ideazione, produzione e applicazione intenzionale di tecniche (procedure)  manuali e/o strumentali finalizzate al soddisfacimento di bisogni antropici [10], introducendo e promuovendo la meccanizzazione del ciclo produttivo.

Un Uomo-macchina che nel corso dei cento anni che separano la Rivoluzione Industriale 1.0 dalla Rivoluzione Industriale 2.0, sottopone la credibilità della Trinità e l’autorità della casta sacerdotale cattolica ad un processo di secolarizzazione, tutt’ora in corso, che traccia i confini della loro ingerenza nelle faccende terrene e negli affari pubblici, le subordina agli interessi stabiliti dalla borghesia per il Bene Privato & Pubblico12, e le pone in aperta competizione con una nuova forma di Legge divina, stabilita con criteri scientifici, e con una nuova categoria di rappresentanti del sacro (secolarizzato), gli scienziati, consegnando alla storia l’epopea della rivoluzione liberista e tecnologica moderna, dove “Government has no other end but the preservation of Property13 (John Locke, 1632-1704).

Gli Hommes nouveau, i libertini-imprenditori di cui narra il Divin Marchese de Sade (1740-1814), dediti alla pratica del laissez-faire14 e alla disintegrazione del culto religioso, che prendono a sostituire i simboli sacri della cristianità con immagini erotiche, metafore di un erotismo utilizzato in modo pretestuoso, come strategia di vendita, come tecnica pubblicitaria per invogliare l’avventore ad acquistare i prodotti commercializzati, per sottoporlo ad un’orgia di immagini, argomentazioni, dimostrazioni, informazioni che dovranno dargli il senso di un sistema di valori in cui la violenza carnale e l’acquisto di una merce si equivalgono, in cui la rappresentazione fredda di una meccanica corporale si rivela essere metafora di qualcos’altro.

Un qualcos’altro a cui il liberismo assegna un valore di mercato.

Dottrina e politica economica che si sviluppa a partire dal XVII secolo, come reazione alle teorie (e alle politiche economiche) mercantilistiche, che avevano avuto grande diffusione in Europa tra il XVII e il XVIII secolo, il liberismo trova la sua compiuta formulazione in Inghilterra con Adam Smith (1723-1790). A differenza delle dottrine mercantilistiche, che affermano i vantaggi di politiche economiche protezionistiche statali, il liberismo si fonda sulla completa libertà di produzione e di scambio di merci e servizi, sia sul piano interno sia su quello internazionale, contrapponendosi in tal senso a qualsiasi forma di interventismo e di protezionismo in campo economico da parte dello Stato. Quest’ultimo, infatti, deve limitarsi a garantire con norme giuridiche la libertà economica e a provvedere ai bisogni della collettività soltanto quando non possono essere soddisfatti privatamente.

Con tonalità, modalità e risvolti socio-politici diversi, il liberismo si fonda sul principio del laissez faire, espressione attribuita al mercante francese Legendre (1680) ma passata alla storia come laissez faire, laissez passer (lasciate fare, lasciate passare) grazie al protoliberista fisiocratico J.C.M Vincent de Gournay (1712-1759). Il laissez faire afferma che il funzionamento ottimale del sistema economico scaturisce dalla libera iniziativa dei singoli individui (che significa innanzitutto proprietà privata dei mezzi di produzione), che nel perseguimento del proprio interesse non devono essere condizionati né ostacolati da nessun vincolo esterno (imposto dall’interferenza dello Stato).

Quando viene interpretato in senso lockeiano (John Locke, 1632-1704), il laissez faire, laissez passer porta alla esaltazione delle virtù di un libero mercato concepito come un sistema a sé stante, autonomo, autodeterminato e autosufficiente, un sistema che non deve in alcun modo essere influenzato o controllato dal (ma che può influenzare e controllare il) contesto culturale e politico entro cui agisce. Come scriverà il neoliberista Friedrich von Hayek [11]: Chiunque controlli l’intera attività economica controlla i mezzi per tutti i nostri fini e deve quindi decidere quali di questi fini devono essere soddisfatti e quali no. (….) Il controllo economico non è solo il controllo di un settore della vita umana il quale possa venir separato dal resto; è il controllo dei mezzi per tutti i nostri fini. E chiunque abbia l’esclusivo controllo dei mezzi deve anche determinare quali fini debbono essere realizzati, quali valori debbano venir considerati come superiori e quali inferiori: in breve, cosa gli uomini devono credere e a cosa devono aspirare.

Quando viene interpretato in senso smithiano, invece, il laissez faire, laissez passer del liberismo deve tenere conto del fatto che la libertà di mercato non può che realizzarsi in un contesto culturale e politico in cui sia garantita la libertà dell’individuo e la certezza del diritto.

_____________

9. In: Miglio, G., Schiera, P. (a cura di) (1972) Le categorie del “politico”, Ed. Il Mulino, p. 61.

10. L’aver reso mortale l’immortale e immortale il mortale (la consustanzialità della pericoresi cristologica, base del dogma della Trinità), è una operazione di metafisica applicata per scopi pratici unica nel suo genere, che accoglie in pieno l’istanza aristotelica: ciò che attiene al Lògos (in Platone il Cielo iperuranico delle Idee), al Motore Immobile (in Aristotele la metafora della antistoricità della metafisica), per quanto sublime possa essere, è per definizione estraneo a questioni di ordine pratico e quindi non-utile, perciò, noi, cultori dell’arte-arma del logos (la Dialettica, la serrata applicazione pratica della logica, e la Retorica, l’abilità nell’uso della parola come chiave di ogni autorità nello Stato), ci volgiamo all’uso esclusivo della Ragione delle idee (della matematica e della geometria).

11. Palesando la limitatezza del proprio orizzonte culturale, l’Homme nouveau contemporaneo, il cui Ego è affetto da una forma geneticamente modificata di elefantiasi, ha deciso di investigare la res cogitans con gli stessi strumenti utilizzati per addomesticare la res extensa. Sebbene la res cogitans non possa essere tradotta in un linguaggio quantitativo universale e costante come quello impiegato per descrivere il mondo delle forme, noi facciamo in modo che lo sia. Come? Sappiamo da tempo che gli agenti e i processi chimici influenzano la condizione e l’attività del Sistema Nervoso Centrale e Periferico. Oggi sappiamo che anche i processi neuro-elettro-chimici, associati a fenomeni neuro-elettro-magnetici, svolgono una azione analoga. In ragione di ciò stabiliamo che sussista un rapporto di equivalenza tra di essi e l’attività mentale (processi di pensiero), tale per cui ad ogni porzione di un tracciato elettroencefalografico, corrisponda una porzione di pensiero. Il che è palesemente falso: il dito che indica la Luna non è la Luna. 

12. Bene pubblico è la traduzione corrente del bonheur commun dell’Illuminismo degli esordi, una discutibile traduzione che generalizza il significato francese originario: felicità per quella parte del popolo francese che merita di essere felice, la borghesia illuminista e i suoi sostenitori.

13. Locke, J. (1689) Second Treatise, § 94
http://press-pubs.uchicago.edu/founders/documents/v1ch17s5.html  

14. È interessante notare che la metafora del laissez faire è la traduzione francese seicentesca della locuzione cinese wu-wei, resa nota agli europei dai missionari gesuiti durante il quindicesimo secolo, appartenente al Taoismo, nel cui contesto assume il significato di azione-senza-azione (il saggio agisce in conformità alla Legge del Tao, o Dao, l’equivalente del Dharma vedico e del Motore Immobile aristotelico, ovvero, egli agisce in conformità a ciò che trascende qualsiasi principio egoico). Nel confucianesimo il wu-wei viene utilizzato come metafora del governare-senza-governare, ovvero, la Legge del Tao (incarnata dall’Imperatore) viene tradotta in un sistema di norme e di regole che vivono nella Tradizione (la Storia è una sequenza di eventi contingenti su cui regna l’immutabilità della Tradizione), per diventare principio di governo eterno e assoluto, inamovibile e indistruttibile come una montagna.
Sugli eventi storici che vanno dalla introduzione negli ambienti intellettuali europei della formula di governo sottesa al wu-wei sino alla sua trasposizione nel motto liberista del laissez-faire, si veda: Gerlach, C. (2005) Wu-Wei in Europe. A Study of Eurasian Economic Thought, London School of Economics
http://hsozkult.geschichte.hu-berlin.de/daten/2005/gerlach_christian_wu-wei.pdf

1.3 Le due anime dell’Illuminismo

…la modernità abolisce la religione, in quanto sistema di significati e motore degli sforzi umani, ma, nello stesso tempo, crea  lo spazio-tempo di una utopia che, nella sua stessa struttura presenta una affinità con la problematica religiosa del compimento e della salvezza.

Danièle Hervieu-Léger15

L’instaurazione del paradigma Illuminista segna il punto di non ritorno della parabola discendente a cui è andato incontro, con l’istituzione del dogma della consustanzialità (omoousia) del Figlio con il Padre (Concilio di Nicea, 325 d.C.), quel poco che rimaneva di impensabile16, di non commestibile dai sensi, di non attaccabile dalla forchetta delle emozioni e dal coltello del pensiero discriminativo e speculativo, nella rappresentazione interna della realtà esterna occidentale. Ciò che viene consegnato alla storia è una visione materialista del mondo, con qualche reminescenza panteistica e qualche inclinazione verso esperienze interiori sentimentali, come quelle predicate dal pietismo di Jakob Spener (1635-1705), governata da due anime, le due anime dell’Illuminismo.

Partendo da argomentazioni diverse ma complementari, le due anime dell’Illuminismo affermano che il futuro dell’umanità è posto, in ragione di un ordine naturale per l’una (anima Naturofila), e in ragione di un ordine meccanico per l’altra (anima Tecnofila), nelle mani dei popoli civilizzati occidentali17, ovvero nelle mani del ceto borghese francese e inglese settecentesco e dei loro alleati e discendenti.

Le radici dell’anima Naturofila pescano nel retroterra culturale di origine ermetica-rosacrociana-massonica-esoterica [12] (a cui si ispira il giacobinismo radicale e a cui si ispirerà sia Auguste Comte e la sua Chiesa Positivista, che la corrente conservazionista del tecno-scientismo progressivo ottocentesco), rintracciabile nel deismo di Voltaire18 e dei philosophes, nelle idee universalistiche di Rosseau (attraversate da una aspirazione messianica a realizzare una società naturalmente perfetta) e nel panteismo naturalistico di Robespierre19.

L’anima Tecnofila, invece, a cui si ispirerà la corrente meccanicista (the mechanical philosophy) e determinista del tecno-scientismo progressivo, è figlia del suo tempo e nasce nel segno del dualismo cartesiano e della fisica newtoniana, inneggia, come fa Turgot20, al progresso come meta a cui inarrestabilmente tende il genere umano (il che voleva anche dire legittimare il messianismo colonialista, conquistatore e razzista, che pretendeva di civilizzare popoli giudicati inferiori per le loro istituzioni o il loro sviluppo) e alla perfettibilità indefinita del genere umano, come fa Marie-Jean-Antoine-Nicolas Caritat, Marquis de Condorcet (1743-1794)21: “Such is the object of the work I have undertaken; the result of which will be to show, from reasoning and from facts, that no bounds have been fixed to the improvement of the human faculties; that the perfectibility of man is absolutely indefinite; that the progress of this perfectibility, henceforth above the control of every power that would impede it, has no other limit than the duration of the globe upon which nature has placed us.

E proprio l’ottimismo nei confronti della scienza, la fiducia nel progresso scientifico, contribuiranno a determinare un ribaltamento concettuale assai significativo: la categoria della naturalità, la supposta esistenza di un ordine naturale eterno e immutabile, viene incalzata da quella dell’artificialità, della modificabilità. La natura, compresa la natura umana, viene pensata come scientificamente perfettibile, liberandola dalla ferrea legge di necessità. Ciò che è scientificamente modificato e artificialmente costruito diventa desiderabile.

_____________

15. Hervieu-Léger, D., Champion, F. (1986) Vers un nouveau christianisme?: introduction à la sociologie du christianisme occidental, Sciecies humaines et religions, 17, 187-227.

16.   Ciò che il domenicano Meister Eckhart (1260-1328? d.C.) esprime così: Now observe: God is nameless because none can say or understand anything about Him. Concerning this a pagan master says that what we understand or declare about the first cause is more what we ourselves are than what the first cause is, because it is above all speech or understanding. If I now say God is good, it is not true; rather, I am good, God is not good. I will go further and say I am better than God: for what is good can become better, and what can become better can become best of all. Now God is not good, therefore He cannot become better. And since He cannot become better, therefore He cannot become best; for these three, good, better, and best, are remote from God, since He is above them all. Thus, too, if I say God is wise, it is not true: I am wiser than He. So too if I say God is a being, that is not true: He is a transcendent being, and a superessential nothingness. St. Dionysius says the finest thing one can say about God is to be silent from the wisdom of inner riches. So be silent and do not chatter about God, because by chattering about Him you are lying and so committing a sin. So, if you want to be without sin and perfect, don’t chatter about God. Nor should you (seek to)understand anything about God, for God is above all understanding. One master says, ‘If I had a God I could understand, I would no longer consider him God.’ So, if you understand anything of Him, that is not He, and by understanding anything of Him you fall into misunderstanding, and from this misunderstanding you fall into brutishness, for whatever in creatures is uncomprehending is brutish. So, if you don’t want to become brutish, understand nothing of God the unutterable.
– ‘Oh, but what should I do then?’ You should wholly sink away from your youness and dissolve into His Hisness, and your ‘yours’ and His ‘His’ should become so completely one ‘Mine’ that with Him you understand His uncreated self-identity and His nameless Nothingness. [O’C Walshe, M. (translated by) (2009) The Complete Mystical Works of Meister Eckhart, Herder & Herder Book, p. 463. https://philocyclevl.files.wordpress.com/2016/10/meister-eckhart-maurice-o-c-walshe-bernard-mcginn-the-complete-mystical-works-of-meister-eckhart-the-crossroad-publishing-company-2009.pdf]

17. Will not every nation one day arrive at the state of civilization attained by those people who are most enlightened, most free, most exempt from prejudices, as the French, for instance, and the Anglo-Americans? [Caritat de Condorcet, M.J.A.N. (1794) Outlines of an historical view of the progress of the human mind, Tenth Epoch, Future Progress of Mankind.
http://oll.libertyfund.org/titles/condorcet-outlines-of-an-historical-view-of-the-progress-of-the-human-mind#lf0878_head_013]

18. Il deismo è una religione senza misteri e senza riti, contrapposta al teismo, che afferma solo verità ammesse e comprese dalla ragione: l’esistenza di un Essere Supremo, il Deus Absconditus degli esoterici, creatore e ordinatore dell’universo, causa superiore dell’esistenza e dell’ordine del mondo; l’esistenza del bene e del male e di una certa morale naturale; l’esistenza di un’anima immortale e/o di una vita post-mortem. Tutti temi che sono tornati in voga grazie al sincretismo che si è prodotto tra rivoluzione quantistica e filosofie orientali, in particolare il buddhismo, da cui ha preso forma una generazione di neo-deisti, sempre più convinti di avere prove scientifiche e argomentazioni filosofiche a sostegno dell’esistenza di una Coscienza Universale e di una vita post-mortem (→NDE).

19. Il 9 novembre 1792 il filosofo e matematico Caritat, marchese di Condorcet, sul giornale Chronique de Paris, di tendenza girondina, scrisse che Robespierre era il “capo di una setta”, un “predicatore” che “sale sui banchi e parla di Dio e della Provvidenza”. E concluse che Robespierre “è un prete e non sarà mai altro che un prete”. E non si può dire che Condorcet avesse torto. Il 7 maggio 1794, Robespierre fece decretare dalla Convenzione l’esistenza dell’Essere supremo e l’immortalità dell’anima, nominando se stesso – per la Festa dell’Essere supremo – sommo sacerdote di questa evanescente divinità.

20. Anne Robert Jacques Turgot, barone di Laulne (1727-1781), fu un noto uomo di stato ed economista di notevole levatura, oltre che filosofo. Per Turgot la storia è diversa dalla natura, perché al contrario di essa non si riproduce in modo sempre uguale. Essa è opera dell’uomo e per questo nella storia c’è il progresso verso una sempre maggiore perfezione. Questo è il cardine della filosofia della storia di Turgot: il progresso come meta a cui inarrestabilmente tende il genere umano. «Ragione, passione e libertà», sono queste, per Turgot, le anime del progresso (Anne Robert Jacques Turgot, Discourses on Universal History and a Project on Political Geography, 1751). 

21. Caritat de Condorcet, M.J.A.N. (1794) Outlines of an historical view of the progress of the human mind, Tenth Epoch, Future Progress of Mankind.
http://oll.libertyfund.org/titles/condorcet-outlines-of-an-historical-view-of-the-progress-of-the-human-mind#lf0878_head_013

1.4 L’alba del processo di industrializzazione

Fu solo con il sorgere dell’industrialismo che la tecnica  cominciò ad occupare i pensieri degli uomini (….) il più importante effetto della produzione meccanica sulla rappresentazione del mondo è un enorme aumento del sentimento di potenza dell’uomo. (….) nessun cambiamento  sembra impossibile. La natura è solo una materia prima;  e tale è quella parte della razza umana che non partecipa effettivamente al governo.

Bertrand Russell – Storia della filosofia occidentale

Sotto l’azione propulsiva impressa dalle due anime della rivoluzione paradigmatica illuminista, prendono avvio due processi di cambiamento epocali. Uno segna la transizione da una monarchia di diritto divino, assoluta, retta dalla divisione dei beni e dei privilegi tra nobiltà feudale e clero, ad una monarchia costituzionale basata sui principî laici e repubblicani di uguaglianza libertà e fratellanza proclamati dalla Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen (1789), che condurrà l’Occidente ad assumere sì forme di governo parlamentari, ma che lo esporrà anche a derive di autoritarismo del Bene Pubblico (come nel caso del totalitarismo stalinista e hitleriano, e come è per l’attuale deriva imperialista alias globalizzazione, che pretende di instaurare un regime del Bene Pubblico mondiale retto da interessi finanziari sovranazionali oligarchici).

L’altro processo, forse ancora più caratterizzante del primo e destinato ad avere uno sviluppo e un’azione ancora più incisiva e trasversale sul destino dei popoli, segna la transizione da un modello economico protezionista e mercantile, basato su agricoltura-artigianato-commercio, ad un modello liberista industriale, basato sull’uso mirato, imprenditoriale, specialistico dei sistemi meccanici azionati da fonti energetiche inanimate, che sfocerà nel processo di industrializzazione (Rivoluzione Industriale 1.0, Inghilterra, seconda metà del XVIII secolo) [Fig. 1].

A differenza del processo di trasformazione sociale, i cui presupposti e le cui dinamiche richiedono tempi di elaborazione e di attuazione complicati e incerti, difficilmente estrapolabili dal contesto storico e culturale occidentale, e quindi difficilmente esportabili in altri contesti socio-politici, il processo di trasformazione economica presenta un elevato grado di penetrazione in, e di adattabilità a, ambienti socio-culturali anche molto diversi da quello occidentale, garantisce a chi lo governa elevati margini di guadagno, favorisce l’acquisizione di nuovi potenti strumenti di potere ed apre prospettive di ben-essere altrimenti impensabili. Sarà questo processo, infatti, a diffondersi con diverse modalità e velocità prima nel continente europeo occidentale (XVIII secolo/Rivoluzione Industriale 1.0 XIX secolo/Rivoluzione Industriale 2.0) per poi essere esportato e progressivamente adottato (XIX secolo/Rivoluzione Industriale 2.0 XX secolo/Rivoluzione Industriale 3.0) dalle colonie europee del Nuovo Mondo, dal continente europeo orientale, dal Giappone e a seguire dalla Cina, dalle colonie europee dell’Oceania, del Sud Africa e del Sud America, dall’Est asiatico, dal Medio Oriente ed infine, con il crollo del muro di Berlino (XX secolo/Rivoluzione Industriale 3.0 XX secolo/Rivoluzione Industriale 4.0), dall’India e in parte anche dal Nord Africa.

La centralità dei sistemi meccanici nel modello economico industriale, richiede un adeguamento del capitale umano, impiegato nella filiera produttiva, direttamente proporzionale alle esigenze imposte dalle caratteristiche del capitale tecnologico investito22. È in quest’epoca che il processo di integrazione tra uomo e tecnologia (sistemi meccanici) muove i suoi primi passi, partendo dal presupposto che il capitale umano scarsamente o per nulla dotato di res cogitans (gli schiavi deportati dalle colonie e tutti i non appartenenti alla razza bianca, le donne, i bambini e i maschi prestatori d’opera) deve esercitare il proprio ruolo produttivo in funzione del capitale tecnologico.

Come conseguenza di questa ineludibile prescrizione, prende corpo un processo di integrazione uomo-macchina che, in conformità ai postulati delle due anime dell’Illuminismo, contempla l’idea di una umanità suscettibile di correzioni e di adeguamenti, che possono essere indotti sia naturalmente che artificialmente, allo scopo di rendere le caratteristiche e le prestazioni antropiche conformi alle caratteristiche e prestazioni dei sistemi meccanici.

La Rivoluzione Industriale 2.0 (seconda metà del XIX secolo) decolla con la consapevolezza che il  processo di integrazione uomo-macchina non è l’unica condizione a caratterizzare il processo di industrializzazione. Perché questo processo possa essere efficace, prevedibile e riproducibile nel tempo e nello spazio del modello economico liberista (ma anche di quello protezionista elaborato dal materialismo storico), deve poter soddisfare, e qui il fine giustifica i mezzi (tutte le guerre del XX e XXI secolo lo dimostrano), almeno altre tre condizioni:

– un adeguato approvvigionamento e sfruttamento delle fonti energetiche (adeguamento dell’offerta alla richiesta crescente di energia, prevalentemente derivata da combustibili fossili, necessaria al funzionamento dei sistemi meccanici; è da qui che nasce la definizione di energia come capacità di un corpo o di un sistema di compiere lavoro)

– un adeguato approvvigionamento e una adeguata lavorazione delle materie prime (adeguamento dell’offerta alla richiesta crescente dei materiali necessari alla produzione dei componenti dei sistemi meccanici e dei loro prodotti finali23)

– una adeguata ricerca e implementazione di nuove soluzioni tecniche e tecnologiche (adeguamento dell’offerta alla richiesta di ampliamento, diversificazione e ottimizzazione delle caratteristiche e delle prestazioni fornite dai sistemi meccanici; è in questa direzione che, a decorrere dalla prima metà del ‘900, andrà rafforzandosi l’academic/industrial/military iron triangle”). 

Da e su questi presupposti viene varata la nave dell’Homo Technologicus.

Salpata dal porto inglese della Rivoluzione Industriale 1.0, con a bordo la prima generazione di soluzioni, correzioni e adeguamenti (integrate strada facendo dalle soluzioni e dagli strumenti eugenetici) delle caratteristiche e delle prestazioni antropiche, in funzione delle caratteristiche e prestazioni dei sistemi meccanici, la nave dell’Homo Technologicus giunge a noi, al porto globalizzato della Rivoluzione Industriale 4.0, in versione Homo Artificialis, con un carico incredibilmente rinnovato, iper-tecnologico, sofisticato, futuristico, potenziato da soluzioni, correzioni e adeguamenti supportati dalla cosiddetta Intelligenza Artificiale, dalla manipolazione genetica24 e dalla mutazione digitale, che nel breve e nel medio termine promettono di trasformare gli esseri umani, manipolando le loro linee germinali (CRISPR-Cas9) [13] [14] [15] [16] ed equipaggiandoli con componenti elettroniche interne ed esterne (brain machines interfaces/brain computer interfaces) [17] [18] [19] [20] [21] [22] [23] [24] [25], in ibridi uomo-macchina (cyborg), destinati ad essere di supporto a sistemi meccanici computerizzati pseudo-intelligenti o diversamente intelligenti, ai quali già oggi viene giuridicamente riconosciuto lo status di personalità elettroniche (robot)25 .

                                 Fig. 1 – Le quattro Rivoluzioni Industriali

Durante la seconda metà del XVIII secolo, l’Inghilterra iniziò un processo di industrializzazione che spinse il Vecchio e il Nuovo Mondo ad abbandonare gradualmente il sistema economico mercantilista, basato su agricolutura-artigianato-commercio, in favore di un sistema economico industriale, caratterizzato dall’uso estensivo e intensivo di macchine alimentate da energia meccanica e dall’uso di fonti inanimate di energia. La figura mostra la cronologia delle principali innovazioni che hanno accompagnato le trasformazioni più significative in campo tecnologico e scientifico, dalla prima alla quarta Rivoluzione Industriale. Image source: http://www.borsaitaliana.it/notizie/sotto-la-lente/rivoluzione-252.htm

_____________

22. Il pragmatismo imprenditoriale borghese e scientifico, reinterpretato in chiave collettivista dal materialismo dialettico di C. Marx e F. Engels, ha sistematizzato il rapporto tra capitale umano (mano d’opera) e capitale tecnologico (sistemi meccanici, tecnici) nel cosiddetto ciclo produttivo, che consiste nell’organizzazione del lavoro e del profitto regolata da una scala di valori piramidale, dove il capitale umano (facilmente rimpiazzabile) occupa il gradino più basso, e il capitale tecnologico (difficilmente rimpiazzabile) quello più alto.

23. Attualmente Stati Uniti, Cina e Russia hanno avviato la pianificazione di appositi programmi spaziali destinati allo sfruttamento futuro (2050?) di materie prime rare (ad es. elio-3, plagioclasio, uranio, platino, titanio, palladio, iridio) necessarie al progresso tecnologico, presenti in percentuale non trascurabile sulla Luna o sugli asteroidi ma difficili o impossibili (o destinate ad esaurirsi) da reperire sul nostro pianeta.

24. Oggi gli scienziati sono in grado di modificare le linee germinali grazie ad una tecnica rivoluzionaria di editing del genoma nota come CRISPR-Cas9, una tecnica che secondo alcuni, come Robert Pollack (Department of Biological Sciences, Columbia University, New York), può aprire al ritorno del programma eugenetico: alla selezione positiva delle versioni “giuste” (fit) del genoma umano e all’eliminazione di quelle “sbagliate” (unfit) non solo per la salute di un individuo, ma per il futuro della specie.
Vedi: Pollack, R. (2015) Eugenics lurk in the shadow of CRISPR, Science, Vol. 348, Issue 6237, pp. 871. Available at:
http://www.columbia.edu/cu/biology/pdf-files/faculty/pollack/2015%20Pollack%20R.%20_CRISPR%20eugenics_%20Science.pdf

25. Vedi: Risoluzione del Parlamento europeo del 16 febbraio 2017 recante raccomandazioni alla Commissione concernenti norme di diritto civile sulla robotica (2015/2103(INL).
http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//TEXT+TA+P8-TA-2017-0051+0+DOC+XML+V0//IT

2. Dalla Rivoluzione Industriale 1.0 alla Rivoluzione Industriale 3.0: cenni storici

Capitalism is not only a better form of organizing human
activity than any deliberate design, any attempt to organize
it to satisfy particular preferences, to aim at what people regard
as beautiful or pleasant order, but it is also the indispensable
condition for just keeping that population alive which exists
already in the world. I regard the preservation of what is known
as the capitalist system, of the system of free markets and the
private ownership of the means of production, as an essential
condition of the very survival of mankind.

Friedrich August von Hayek (1899-1992)26

I sistemi politici, sociali ed economici di buona parte del mondo contemporaneo non esisterebbero senza l’introduzione dei sistemi meccanici nei cicli produttivi, un evento di portata epocale che si è concretizzato con la Rivoluzione Industriale 1.0 (Inghilterra, seconda metà del ‘700, meccanizzazione della produzione nel settore tessile e metallurgico, invenzione della macchina a vapore) e che a decorrere dalla prima metà del XIX secolo viene regolato dalle, ed è variamente subordinato alle leggi di mercato introdotte dalle oligarchie finanziarie che controllano i sistemi borsistici (merci e valori), tradizionalmente il London Stock Exchange (anno di fondazione 1801) e il New York Stock Exchange (1817).

L’epoca della Rivoluzione Industriale 1.0 si distingue dalle epoche precedenti per la sistematica introduzione di invenzioni e innovazioni tecnologiche che diedero corso: a) ad una crescente meccanizzazione dei processi produttivi; b) alla comparsa di macchine utensili efficienti e precise (come il telaio meccanico idraulico) e all’ideazione di macchine alimentate dalla forza del vapore (la messa a punto di una macchina a vapore economicamente e tecnicamente vantaggiosa ed efficiente, fu resa possibile dall’uso delle nuove alesatrici realizzate intorno al 1775 dal britannico John Wilkinson, utilizzate inizialmente per produrre canne di cannone, che consentirono a Watt di costruire con la dovuta precisione i cilindri per le sue macchine a vapore), dalle quali derivò l’incremento della produttività del lavoro salariato; c) alla possibilità di fabbricare oggetti standardizzati e dalle parti intercambiabili; d) all’ascesa del carbone quale fonte predominante di energia e f) alla meccanizzazione dei trasporti (prima metà dell’800, imbarcazioni e locomotive a vapore).
Questa accelerazione dei ritmi dell’innovazione tecnologica non interessò in modo omogeneo l’intero territorio europeo. Per circa un secolo, la rivoluzione industriale rimase circoscritta all’Inghilterra, al Belgio, a parte della Francia e a zone ristrette della Germania. Tra gli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento, l’industrializzazione si estese e si intensificò in Germania, nell’Italia settentrionale, in regioni dell’Impero austro-ungarico e di quello russo, in Giappone e negli Stati Uniti.
È allora che i nuovi valori dell’urbanesimo industriale, i valori della borghesia civile e operosa, prendono il sopravvento costruendo un diverso modello di riferimento e una nuova identità collettiva.

Dalla seconda metà del XIX secolo (Rivoluzione Industriale 2.0) andò accrescendosi l’influenza della ricerca scientifica sull’evoluzione dell’industria. La novità di questo periodo sta nell’inedita alleanza che si crea fra scienza, tecnica e industria. La ricerca scientifica  è sempre più orientata verso le sue potenziali applicazioni industriali e sempre più spesso realizzata nei laboratori delle grandi imprese, che ne applicano sistematicamente i risultati alla produzione, determinando lo sviluppo di comparti prima inesistenti o dalla rilevanza limitata, quali quelli dell’acciaio, dell’elettricità e della chimica. A differenza dei decenni precedenti, gli inventori tendono ad avere una solida preparazione scientifica (sono matematici, ingegneri, biologi, chimici, fisici) e quelle di scienziato, tecnico, ricercatore diventano professioni altamente specializzate.
Queste trasformazioni furono accompagnate da altre inerenti l’organizzazione della produzione. La crescita degli investimenti e dei costi da sostenere, sempre meno facilmente affrontabili da parte delle imprese familiari, condusse all’affermazione delle società per azioni, alla dipendenza di molte imprese dal credito bancario, alla ricerca di economie di scala tramite la crescita dimensionale delle aziende e a politiche di fusioni e di cartello volte a limitare la concorrenza e ad integrare in un’unica struttura societaria le imprese protagoniste delle diverse fasi della produzione di determinati beni.
In molti stati il sistema scolastico e universitario conobbe un’evoluzione funzionale ad assecondare le esigenze dell’industria, che andava esprimendo una crescente domanda di lavoratori qualificati.
Fu il sistema di fabbrica il cuore pulsante di quella che si delineava progressivamente come la nuova organizzazione della società e del lavoro. L’applicazione su vasta scala della tecnologia alla produzione portò sempre più a concentrare masse di lavoratori in fabbriche organizzate secondo criteri razionali, con funzioni, orari, ritmi definiti in base alle esigenze della divisione del lavoro. In quest’ambito, la meccanizzazione investì massicciamente le aziende a conduzione capitalistica, a partire dai settori tessili, minerari, siderurgici e meccanici, mentre, di pari passo, l’introduzione del vaporetto, delle prime linee ferroviarie e del telegrafo permise di costruire una nuova e potentissima rete per il trasporto delle merci e delle persone e per la comunicazione.

Per eugenetisti come Margaret Sanger (1879-1966), fondatrice del Planned Parenthood, gli effetti della Rivoluzione Industriale 2.0 rappresentavano una minaccia, in risposta alla quale veniva invocata la pianificazione e il ricorso ad appositi programmi per il controllo delle nascite dei non-adatti (unfit). Ecco cosa scrive la Sanger a questo proposito nel suo libro The Pivot of Civilization, pubblicato nel 1922 [26]:
The history of the industrial revolution and the dominance of all- conquering machinery in Western civilization show the inadequacy of political and economic measures to meet the terrific rise in population. The advent of the factory system, due especially to the development of machinery at the beginning of the nineteenth century, upset all the grandiloquent theories of the previous era. To meet the new situation created by the industrial revolution arose the new science of «political economy,» or economics. Old political methods proved inadequate to keep pace with the problem presented by the rapid rise of the new machine and industrial power. The machine era very shortly and decisively exploded the simple belief that «all men are born free and equal.» Political power was superseded by economic and industrial power. To sustain their supremacy in the political field, governments and politicians allied themselves to the new industrial oligarchy. Old political theories and practices were totally inadequate to control the new situation or to meet the complex problems that grew out of it.
Just as the eighteenth century saw the rise and proliferation of political theories, the nineteenth witnessed the creation and development of the science of economics, which aimed to perfect an instrument for the study and analysis of an industrial society, and to offer a technique for the solution of the multifold problems it presented. But at the present moment, as the outcome of the machine era and competitive populations, the world has been thrown into a new situation, the solution of which is impossible solely by political or economic weapons.
The industrial revolution and the development of machinery in Europe and America called into being a new type of working-class. Machines were at first termed «labor-saving devices.» In reality, as we now know, mechanical inventions and discoveries created unprecedented and increasingly enormous demand for «labor.» The omnipresent and still existing scandal of child labor is ample evidence of this. Machine production in its opening phases, demanded large, concentrated and exploitable populations. Large production and the huge development of international trade through improved methods of transport, made possible the maintenance upon a low level of existence of these rapidly increasing proletarian populations. With the rise and spread throughout Europe and America of machine production, it is now possible to correlate the expansion of the «proletariat.» The working-classes bred almost automatically to meet the demand for machine-serving «hands.»
The rise in population, the multiplication of proletarian populations as a first result of mechanical industry, the appearance of great centers of population, the so-called urban drift, and the evils of overcrowding still remain insufficiently studied and stated. It is a significant though neglected fact that when, after long agitation in Great Britain, child labor was finally forbidden by law, the supply of children dropped appreciably. No longer of economic value in the factory, children were evidently a drug in the «home.» Yet it is doubly significant that from this moment British labor began the long unending task of self-organization. Nineteenth century economics had no method of studying the interrelation of the biological factors with the industrial. Overcrowding, overwork, the progressive destruction of responsibility by the machine discipline, as is now perfectly obvious, had the most disastrous consequences upon human character and human habits. Paternalistic philanthropies and sentimental charities, which sprang up like mushrooms, only tended to increase the evils of indiscriminate breeding. From the physiological and psychological point of view, the factory system has been nothing less than catastrophic.
Dr. Austin Freeman has recently pointed out some of the physiological, psychological, and racial effects of machinery upon the proletariat, the breeders of the world. Speaking for Great Britain, Dr. Freeman suggests that the omnipresence of machinery tends toward the production of large but inferior populations. Evidences of biological and racial degeneracy are apparent to this observer. «Compared with the African negro,» he writes, «the British sub-man is in several respects markedly inferior. He tends to be dull; he is usually quite helpless and unhandy; he has, as a rule, no skill or knowledge of handicraft, or indeed knowledge of any kind… Over- population is a phenomenon connected with the survival of the unfit, and it is mechanism which has created conditions favorable to the survival of the unfit and the elimination of the fit.» (…) One thing is certain. If machinery is detrimental to biological fitness, the machine must be destroyed, as it was in Samuel Butler’s «Erewhon.» But perhaps there is another way of mastering this problem.
(…) Birth Control which has been criticized as negative and destructive, is really the greatest and most truly eugenic method, and its adoption as part of the program of Eugenics would immediately give a concrete and realistic power to that science. As a matter of fact, Birth Control has been accepted by the most clear thinking and far seeing of the Eugenists themselves as the most constructive and necessary of the means to racial health.

La prima metà del XX secolo fu segnata dall’accentuarsi in tutti i paesi industrializzati delle politiche protezioniste e dirigiste emerse nel corso del secolo precedente. Questa tendenza si manifestò soprattutto nelle epoche segnate dai due conflitti mondiali (nelle quali gli stati furono obbligati a ricercare l’autosufficienza nei vari settori produttivi e a sottoporre ad uno stretto controllo l’attività industriale, per renderla funzionale agli sforzi bellici).
Nei primi decenni del secolo il progresso scientifico-tecnologico favorì, come aveva già fatto nel tardo Ottocento, il progresso dei settori industriali esistenti e la nascita di nuovi comparti. In particolare, si ebbero allora una grande crescita dei consumi elettrici, la diffusione di inediti strumenti di comunicazione (telefono e radio), una crescente meccanizzazione dell’agricoltura e lo sviluppo dell’aviazione e dell’industria automobilistica.
Dalla seconda guerra mondiale i paesi europei uscirono enormemente indeboliti sul piano industriale, a causa delle distruzioni belliche, della penuria di risorse finanziarie e della rottura dei rapporti commerciali con gli altri continenti, mentre gli Stati Uniti ne uscirono rafforzati, non soltanto perché i loro apparati produttivi non avevano subito danni diretti, ma anche perché la forte domanda bellica ne aveva stimolato l’espansione e la modernizzazione.
In questo scenario internazionale post bellico, l’academic/industrial/military iron triangle statunitense si aggiudica il potere, a tutt’oggi incontrastato, di trainare su scala planetaria il processo di industrializzazione e di decidere le sorti del processo di integrazione uomo-macchina. L’azione propulsiva impressa sull’uno e sull’altro dall’esercizio del sapere e del saper fare statunitense, diviene così il fattore determinante e caratterizzante della transizione dalla seconda alla terza, e dalla terza alla quarta, rivoluzione industriale.

3. Tecno-scientismo progressivo: dall’Eugenica alla Intelligenza Artificiale

[Eugenics] must be introduced into the national conscience,
like a new religion. It has, indeed, strong claims to become an
orthodox religious tenet of the future, for eugenics co-operate with
the workings of nature by securing that humanity shall be
represented by the fittest races. What nature does blindly, slowly,
and ruthlessly, man may do providently, quickly, and kindly.

Francis Galton27

L’affermarsi del pensiero positivista va di pari passo con la transizione dalla prima alla seconda rivoluzione industriale.

Grazie all’azione esercitata dalle due anime dell’Illuminismo, Naturofila e Tecnofila, sul processo di integrazione uomo-macchina 2.0, e sotto le suggestioni offerte dalla teoria darwinista dell’evoluzione, il ceto borghese europeo della seconda metà dell’800 non interpreta più la realtà secondo le tradizionali categorie metafisiche dell’immutabilità e della necessità, dell’innatismo e della fissità, ma piuttosto del dinamismo e del progresso (scientifico, tecnologico e industriale).
L’evoluzionismo, nuovo dogma ottocentesco della metafisica applicata per scopi pratici, descrive il movimento della storia, e soprattutto interpreta questo movimento universale finalisticamente, ossia come orientato ad un approdo positivo, la condizione di felicità universale, assimilando in questo senso la concezione progressiva della storia introdotta con la promessa giudaico-cristiano del Regno dei Cieli, poi reinterpretata in senso materialista dall’Illuminismo.
In questo contesto, sia culturale che sociale, si afferma quella corrente di pensiero che chiamiamo tecno-scientismo progressivo. Sul piano culturale, il tecno-scientismo progressivo radicalizza i motivi di convergenza tra scientismo (Francia, seconda metà del XIX secolo) e social-darwinismo (Inghilterra, seconda metà del XIX secolo), tra la fede nel potere della scienza come metafisica di certezze indubitabili-assolute e della tecnologia come prova tangibile della sua efficacia, e la convinzione che l’evoluzione lineare, progressiva e ascendente applicata da Darwin ai sistemi biologici possa essere applicata anche ai sistemi sociali (darwinismo sociale → Herbert Spencer): la realtà esprime uno sviluppo universale, costante, progressivo e necessario, verso forme sempre più evolute di vita, dal semplice al complesso, dall’omogeneo all’eterogeneo, dall’inferiore al superiore. Sul piano sociale, il tecno-scientismo progressivo accoglie in pieno le istanze più radicali, in odore di messianismo colonialista conquistatore e razzista, espresse dal ceto borghese illuminista, ovvero: i) la borghesia ha piena facoltà di rivendicare e di perseguire il diritto-dovere di civilizzare popoli e individui giudicati inferiori per le loro culture o il loro sviluppo [Fig. 2], affinchè tutti si conformino allo stato di civiltà e di sviluppo cui sono giunti i popoli e gli individui più illuminati, più liberi, più emancipati dai pregiudizi, quali i francesi e gli anglo-americani (Condorcet); ii) la borghesia ha piena facoltà di rivendicare e di perseguire il diritto-dovere di migliorare l’umanità attraverso una progressiva selezione e/o modificazione e/o integrazione e/o sostituzione, naturale e/o artificiale, dell’essere umano, seguendo i criteri dettati dal progresso scientifico (la scienza e la tecnica, in virtù dell’efficacia dei loro mezzi, possono trasformare ciò che si pensava naturalmente predeterminato).

Fig. 2 – Parisian world fair 1931

I Giardini zoologici umani erano mostre pubbliche (anche note come esposizione etnologica, mostra di esseri umani, villaggio dei negri) del XIX e XX secolo, che esibivano persone, quasi esclusivamente non-europei, trattate come animali da circo. Africani, asiatici, indigeni e molti altri esponenti di etnie non-europee venivano spesso ingabbiati ed esposti in habitat allestiti ad hoc per il piacere dei visitatori. I Giardini zoologici e le mostre di popolazioni esotiche divennero comuni dagli anni ’70 del XIX secolo agli anni ’30 del XX secolo, durante il periodo del Nuovo Imperialismo coloniale. Vennero allestiti in molte città del Vecchio e del Nuovo Mondo tra cui Amburgo, Anversa, Barcellona, Londra, Milano, Parigi, New York, Varsavia, St. Louis e New York City, e attirarono milioni di visitatori, con un giro d’affari enorme. La matrice razzista, alimentata dal darwinismo sociale e dal pensiero eugenetico, era il fattore comune a tutti questi eventi attrattivi, eventi capaci di celebrare la superiorità della razza bianca anche grazie alla esposizione denigratoria di un africano affiancato da una scimmia, a dimostrazione di una ostentata affinità morfologica e dunque genealogica.
Image source: https://gherkinstomatoes.com/2011/06/30/eating-around-the-empire-in-a-day-the-1931-paris-international-colonial-exposition/

L’Eugenica e l’Intelligenza Artificiale rappresentano rispettivamente il primo e l’ultimo Manifesto ideologico del progetto di perfezionamento illimitato dell’umanità intrapreso dal tecno-scientismo progressivo.

____________

27. Galton, F. (1904) Eugenics: its definition, Scope, And Aims, The American Journal Of Sociology, Volume X, Number 1. http://galton.org/essays/1900-1911/galton-1904-am-journ-soc-eugenics-scope-aims.htm 

28. In accordo con l’indicazione fornita da Francesco Cassata [Cassata, F. (2006) Molti, sani e forti. L’eugenetica in Italia, Bollati Boringhieri], adotto il termine eugenica come sostantivo e il termine eugenetico/a come aggettivo.

3.1 Tecno-scientismo progressivo e pensiero eugenetico

I propose that 100,000 degenerate Britons should be
forcibly sterilized and others put in labour camps to
halt the decline of the British race.

Winston Churchill29

Il pensiero eugenetico è il discorso in chiave Naturofila/conservazionista e Tecnofila/meccanicista sul perché la razza caucasica (John Friederich Blumenbach, 1865) sia superiore alle altre razze e sul come questo primato autoreferenziale e pseudoscientifico debba essere salvaguardato.
Una corrente di pensiero che sembra soddisfare il bisogno dei positivisti e dei neo-positivisti, già chiaramente espresso da Auguste Comte30, di trovare un sostituto scientifico dell’ortodossia clericale (Adam Cohen definisce l’Eugenica come una sorta di religione secolare [27]), capace di avverare concretamente il sogno di un perfezionamento illimitato e scientifico dell’umanità. Un sogno dove l’ordine e la felicità sono garantiti su base bio-psichica dalla segregazione, reificazione, eliminazione dei non-adatti (unfit), gli inferiori (disgenici), e dalla valorizzazione razziale, meritocratica (oggi tornata in voga sotto la spinta neo-liberista della globalizzazione) e di genere, degli adatti (fit), i superiori (eugenici).

La corrente conservazionista del pensiero eugenetico nasce all’insegna della biologia evolutiva, dalla elaborazione positivista dell’anima Naturofila illuminista, per sostenere la soppressione dei non-adatti (unfit) e il controllo della loro riproduzione e diffusione con strategie e metodi considerati naturali, una posizione che l’economista inglese Thomas Robert Malthus (1766-1834) anticipava bene con queste parole31: All the children born, beyond what would be required to keep up the population to this level, must necessarily perish, unless room be made for them by the deaths of grown persons. (…) To act consistently therefore, we should facilitate, instead of foolishly and vainly endeavouring to impede, the operations of nature in producing this mortality; and if we dread the too frequent visitation of the horrid form of famine, we should sedulously encourage the other forms of destruction, which we compel nature to use. Instead of recommending cleanliness to the poor, we should encourage contrary habits. In our towns we should make the streets narrower, crowd more people into the houses, and court the return of the plague. In the country, we should build our villages near stagnant pools, and particularly encourage settlements in all marshy and unwholesome situations. But above all, we should reprobate specific remedies for ravaging diseases; and those benevolent, but much mistaken men, who have thought they were doing a service to mankind by projecting schemes for the total extirpation of particular disorders.

La corrente meccanicista nasce all’insegna della concezione deterministica esposta dal matematico e astronomo Pierre-Simon de Laplace nel Système du monde (1814), dalla elaborazione positivista dell’anima Tecnofila illuminista, per promuovere il perfezionamento scientifico illimitato, con strategie e metodi artificiali, della specie umana, ovvero la sua progressiva omologazione “allo stato di civiltà cui sono giunti i popoli più illuminati, più liberi, più emancipati dai pregiudizi, quali i francesi e gli anglo-americani” (Condorcet). Una posizione già eloquentemente anticipata da Condorcet [28]: In sine, may it not be expected that the human race will be ameliorated by new discoveries in the sciences and the arts, and, as an unavoidable consequence, in the means of individual and general prosperity; by farther progress in the principles of conduct, and in moral practice; and lastly, by the real improvement of our faculties, moral, intellectual and physical, which may be the result either of the improvement of the instruments which increase the power and direct the exercise of those faculties, or of the improvement of our natural organization itself? (….) And who shall presume to foretel to what perfection the art of converting the elements of life into substances sitted for our use, may, in a progression of ages, be brought? But supposing the affirmative, supposing it actually to take place, there would result from it nothing alarming, either to the happiness of the human race, or its indesinite perfectibility (…) Would it even be absurd to suppose this quality of melioration in the human species as susceptible of an indefinate advancement; to suppose that a period must one day arrive when death will be nothing more than the effect either of extraordinary accidents, or of the slow and gradual decay of the vital powers; and that the duration of the middle space, of the interval between the birth of man and this decay, will itself have no assignable limit? Certainly man will not become immortal; but may not the distance between the moment in which he draws his first breath, and the common term when, in the course of nature, without malady or accident, he finds it impossible any longer to exist, be necessarily protracted?

Il neologismo eugenica (eugenics32) viene coniato nei primi anni ’80 del diciannovesimo secolo dall’antropologo, statista, psicologo, esploratore inglese Francis Galton33 (1822-1911), primo cugino di Charles Darwin, ed assegnato ad un sistema di pensiero che teorizzava, con argomentazioni scientifiche estrapolate dalla neonata teoria mendeliana (delle modalità di trasmissione dei caratteri ereditari) e dalla neonata teoria darwinista (dell’evoluzione lineare, progressiva e ascendente dei sistemi biologici), il miglioramento progressivo della razza (razzismo biologico34) e la presunta superiorità intellettiva degli europei di sesso maschile, bianchi, istruiti e benestanti, rispetto agli altri gruppi razziali (ivi inclusi i gruppi sociali giudicati inferiori, come gli adulti bianchi dei ceti sociali svantaggiati e le donne, che venivano equiparati, per caratteristiche anatomiche e mentali, ai bambini maschi bianchi dei ceti ritenuti superiori, e presentati in chiave darwinista come esemplari viventi di fasi primitive dell’evoluzione lineare, progressiva e ascendente di questi ultimi).
Concetti come evoluzione e adattamento sono usati da Galton per legittimare la leadership della ricca borghesia dell’industria e del commercio, che aveva fatto grande la nazione inglese nello scenario internazionale e nei rapporti culturali tra razze35. Lo stesso concetto di selezione naturale (la selezione naturale sceglie tra le possibili variazioni casuali emergenti tra individui di una specie, quelle più favorevoli alla sopravvivenza, e perciò alla riproduzione in un particolare contesto ambientale, garantendo la sopravvivenza ai soli individui più adatti nella lotta per la vita e la morte – struggle for life and death) è usato in funzione ideologica e conservatrice, come criterio di distinzione tra adatti (fit) e non-adatti (unfit), avendo però già deciso il criterio di individuazione degli adatti, come stabilirne le caratteristiche distintive, in rapporto a chi o che cosa.

Tra gli anni sessanta dell’800 e gli anni sessanta del ‘900 le politiche eugenetiche estesero agli europei giudicati non-adatti lo stesso trattamento disumanizzante, ora corroborato da tesi pseudo-scientifiche, che i coloni europei già riservavano da secoli ai popoli colonizzati36. Le idee eugenetiche si diffusero a macchia d’olio dalla Svezia alla Russia all’Inghilterra al Portogallo alla Germania all’Italia alla Danimarca al Giappone alla Francia agli Stati Uniti d’America al Sud America all’Oceania all’Africa e alle varie colonie europee sparse per il pianeta. Le pratiche di igiene razziale entrarono a far parte delle norme comportamentali collettive e istituzionali destinate al miglioramento della razza, legittimando una serie ininterrotta di crimini contro la persona e contro l’umanità:
– incrocio selettivo degli individui giudicati adatti, mediante selezione o modifica coercitiva delle linee germinali (→ sterilizzazione forzata di massa37; accoppiamento forzato tra individui secondo le tradizionali tecniche invalse nell’allevamento di bestiame, compresa la ibridazione);
– separazione forzata della prole in età fertile delle famiglie dei non-adatti, per diventare materiale umano ad uso e consumo degli adatti;
– applicazione sistematica della legge del più forte, evocata e giustificata da una supposta legge generale di natura, che si esprime nella struggle for life and death, e che legittima, sul piano biologico-antropologico, le disparità tra gli uomini e l’eliminazione dei non-adatti (→ schiavismo; segregazione razziale; eliminazione sommaria o riduzione all’impotenza di chiunque intralciasse o inquinasse la strada degli adatti);
– sperimentazione medica su cavie umane (decine di migliaia di individui giudicati non-adatti o non idonei o semplicemente inutili e dannosi, vennero rinchiusi in istituti psichiatrici o in speciali colonie per non-adatti e sottoposti a elettroshock, mutilazioni genitali, lobotomia frontale e ad altre pratiche restrittive e medico-chirurgiche che verranno emulate e applicate su larga scala dai nazifascisti, dagli stalinisti e dalle Forze Armate dell’Impero nipponico).

____________

29. As Home Secretary in a 1910 Departmental Paper. The original document is in the collection of Asquith’s papers at the Bodleian Library in Oxford. Also quoted in Clive Ponting, “Churchill” (Sinclair Stevenson 1994).

30. Negli ultimi anni della sua vita Auguste Comte (1798-1857), ideologo del positivismo, scrive il Catechismo positivista e fonda la Chiesa Positivista, dove vengono trasposti gli elementi dottrinali, etici e liturgici della tradizione cattolica.

31. Malthus, T.R. (1826) An Essay on the Principle of Population. Or a View of Its Past and Present Effects on Human Happiness; with an Inquiry Into Our Prospects Respecting the Future Removal or Mitigation of the Evils which It Occasions. Book IV, Chapter V, Of the Consequences of pursuing the opposite Mode, IV.V.1, Library of Economics and Liberty. Retrieved June 17, 2017 from the World Wide Web:
http://www.econlib.org/library/Malthus/malPlong30.html#dd12

32. Galton, F. (1883) Inquiries into Human Faculty and Its Development, Macmillan and Co., London.

33. Francis Galton fu un pioniere in discipline scientifiche come la biometria (elaborò le tecniche e i princìpi basilari per la rilevazione delle impronte digitali), la meteorologia (scoprì l’anticiclone), la statistica (realizzò i primi studi sulla correlazione multifattoriale) e la psicologia sperimentale (mise a punto i primi reattivi mentali).

34. Il razzismo biologico si consolidò a partire dalla prima metà del ‘700 grazie alla prima classificazione antropologica delle razze. Carl von Linné (1707-1778) e Georges-Louis Leclerc, Comte de Buffon (1707-1788) introdussero la Tassonomia e suddivisero i popoli a seconda del colore della pelle, della dimensione e della forma del corpo, asserendo che le somiglianze fenotipiche costituivano appunto la razza. 

35. Tra il XVI e XVII sec. d.C., l’espansione delle rotte commerciali verso le Americhe, l’Africa, le Indie e l’Estremo Oriente, e il consolidamento del primato inglese sui mari, conquistato a discapito delle flotte navali di Francia, Spagna, Portogallo e Olanda, e incentivato dai progressivi miglioramenti metallurgici nella costruzione dei cannoni e nell’impiego della polvere da sparo, consentì alle aristocrazie europee, e in particolare a quella inglese, di arricchirsi importando grandi quantitativi di materie prime, di metalli preziosi e di altre mercanzie (inclusi gli schiavi), esportando oltreoceano, questo sì, la ferocia dei conquistadores, l’evangelizzazione forzata dei miscredenti, l’alcool, il vaiolo, la gonorrea, la peste e altre calamità che hanno flagellato intere generazioni di razze inferiori.

36. Nel XVI sec. il conquistador J. Ginés de Sepúlveda distingueva gli uomini (spagnoli) dagli homunculi (indios), simili all’uomo, ma in realtà inferiori e animaleschi, quindi degni di essere trattati come animali.

37. Nel corso del XX secolo la istituzionalizzazione dei programmi di sterilizzazione coatta interessò centinaia di migliaia di persone giudicate non-adatte per la procreazione. Negli Stati Uniti questi programmi durarono dal 1907 al 1973 e interessarono 27 Stati su 50; in Canada dal 1928 al 1972; in Svizzera dal 1928 al 1985; in Danimarca dal 1929 al 1967; in Germania dal 1933 al 1945; in Norvegia dal 1934 al 1977; in Svezia dal 1935 al 1976; in Finlandia dal 1935 al 1970; in Giappone dal 1949 al 1994; in Francia dal 1950 al 1980.

 

3.2 La causa eugenetica e l’academic/industrial/military iron triangle

A part of eugenic politics would finally land us in an
extensive use of the lethal chamber. A great many people
would have to be put out of existence simply because
it wastes other people’s time to look after them.

George Bernard Shaw38

Tra la fine del XIX secolo e la Seconda Guerra Mondiale la causa eugenetica (eugenics cause) fece molti accoliti, gente comune, uomini politici, uomini di legge, stimati scienziati, accreditati ricercatori, imprenditori, facoltosi uomini d’affari, illustri psicologi, economisti, religiosi, sociologi, antropologi [29], farne un elenco completo sarebbe impossibile e superfluo, perché il consenso verso di essa non era l’eccezione ma la regola39.
Tuttavia, ai fini del presente lavoro è utile accennare almeno ad alcuni dei molti intrecci significativi (che tendono a sopravvivere alla dipartita dei loro attori) tra mondo accademico, industriale e militare, l’academic/industrial/military iron triangle, intercorsi nei paesi occidentali, e in particolare negli Stati Uniti d’America [30] [31] [32], prima della Seconda Guerra Mondiale, a sostegno della causa eugenetica.
Eccone alcuni.

Tra gli anni ’20 e ’40 del XX secolo alcuni investitori americani, banchieri olandesi e imprenditori tedeschi diedero vita ad un giro d’affari milionario, la New York-Rotterdam-Berlin Connection, che finanziò l’ascesa al potere di Adolf Hitler, continuando a fare affari con il Terzo Reich durante tutta la Seconda Guerra Mondiale [33]. Gli attori di questa business adventure furono: la famiglia tedesca dei Thyssen (magnati dell’acciaio); la società americana di investimenti W.A. Harriman & Co., con sede a New York City, fondata nel 1920 (di proprietà della famiglia Harriman e gestita da Averell Harriman, figlio maggiore di E. H. Harriman, magnate americano delle ferrovie, e da Edward Roland Harriman, il secondogenito); la August Thyssen Bank con sede a Berlino, di proprietà della famiglia Thyssen; la olandese Bank voor Handel en Scheepvaart con sede a Rotterdam, controllata dalla famiglia Thyssen; la americana Union Banking Corporation (UBC, con sede a New York City, nello stesso palazzo dove aveva sede la W.A. Harriman & Co.), fondata nel 1924 e controllata dalla famiglia Thyssen e dalla famiglia Harriman; la famiglia tedesca dei Flick (imprenditori nel settore del carbone e dell’acciaio); la famiglia dei Bush, nella persona di Prescot Bush (padre di George H. W. Bush, futuro presidente degli Stati Uniti d’America) nominato vicepresidente della W.A. Harriman & Co. nel 1926; la tedesca United Steel Works (USW), fondata nel 1926 dalla società americana di investimenti Dillon Read Co., di proprietà di Clarence Dillon, e da Fritz Thyssen, che divenne il maggiore finanziatore di Hitler; e infine, i vari clienti della W.A. Harriman & Co., tra i quali spicca la famiglia dei Rockefeller, che attraverso le società della famiglia Thyssen fece affari d’oro con la Germania nazista.

L’Eugenics Record Office (ERO), fu un Istituto di Ricerca dedito a studi di eugenetica e di ereditarietà umana, venne fondato nel 1910 da Charles B. Davenport e da Harry H. Laughlin (due dei maggiori sostenitori e diffusori dell’Eugenica negli USA), grazie ai fondi stanziati dalla facoltosa vedova Mary Harriman (moglie di E. H. Harriman), da John Harvey Kellogg (il magnate dei breakfast cereal, che nel 1911 fondò la Kellogg Race Betterment Foundation) e dal Carnegie Institution of Washington’s Station for Experimental Evolution, fondato nel 1902 dall’ultra milionario Andrew Carnegie (magnate dell’acciaio) [34]. Nel 1904, Davenport, sotto l’egida dell’Istituzione Carnegie di Washington, lanciò il movimento eugenetico americano sotto forma di alleanza tra le imprese, le chiese protestanti, l’intellighenzia americana e gran parte dei genetisti americani favorevoli ad affrontare i problemi di social disfunction mediante procedimenti di selezione dei tratti psicologici che associavano alla razza e alla classe sociale.

La American Breeders’ Association, fondata nel 1903, è stata la prima organizzazione scientifica negli Stati Uniti a riconoscere l’importanza delle leggi di Mendel e a sostenere la ricerca eugenetica (attraverso un sottocomitato presieduto dall’ittiologo e presidente della Stanford University David Starr Jordan), nel 1914 cambiò nome in American Genetic Association (AGA) [35], la denominazione attuale.

L’esclusivo Boone and Crockett Club (B&C, anno di fondazione 1887) fu la prima e più autorevole associazione conservazionista americana impegnata nel campo dell’Eugenica e della restrizione dell’immigrazione, tra i suoi membri, in gran parte naturalisti, compaiono Theodor Roosevelt (fondatore del Club e 26° presidente degli Stati Uniti), Madison Grant [36], autore del libro The Passing of the Great Race (“a torrid work of racial alarmism and pseudo-science that Adolf Hitler called ‘my bible’ in an admiring letter to Grant” [37]), e Ghifford Pinchot, strenuo sostenitore della purezza della razza anglo-sassone, delegato al primo (1912) e secondo (1921) congresso internazionale di Eugenica e membro dell’Advisory Council della American Eugenics Society dal 1925 al 1935.

La Rockefeller Foundation (RF), finanziò vari progetti di promozione e applicazione del pensiero eugenetico, sia negli Stati Uniti che al di fuori [38] [39] [40] [41]: “Attitude” was a key word in the Rockefeller vocabulary: finding individuals and institutions that shared its ideals and could be trusted to translate grants into tangible results [42]. Tra questi spiccano i progetti di igiene razziale condotti dal Kaiser Wilhelm Institute for Psychiatry di Monaco (iniziati nel 1918), diretto, a partire dal 1928 (anno in cui la Rockefeller Foundation donò all’Istituto 325.000 dollari per la costruzione di un nuovo edificio [43]), dallo psichiatra e membro del partito nazista tedesco Ernst Rüdin, e quelli condotti dal Kaiser Wilhelm Institute for Anthropology, Human Heredity and Eugenics di Berlino (anno di fondazione 1927), diretto (dal 1927 al 1942) da Eugen Fischer, antropologo, membro del partito nazista tedesco. Sempre la RF finanziò la costruzione e l’organizzazione della School of Public Health di Zagabria40. Numerosi eugenetisti vennero finanziati dalla RF, tra questi i tedeschi Heinrich Poll [44] e Alfred Grotjahn [45], socialista, strenuo sostenitore dell’igiene razziale e mentore di un altro eugenetista tedesco, George Wolff, che emigrò negli Stati Uniti (1937) dove esportò la dottrina razziale di Grotjahn [46], e dove ebbe una brillante carriera che nel 1952 gli valse il comando del Biometrics Branch della Civil Aeronautics Administration.

Eugenetisti illustri furono, tra gli altri, Alexander Graham Bell (1847-1922), inventore del telefono, presidente onorario del 2° Congresso Internazionale di Eugenica nel 1921.
Robert Mearns Yerkes (1876-1956), psicologo, durante la Prima Guerra Mondiale venne incaricato dalla American Psychological Association, su mandato del Ministero della Difesa americano, di dirigere il Committee on the Psychological Examination of Recruits, un team di 40 psicologi, tra i quali spicca la figura di un altro pioniere dell’IQ test, lo psicologo Henry Herbert Goddard (1866-1957), che elaborarono, in linea con il pensiero eugenetico, due test dell’intelligenza, l’Army Alpha e Beta test, che vennero somministrati a 1.75 milioni di reclute della US Army, aprendo la strada alla somministrazione su larga scala degli IQ test anche in ambito scolastico (l’allora sponsor degli IQ test, il National Research Council Psychology Committee, anch’esso presieduto da Yerkes, descrisse l’IQ test somministrato nelle scuole come “the application of the army testing methods to school needs”) [47].
Il Premio Nobel James Watson, biologo statunitense scopritore insieme a Francis Crick, Maurice Wilkins e Rosalind Franklin, della struttura molecolare del DNA (1952), in una intervista del 2014 dichiarò che “Eugenics is sort of self correcting your evolution, and the message I have is that individuals should direct the evolution of their descendants, don’t let the State do it. I think it would be irresponsible not to direct your evolution if you could, in the sense that you could have a healthy child versus an unhealthy child, I think it is irresponsible not to try and direct the evolution to produce a human being who would be an asset to the world as well as to himself.”41
Karl Pearson (1857-1936), matematico inglese, presidente dal 1907 al 1933 del Galton Eugenics Laboratory (creato nel 1907, su iniziativa di Francis Galton, dalla fusione del Biometric Laboratory diretto da Pearson e dell’Eugenics Record Office fondato da Galton), con sede presso la University College of London.
Sir George Darwin e Leonard Darwin, quest’ultimo presidente della britannica Eugenics Education Society, entrambi figli di Charles Darwin.
George Bernard Shaw (1856-1950), Premio Nobel per la letteratura nel 1925, sostenitore e amico di Stalin, scrisse42: The moment we face it frankly we are driven to the conclusion that the community has a right to put a price on the right to live in it. If people are fit to live, let them live under decent human conditions. If they are not fit to live, kill them in a decent human way. Is it any wonder that some of us are driven to prescribe the lethal chamber as the solution for the hard cases which are at present made the excuse for dragging all the other cases down to their level, and the only solution that will create a sense of full social responsibility in modern populations?
Winston Churchill (1874-1965), fu Home Secretary della Eugenic Education Society dal 1910 al 1911 (società fondata nel 1907, cambiò nome in British Eugenics Society nel 1926 e poi ancora in Galton Institute nel 1989, la denominazione attuale); nel 1911, quando era ministro della marina militare, prese parte alla commissione di presidenza (assieme a Lord Alverstone, allora ministro della giustizia, Charles Eliot, presidente dell’università di Harvard e Alexander Bell, inventore del telefono) del primo congresso mondiale di Eugenica, organizzato dall’università di Oxford. Primo Ministro britannico dal 1944 al 1945 e ancora dal 1951 al 1955, Premio Nobel per la Letteratura nel 1953, fu tra i primi redattori del Mental Deficiency Act43 (1913). Nell’Ottobre del 191044, in un suo discorso al parlamento britannico aveva richiamato l’attenzione sul fatto che vi erano, allora, nel Regno Unito, «circa 120.000-130.000 persone affette da disturbi mentali degne di tutto quello che la civiltà cristiana e scientifica può fare per loro, dato che ormai sono al mondo», e quello che la civiltà cristiana e scientifica poteva fare per loro, negli auspici di Churchill, era «la loro segregazione sotto condizioni appropriate, così da far morire insieme a se stessi anche la loro sciagura, invece di propagarla alle generazioni future»45.
Nel 1935 il chirurgo e biologo francese Alexis Carrel, un premio Nobel dello staff del Rockefeller Institute, pubblica Man the Unknown. In esso egli propone lo smaltimento dei criminali e delle persone malate di mente in appositi istituti per l’eutanasia dotati di apposite camere a gas. Nel 1939 Hitler ordinò una vasta operazione di ‘mercy killing’ delle persone disabili e malate di mente. Il programma nazista di eutanasia, volto alla eliminazione della ‘life unworthy of life,’ venne avviato con il nome in codice Aktion T4 (acronimo che indicava la villa berlinese al numero civico 4 in Tiergartenstrasse). Si stima che almeno 275.000 persone non-adatte siano state uccise nell’ambito di questo programma tra il 1939 e 194546.

In molti si sono chiesti come sia stato possibile che la civiltà occidentale sorta dall’Età della Ragione, abbia potuto partorire tanta feroce devastazione e disumana sofferenza. Forse la risposta è nelle parole di Denis Diderot: The most dangerous madmen are those created by religion, and …. People whose aim is to disrupt society always know how to make good use of them on occasion [Conversation with a Christian Lady (1774)].

L’Illuminismo ha dato alla luce una religione secolare47 [48] [49] [50] [51] (monoteista) o religione politica: “…. quello che il pensiero illuministico non è riuscito a vedere, abbagliato com’era dalla luce della ragione moderna, è quanto profondamente radicata nello psichismo umano sia la simbologia e quanto imperiosa sia la necessità per ogni comunità umana di appoggiarsi ad un’alterità trascendente e fondatrice” [52].
Il Positivismo la ha consacrata sull’altare dell’industrialismo.
L’Eugenica ha istituito i tribunali di Inquisizione della Chiesa Positivista.
Uomini come Hitler, Mussolini e Stalin se ne sono serviti per mettere la nazione al servizio dei loro deliri di onnipotenza.
Uomini come Winston Churchill se ne sono serviti per mettere le loro ambizioni di potere al servizio della nazione: The religion of blood and war [Mahommedan] is face to face with that of peace [Christianity]. Luckily the religion of peace is usually the better armed. [Winston Churchill, The Story of the Malakand Field Force: An Episode of Frontier War (1898)].

Cosa ci possiamo aspettare dagli attuali predicatori, con in testa i transumanisti, del perfezionamento ipertecnologico dell’umanità?

____________

38. George Bernard Shaw, Lecture to the Eugenics Education Society, Reported in The Daily Express, March 4, 1910.

39. Care for the race, even if the individual must suffer — this must be the keynote of our future. This was the guiding principle which underlay all the discussions of the Second International Congress of Eugenics in 1921. Not quantity but quality must be the aim in the development of each nation, to make men fit to maintain their places in the struggle for existence. We must be concerned above all with racial values; every race must seek out and develop and improve its own racial characteristics. Racial consciousness is not pride of race, but proper respect for the Purity of race is today found in but one nation — the Scandinavian. [Henry Fairfiled Obsborn (1857-1935)]

40. Rockefeller foundation was financing German eugeneticists Poll and Grotjahn, as well as main eugenics institutes in Germany, such as Kaiser Wilhelm Institute for Psychiatry and Kaiser Wilhelm Institute for Anthropology, Eugenics, and Human Inheritance. The same foundation financially supported the construction and organization of the Zagreb School of Public Health”. In: Fatović-Ferencić, S. (2008) “Society as an Organism:” Metaphor as Departure Point of Andrija Štampar’s Health Ideology, Croatian Medical Journal, Dec; 49(6): 709–719.
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2621036/  

41. Intervista: James Watson talks about eugenics and bioethics.
https://www.dnalc.org/view/15472-Eugenics-and-bioethics-James-Watson.html 

42. Citato in: Conroy, M. (2017) Nazi Eugenics: Precursors, Policy, Aftermath, Columbia University Press. Originally from George Bernard Shaw, Prefaces, Constable and Co., London, 1934, p. 296

43. Il Mental Deficiency Act classifica le persone con difficoltà di apprendimento e problemi di salute mentale come: ‘idiots’ (coloro i quali hanno un deficit tale da renderli incapaci di proteggersi dai rischi ordinari); ‘imbeciles’ (coloro i quali hanno un deficit tale da renderli non-autosufficienti, o, nel caso dei bambini, tale da non essere in grado di imparare ad essere autosufficienti); ‘feebleminded’ (coloro i quali necessitano di un supporto e di una supervisione costante, o, nel caso dei bambini, di una istruzione somministrata in scuole speciali); ‘moral defectives’ (coloro i quali denotano qualche debolezza mentale associata a una marcate propensione al vizio o al crimine e sui quali la punizione ha un effetto deterrente scarso o nullo). A poco a poco, le madri non sposate vengono inserite in quest’ultima categoria. Molte persone delle categorie sociali più svantaggiate vengono classificate come mentalmente deficitarie a causa della loro infanzia travagliata o della loro precoce istituzionalizzazione. Il Mental Deficiency Act farà sì che molte più persone con deficit di apprendimento vengano segregate in apposite istituti.

44. In October 1910 a deputation to the Government called for the implementation of the Royal Commission’s recommendations without delay. Churchill, in his reply, recalled the fact that there were at least 120,000 “feeble-minded” persons “at large in our midst” who deserved “all that could be done for them by a Christian and scientific civilization now that they are in the world,” but who should, if possible, be “segregated under proper conditions so that their curse died with them and was not transmitted to future generations.”[As quoted by Sir Martin Gilbert CBE, in Churchill and Eugenics.
https://www.winstonchurchill.org/publications/finest-hour-extras/churchill-and-eugenics-1] 

45. There are 120,000 or 130,000 feeble minded persons at large in our midst. These unhappy beings deserve our care and assistance, and deserve all that could be done for them, now that they are in the world, by a Christian and scientific civilisation. But let it end there if possible. If we  were able to segregate these people under proper conditions, so that their curse died with them and was not transmitted to future generations, we should have taken up our shoulders in our own lifetime a work of which those who came after us would owe us a debt of gratitude”. [Winston Churchill Reported in The Times 15th July 1910].

46. Malgrado ciò, un eugenetista del calibro di James Watson ritiene che: “Here we must not fall into the absurd trap of being against everything Hitler was for…. Because of Hitler’s use of the term Master Race, we should not feel the need to say that we never want to use genetics to make humans more capable than they are today.” [Watson, J. (2000) A Passion for DNA: Genes, Genomes, and Society, Cold Spring Harbor Laboratory Press]

47. In The Future of Secular Religions (1944), Raymond Aron definisce secular religions: “those doctrines that, in the soul of our contemporaries, take the place of the lost faith, and that place the salvation of humanity in this world, in a distant future, in the form of a social order to be built” [traduzione mia dalla versione francese citata in: Maier. H. (edited by) (2008) Totalitarianism and Political Religions Volume III: Concepts for the Comparison Of Dictatorships – Theory & History of Interpretations, Routledge, p. 160]. In Sociology of Communism (1949), Jules Monnerot descrive una secular religion come segue: “When a whole series of events, of peoples, of ideas escapes critics, this means that a sacred area is opposed to that dominated by the profane: in this case it can be talked about a religious phenomenon. Such is the secular religion (and such is the totalitarian state: the two phenomena are connected) characterized by the active presence of a faith, myths, and dogmas”. [traduzione mia dalla versione francese citata in: Ellul, J. (2008) La technique ou l’enjeu du siécle. Economica Paris, p. 335]

 

4. Tecno-scientismo progressivo 4.0: verso la robotizzazione della società

That is to say, if we humans are simply parts of systems – our skins not boundaries but permeable membranes, our actions measured as behavior rather than by introspection- the  autonomous, sufficient “self” begins to seem an illusion.
NWF48

Per l’academic/industrial/military iron triangle, due guerre mondiali, i programmi di igiene razziale, le armi chimiche e batteriologiche, lo sviluppo delle armi di terra, di aria e di mare, l’impiego delle armi nucleari su Hiroshima e Nagasaki e milioni di vittime civili, hanno rappresentato una opportunità per la messa a punto di strategie e di tecniche persuasive e dissuasive e di soluzioni tecnologiche, che hanno avuto enormi ripercussioni sia sul futuro del settore militare che in ambito civile. Una opportunità che non è indietreggiata di fronte alla possibilità di impossessarsi di informazioni di interesse scientifico, ottenute con metodi criminali condotti con inaudita crudeltà. Come quelli che contraddistinguono la pagina di storia (1936-1945) scritta dalla Unità 731 [53] [54] [55].

Stanziata dall’esercito giapponese nel 1936 a Ping Han, presso Harbin, nello Stato fantoccio di Manchukuo (Manciuria, Cina nordorientale), l’Unità 731 era un centro militare segreto di ricerca e di sviluppo della guerra chimica e batteriologica, affidato al comando di un laureato in medicina, Shiro Ishii, dove i medici e altri laureati giapponesi vivisezionarono, infettarono con agenti batteriologici, sottoposero a trapianti, a mutilazioni e ad altre torture concepite come esperimenti, oltre tremila soggetti ritenuti adatti ad essere trattati come cavie umane, prevalentemente cinesi (donne e bambini inclusi), ma anche mongoli, coreani, russi e alcuni inglesi e americani. Alla fine della guerra, il comandante dell’Unità 731, Shiro Ishii, e la maggior parte dei suoi collaboratori vennero protetti dai servizi segreti americani e, in cambio dei risultati delle ricerche, coperte da segreto militare, condotte dall’Unità ottennero l’immunità. Nessuno di loro venne perseguito da un tribunale, né militare né civile, tutt’altro. Alcuni di loro vennero cooptati dall’industria farmaceutica e medica giapponese, come la Takeda Pharmaceutical Company, la Hayakawa Medical Company, la S.J. Company. La Green Cross, un’impresa farmaceutica fondata da Naito Ryoichi, Futagi Hideo e Kitano Masaji, membri dello staff di laureati di Ishii, ottenne un grande successo dopo la guerra. Altri entrarono nel mondo accademico, nella Tokyo University, Kyoto University, Osaka University, Kanazawa University, Showa University of Pharmacology, Nagoya Prefecture Medical University, Osaka Municipal University’s School of Medicine, e Juntendo University. Il governo giapponese reclutò una parte dei laureati presenti nelle fila di Ishii, tra cui un responsabile della sezione di Entomologia dei Laboratori di Ricerca sulla Prevenzione della Salute (Preventive Health Research Laboratories) del Ministero della Salute e del Benessere (Health and Welfare Ministry) e un direttore del National Cancer Center del Giappone, nonché un presidente dell’Associazione Medica Giapponese e un generale (chirurgo) della neonata Defence Force giapponese. Ad onore (disonore) dell’academic/industrial/military iron triangle nipponico, va notato che a partire dalla sua creazione, nel maggio 1947, fino al 1983, ogni direttore (con una sola eccezione) dell’Istituto Nazionale di Salute del Giappone (Japan National Institute) aveva prestato servizio militare presso una unità di guerra biologica. Molti uomini dell’Unità 731 hanno ricoperto altre posizioni importanti nella società giapponese, ottenendo onorificenze e riconoscimenti istituzionali, mentre i lavoratori, i tecnici e i soldati semplici si sono reinseriti nel tessuto sociale giapponese.

I do not expect to publish any future work of mine which may do damage in the hands of irresponsible militarists…“, scriveva Norbert Wiener nel 194749, ammettendo le proprie responsabilità, etiche oltre che professionali, nell’essersi prestato al gioco dello scienziato super partes che opera in nome della neutralità (smentita dai fatti) della scienza, senza preoccuparsi dell’uso che può essere fatto, soprattutto nella società ipertecnologica contemporanea, dei risultati del suo lavoro. Un gioco accomodante che continua ad essere condiviso a molti scienziati, tecnici, ricercatori, studiosi, esperti (matematici, ingegneri, biologi, chimici, fisici, psicologi, antropologi, filosofi, genetisti, etc.), ma non da tutti, a testimonianza del fatto che il sacerdote-scienziato positivista dovrebbe appendere l’abito (camice) talare al chiodo, e assumersi le proprie responsabilità. Responsabilità che iniziarono ad essere percepite dagli “addetti ai lavori” già a decorrere dalla Grande Guerra, quando si delineò un mondo in cui “For the first time in history, it has become possible for a limited group of a few thousand people to threaten the absolute destruction of millions” (Norbert Wiener, Moral Reflections of a Mathematician, 1956).
Come nel caso, per esempio, di Clara Immerwahr (1870-1915), chimica tedesca e moglie del chimico tedesco Fritz Haber, considerato il padre della guerra chimica, cercò in tutti i modi di dissuadere il marito dal dedicarsi alla realizzazione delle armi chimiche ma non ebbe successo e piuttosto che assistere al loro impiego (avvenuto nel corso della prima guerra mondiale) si suicidò sparandosi al cuore all’età di 45 anni.

____________

48. Dalla introduzione a “Men, Machines, and the World About”, di Norbert Wiener, a cura dell’Institute of Electrical and Electronics Engineers (IEEE).
http://21stcenturywiener.org/wp-content/uploads/2013/11/Men-Machines-and-the-World-About-by-N.-Wiener.pdf

49. Wiener, N. (1947) A Scientist Rebels, The Atlantic Monthly.
http://lanl-the-back-story.blogspot.it/2013/08/a-scientist-rebels.html 

 

4.1 Tecno-scientismo progressivo e AI

The following general definition of an animal:
a system of different organic molecules that have combined
with one another, under the impulsion of a sensation
similar to an obtuse and muffled sense of touch given to them
by the creator of matter as a whole, until each one of them
has found the most suitable position for it shape and comfort.

Denis Diderot – On the Interpretation of Nature (1753)50

E così arriviamo agli anni del dopoguerra, gli anni della Guerra Fredda, nel corso dei quali il processo di integrazione uomo-macchina, che sino a quel momento si era identificato con il presupposto del processo di industrializzazione, la meccanizzazione del ciclo produttivo, subisce una vera e propria mutazione genetica.
Le macchine si diversificano ed escono dal perimetro produttivo delle filiere industriali, dove fino a quel momento erano rimaste confinate. Irrompono nelle case e nella vita di milioni di occidentali, sotto forma di elettrodomestici, autovetture, apparecchi telefonici, radiofonici, televisivi. Diventano parte integrante dell’habitat domestico dei consumatori (nuova categoria sociale inventata ad hoc), entrano nelle loro vite e nelle loro dinamiche relazionali, si diversificano in base ai gusti e alle aspettative, creando i presupposti per quella che diventerà una progressiva, virale, tecno-dipendenza. Una dipendenza verso soluzioni tecnologiche che, con il trascorrere degli anni, diventano sempre più autoreferenziali, sempre più slegate dalle reali necessità dei loro fruitori, sempre più vincolate alle leggi del modello economico liberista e sempre più aderenti al mito illuminista del perfezionamento illimitato dell’umanità.
Nel corso degli anni ’50 del novecento, quando gli equilibri mondiali dipendevano da due super-potenze, Stati Uniti e Unione Sovietica, prendono corpo tre progetti: la manipolazione del materiale genico, la colonizzazione dello spazio e la creazione di macchine intelligenti. Il primo progetto si delinea grazie alla teoria cromosomica dell’ereditarietà (il materiale genetico è costituito da DNA e non da proteine → Hershey-Chase, 1952) e alla scoperta della struttura molecolare del DNA (J. Watson, F. Crick, M. Wilkins e R. Franklin, 1952). Il secondo progetto si concretizza quando i sovietici lanciano il primo satellite artificiale in orbita intorno alla Terra, lo Sputnik 1 (1957). Il terzo progetto si fa strada quando un giovane matematico americano, non ancora trentenne, John McCarthy, propose di creare un gruppo di lavoro che si occupasse di un nuovo campo di ricerca, che lui chiamò Intelligenza Artificiale (1956).
Un gruppo di lavoro che oggi ha assunto proporzioni mondiali e che: is conducted by a range of scientists and technologists with varying perspectives, interests, and motivations. Scientists tend to be interested in understanding the underlying basis of intelligence and cognition, some with an emphasis on unraveling the mysteries of human thought and others examining intelligence more broadly. Engineering-oriented researchers, by contrast, are interested in building systems that behave intelligently. Some attempt to build systems using techniques analogous to those used by humans, whereas others apply a range of techniques adopted from fields such as information theory, electrical engineering, statistics, and pattern recognition. Those in the latter category often do not necessarily consider themselves AI researchers, but rather fall into a broader category of researchers interested in machine intelligence51.

Ognuno di questi tre progetti verrà sviluppato separatamente sia dagli americani che dai sovietici, ma sarà l’academic/industrial/military iron triangle statunitense a dimostrare di possedere maggiore vigore quando, nel 1958, fonda l’Advanced Research Projects Agency (ARPA), erede dell’OSRD (Office of Scientific Research and Development, creato nel 1941) e futura Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA 1972), agenzia governativa del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti incaricata dello sviluppo di nuove tecnologie per uso militare)52.

La locuzione Artificial Intelligence, coniata da McCarthy, sta ad indicare una nuova e promettente frontiera della moderna Information Theory. L’Information Theory, è una disciplina nata nell’ambito delle Telecomunicazioni tra gli anni ’20 e ’30 del XX secolo, in particolare grazie ai lavori di ricerca e alle soluzioni militari (telecomunicazione crittografata e non) sperimentate durante la prima guerra mondiale, il cui sviluppo e la cui fortuna si consoliderà, sempre grazie al contributo fornito dalla ricerca e dalle applicazioni in ambito militare, nel corso della seconda guerra mondiale. Decisivo ai fini della elaborazione della versione contemporanea della Teoria dell’Informazione, fu il lavoro condotto tra gli anni ’40 e ’50 e separatamente da Claude Shannon (The Mathematical Theory of Communication) e da Norbert Wiener (Cybernetics).

Il termine intelligenza utilizzato per distinguere la nuova frontiera di ricerca dell’Information Theory, riesuma lo stesso termine impiegato da uno dei pionieri della teoria dell’informazione, Harry Nyquist, della American Telephone and Telegraph Company (AT&T). Nel 1924 Nyquist pubblica un articolo sul Bell System Technical Journal dal titolo Certain Factors Affecting Telegraph Speed, dove tratta dei fattori che condizionano la “maximum speed of transmission of intelligence”. Per gli addetti ai lavori dell’epoca, il termine metaforico “intelligence” utilizzato da Nyquist in relazione alla trasmissione di un segnale elettromagnetico, apparve improprio e fuorviante, compromesso da riferimenti antropomorfici e psicologici incompatibili con la materia trattata. La trasmissione di segnali tra macchine (coder/decoder), ovvero l’invio e la ricezione di variazioni di stato elettromagnetiche attraverso un mezzo (via etere o via cavo), non poteva essere in alcun modo confusa con la trasmissione di significati (messaggi) né poteva essere associata a proprietà intellettive come la abilità di apprendere, analizzare, comprendere, comunicare, fare progetti, ragionare, ipotizzare, trarre conclusioni, formulare pensieri astratti, risolvere problemi, etc. A quattro anni di distanza dalla pubblicazione dell’articolo di Nyquist, un suo collega del Bell Telephone Laboratories Inc., Ralph V.L. Hartley, pubblica un articolo sul Bell System Technical Journal dal titolo Transmission of Information, dove la metafora intelligence viene sostituita, per ragioni di “physical as contrasted with psychological considerations”, dalla metafora information.

Ma cosa intendeva Nyquist con il termine intelligenza? Di fatto niente che potesse avere a che fare con proprietà intellettive come quelle sopra elencate, o che potesse attribuire ad un segnale un contenuto semantico. Con il termine intelligenza Nyquist si riferisce alla componente statisticamente determinata e decifrabile di un segnale aleatorio (in altre parole si riferisce ai dati immessi, veicolati e resi disponibili da un segnale analogico, che Nyquist qualifica come “the number of characters, representing different letters, figures, etc.”, trasmessi in un certo arco di tempo), la cui trasmissibilità (senza perdita di intelligenza ovvero di dati) da un dispositivo trasmittente (coder) ad uno ricevente (decoder) dipende dal grado di risoluzione dell’incertezza (associata al rumore intrinsecamente generato dal mezzo trasmissivo o dagli apparati coinvolti) ottenuto nella trasmissione del segnale.

In realtà, il modello di intelligenza (e il modello cognitivo in generale) perseguito dalla ricerca sulla AI è costruito a immagine e somiglianza di quello sviluppato dalla Teoria dell’Informazione, dalla Cibernetica e dall’Informatica nell’ambito delle telecomunicazioni, derivato da sistemi algoritmici di feedback-loops che non hanno niente a che vedere con l’intelligenza umana, ma che invece hanno molto in comune con il modello di animale descritto da Denis Diderot [On the Interpretation of Nature (1753)] e con il modello di essere umano concepito da Descartes [Treatise on Man (1633)].

Nella migliore delle ipotesi, le performance delle cosiddette macchine intelligenti sono e resteranno una simulazione delle capacità manifestate da alcuni individui affetti dalla sindrome del savant (savant syndrome), o sindrome dell’idiot savant, dove con idiota ci si riferisce a un individuo (generalmente di sesso maschile) affetto da una serie di più o meno gravi ritardi cognitivi e mentali, ma che presenta una o più di una capacità super-sviluppate, tipicamente la capacità di calcolo e di memorizzazione. Questo è tutto quello che una macchina intelligente può e potrà aspirare a fare: simulare artificialmente la sindrome del savant (ASSS, Artificial Simulation of the Savant Syndrome) [56].
Se ciò è corretto, perché la ASSS viene declamata come AI?
Inseguire la realizzazione di ibridi uomo-macchina, immaginandoli come un primo passo verso la produzione di umanoidi artificiali, programmati per entrare a far parte dei CPSs (Cyber Physical Systems), interconnessi da reti neurali dotate di AI, è un progetto concepito e alimentato dal tecno-scientismo progressivo di ultima generazione nel grembo del neo-positivismo. La AI è la versione 3.0 dell’anima razionalista cartesiana: “When a rational soul is present in this machine it will have its principal seat in the brain, and reside there like the fountain-keeper”53. Un progetto che non rinuncia a trattare l’animale umano come un sistema meccanico che, per quanto complesso possa essere, è sempre riducibile ad un mosaico di unità costitutive (buildig blocks), e ad applicare alla res cogitans lo stesso schema riduzionistico e meccanicistico applicato dal paradigma positivista alla res extensa: la strutturazione degli oggetti e dei fenomeni che osserviamo dentro e fuori di noi, avviene grazie ad una sequenza di combinazioni (fattorizzabili), guidata da un codice (algoritmico), tra determinati elementi strutturali (building blocks). Nel caso di un oggetto materiale gli elementi strutturali possono essere molecole, atomi, particelle. Nel caso di un oggetto fittizio come l’intelligenza possono essere, ad es. l’intelligenza logico-matematica, l’i. verbale, l’i. spaziale, l’i. musicale, l’i. cinestesica, l’i. emotiva (Howard Gardner), a loro volta scomponibili in sotto-gruppi, e chi più ne ha più ne metta. Una volta scomposto in elementi strutturali oggettivabili, l’oggetto potrà essere sottoposto a misurazione ed eventualmente riprodotto e controllato.
Il risultato è un puzzle composto da tanti elementi collegati ad incastro in una cornice che sviluppa una data funzione.

____________

50.  Citato in: Dingle, C.A. (2000) Memorable Quotations: French Writers of the Past, iUniverse, p. 64

51. In: Computer Science and Telecommunications Board, National Research Council (1999) Funding a Revolution. Government Support for Computing Research, Chapter 9, Developments in Artificial Intelligence. http://www.nap.edu/read/6323/chapter/11#199

52. Nel 2012 La Russia ha creato una agenzia militare analoga all’americana DARPA, la Advanced Research Foundation (ARF) and Defence Industry. Cina, Giappone e Sud Corea si stanno attrezzando.

53. Descartes, Treatise on Man, 1633, § 131
https://www.colorado.edu/neh2015/sites/default/files/attached-files/descartes-treatise_on_man.pdf

 

4.2 Verso la robotizzazione della società

As scientific understanding has grown, so our world has become dehumanised. Man feels himself isolated in the cosmos, because he is no longer involved in nature and has lost his emotional “unconscious identity” with natural phenomena. These have slowly lost their symbolic implications. (…) No voices now speak to man from stones, plants, and animals, nor does he speak to them believing they can hear. His contact with nature has gone, and with it has gone the profound emotional energy that this symbolic connection supplied.

Carl Gustav Jung  – Man and His Symbols (1964)54

Tra gli anni ’60 e ’90 la AI, la cui mission è “designing systems that exhibit the characteristics associated with human intelligence, like understanding language, learning, reasoning, solving problems, and so on”, motivata dalla convinzione che “every aspect of learning or any other feature of intelligence can in principle be so precisely described that a machine can be made to simulate it”, diviene parte integrante della nascente computer science (Internet, data di nascita 1983, è l’evoluzione di una creazione per uso militare della DARPA [57], l’ARPAnetwork, 1969).

Negli anni ‘90 il know how maturato durante gli anni ‘80 dalla computer science, dalla cibernetica, dalla robotica e dalla ricerca sulla AI, confluisce nella realizzazione di un progetto chiamato Strategic Computing Program (SCP), finanziato con fondi sia pubblici (provenienti dalla immancabilmente presente agenzia federale americana DARPA) che privati (provenienti da investitori come il colosso industriale IBM, la compagnia Dragon Systems, la BBN, Bolt Beranek and Newman, e la SDC, Systems Development Corporation), grazie al quale nasceranno le cosiddette macchine intelligenti, ovvero: machine with advanced intelligence technology and high-performance computing, including speech recognition and understanding, natural-language computer interfaces, vision comprehension systems, and advanced expert systems development, provided by a significant increasing in computer performance, through parallel-computer architectures, software, and supporting microelectronics.

Ma gli anni ’90 sono anche gli anni segnati dal crollo del muro di Berlino e dal crollo degli equilibri internazionali e delle identità nazionali, disegnate dalla Guerra Fredda e dai relativi schieramenti. Il braccio di ferro tra Stati Uniti d’America e Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche si conclude per implosione e abbandono del campo da parte di quest’ultima, e il mondo da bipolare si ritrova improvvisamente unipolare.

La nuova Era viene salutata dalla “prima guerra postmoderna della storia” (Jean-François Lyotard), la Prima Guerra del Golfo (1990), una guerra che non ha avuto luogo (Jean Baudrillard), in cui le armi convenzionali fanno da sfondo all’impiego di nuove, sofisticatissime soluzioni tecnologiche (Cyberwar, Infowar, Technowar, Antiwar, Postmodernwar) [58], sviluppate per trasformare il soldato in operatore-semi-umano, integrato da dispositivi esterni (che presto verranno a loro volta integrati da dispositivi interni), in grado di potenziarne le capacità di combattimento, supportato da un network di dispositivi bellici controllati a distanza, che possono trasformare le zone di guerra in piattaforme per altrettanti video-games, arene virtuali in cui la gente muore d’avvero.

Grazie alle tecnologie della simulazione elettronica, la potenza persuasiva dei mezzi di comunicazione di massa trasforma le guerre in spettacoli per il piccolo e per il grande schermo, sotto-prodotti confezionati in stile hollywoodiano con la formula del super reality show, super video-game, super-saga di supereroi semi-umani che combattono il Male per il Bene del Mondo.
La Prima Guerra del Golfo è stata solo un assaggio delle guerre iper-tecnologiche che ci attendono nel prossimo futuro, dove i soldati-umani saranno progressivamente sostituiti da armamenti robotici affiancati da ibridi uomo-macchina, i cyborg-soldiers [59], l’ibrido uomo-macchina extra-integrato (EIMMH, Extra-Integrated Man-Machine Hybrid) nato per scopi militari, il modello di cyborg progettato per il combattimento, il fratello maggiore dell’ibrido uomo-macchina normo-integrato (NIMMH, Normo-Integrated Man-Machine Hybrid), progettato per scopi civili.
Inizia così, ufficialmente, il processo di dis-integrazione uomo-macchina.

Equipaggiato con un dispositivo interno inserito a dimora, ad es. un nanorobot o un microchip intracranico ad interazione neurale (brain-computer interfaces), o un semplice chip sottocutaneo (transponder implantation), che lo rendono parametrabile (rilevazione e trasmissione in tempo reale dei parametri fisiologici e ambientali) e identificabile (acquisizione automatica di tutti i dati relativi alla sua identità, ai suoi movimenti e alla sua localizzazione), il NIMMH potrà interagire, sul luogo di lavoro, a casa, a scuola, nei luoghi pubblici, etc., via Near Field Communication (NFC) o via Far Field Communication (FFC) [60], con un Cyber-Physical System (che può comprendere qualsiasi dispositivo elettronico esterno, dotato di sistema wireless o bluetooth e di apposita interfaccia, il che espone il soggetto al rischio di hackeraggio).

Diverso sarà il cyborg extra-integrato (EIMMH), un ibrido uomo-macchina addestrato e programmato per affrontare esperienze ad alto rischio (missioni militari, operazioni di polizia o di spionaggio, azioni terroristiche o criminali, viaggi spaziali e soggiorni in ambienti extra-terrestri), che oltre ad essere integrato da componenti tecnologiche interne come quelle del modello normo-integrato, potrà espandere le funzioni che autoregolano il corpo-mente (come la tolleranza al dolore, alla fame e alla sete, la termoregolazione, etc.), potenziare alcune prestazioni normali (come la capacità di calcolo, la memoria e le capacità percettive) e interfacciarsi con CPSs militari dotati di sistemi robotizzati come il MAARS (Modular Advanced Armed Robotic System, già operativo), il LAWS (Lethal Autonomous Weapons System, già operativo) [61], il Taranis (velivolo da combattimento completamente automatizzato, già operativo), il FLA (Fast Lightweight Autonomy, progetto DARPA), il CODE (Collaborative Operations in Denied Environment, progetto DARPA), etc.

L’impiego di sistemi integrati composti da EIMMHs e CPSs robotizzati, segna il passaggio dalla fase di computerizzazione della guerra (e della società) alla fase di robotizzazione della guerra (e della società): I see a greater robotization [of war], in fact, future warfare will involve operators and machines (….) They would be integrated into large comprehensive reconnaissance-strike system. The soldier would gradually turn into an operator and be removed from the battlefield [Lieutenant General Andrey Grigoriev, Russian Advanced Research Foundation (ARF), 2016].  

____________

54 Jung, C.G.. (1968) Man And His Symbols, Dell Publishing, p. 85

55 Vedi: J. G. Fleischer, G.M. Edelman, Brain-based devices: An embodied approach to linking nervous system structure and function to behavior, Ieee Robotics and Automation Magazine, 2009.         http://www.nsi.edu/~fleischer/fleischer_edelman_ram.pdf

 

4.3 La Coscienza Universale neo-positivista

L’Eugenica e la dilagante sottocultura post-umana promuovono lo studio, l’elaborazione e l’adozione di metodi scientifici volti al perfezionamento della specie umana, ovvero finalizzati alla promozione di caratteri fisici e mentali ritenuti positivi, o eugenici (genetica positiva), e alla rimozione di quelli ritenuti negativi, o disgenici (genetica negativa), mediante la selezione e la manipolazione degli individui o di loro parti (operazioni che in passato venivano effettuate seguendo le tradizionali tecniche invalse nell’allevamento del bestiame e in agricoltura, e che oggi si avvalgono di canali come l’high-tech communication marketing, di sofisticati dispositivi tecnologici e di tecniche sempre più efficaci di neuroingegneria e di bioingegneria genetica, molecolare, cellulare, tissutale e d’organo.

Entrambe promuovono il condizionamento operante del comportamento individuale e collettivo, e interpretano il capitale umano come utile nella misura in cui è subordinato al capitale scientifico-tecnico-tecnologico.
La sotto-cultura post-umana integra la speranza eugenetica nel miglioramento scientifico e selettivo del genere umano, con l’impiego di un armamentario tecnico e tecnologico molto avanzato. La relazione calcolata-programmata-codificata (→linguaggio informatico→feed back loops algoritmici) che intercorre tra le variabili condizionate (→software) e incondizionate (→hardware) dell’ibrido uomo-macchina o del robot (→nascita tecnologica), dà luogo a dinamiche comportamentali ampiamente (cyborg) o totalmente (robot) deterministiche e affidabili, cioè controllabili-prevedibili-riproducibili-reversibili. Per questa ragione, l’ibrido uomo-macchina, il robot antropomorfo e l’umanoide sono nettamente preferibili (superiori, più forti, più adatti) all’uomo-naturale.

Eugenica e sotto-cultura post-umana sono intrecciate dal rapporto di equivalenza che intercorre tra il tecno-scientismo progressivo di fine ‘800 (→Eugenica) e il tecno-scientismo progressivo di fine ‘900 (→AI). Un rapporto di equivalenza che può essere espresso nel modo seguente:
l’Eugenica sta alla teoria mendeliana (teoria della modalità di trasmissione dei caratteri ereditari → Johann Gregor Mendel, 1866) e alla teoria darwinista (teoria dell’evoluzione lineare, progressiva e ascendente dei sistemi biologici → Charles Darwin, 1859) come l’Intelligenza Artificiale sta alla teoria cromosomica dell’ereditarietà (il materiale genetico è costituito da DNA e non da proteine → Hershey-Chase, 1952), alla scoperta della struttura molecolare del DNA (J. Watson, F. Crick, M. Wilkins e R. Franklin, 1952), e alla teoria dell’informazione (IT, Information Theory), teoria nata dalla convergenza tra teoria cibernetica o teoria della comunicazione e dei sistemi di controllo nei sistemi artificiali e negli esseri viventi (→ Norbert Wiener, 1948), e teoria della modalità di trasmissione dell’informazione (→ Claude Shannon, 1948).

Sono trascorsi cento anni da quando la Teoria Generale della Relatività ha introdotto la nozione di spaziotempo, cambiando radicalmente il modo di concepire il tempo e lo spazio della fisica newtoniana, e da quando la Meccanica Quantistica ha radicalmente cambiato il modo di concepire l’energia/materia, ma ancora nessuno sa cosa sia lo spaziotempo e neppure cosa sia l’energia (“It is important to realize that in physics today, we have no knowledge of what energy is.”, Richard Feynman, The Feynman Lectures on Physics, Vol I, pag. 4-1). Tuttavia, il fatto che nessuno sappia cosa sia lo spaziotempo e cosa sia l’energia, non ha impedito di misurare, descrivere e utilizzare fenomeni che sono in relazione con l’uno e con l’altra. La portata e le conseguenze, scientifiche e culturali, nel breve, medio e lungo periodo, del cambiamento paradigmatico introdotto dalla fisica post-newtoniana sono e saranno rivoluzionarie. La dimensione fisica di cui facciamo parte non è più quella descritta dalla fisica classica, e gli strani fenomeni che stanno emergendo dalla dimensione quantistica e relativistica, stanno alimentando un crescente (morboso) interesse per la dimensione psichica. Un interesse che, sia all’interno che all’esterno del mondo scientifico, fa leva sulla pericolosa combinazione tra il tecnocentrismo e la deriva spirituale dell’Occidente (ma anche dell’Oriente e del resto del mondo!), che si dimostra sordo ad avvertimenti come quelli fatti da Richard Feynman “I think I can safely say that nobody understands Quantum Mechanics.“, (The Character of Physical Law, Cambridge, Massachusetts, 1967), da Niels Bohr “There is no quantum world. There is only an abstract physical description. It is wrong to think that the task of physics is to find out how nature is. Physics concerns what we can say about nature…”, o da Bo Gardiner “Quantum mechanics is often quoted as the explanation for many things, because it’s so weird that people latch onto it as a hope, to explain everything that they would like to believe about the universe… Quantum mechanics is a replacement for the phrase “anything goes. Once anything goes, you can have anything you want. So what better thing to have than something that gives you everything you want? The point is, with quantum mechanics, everything doesn’t go. On certain scales, for certain times, in certain regions, everything goes and strange things happen. But it’s not true for the universe at large”.

Le due anime dell’Illuminismo, eccitate dal sincretismo che si è sviluppato tra le stranezze indicate dalla Fisica Quantistica e le stranezze che affiorano da categorie di realtà generate in altri luoghi e in altri tempi, da altre comunità umane, attraverso forme di conoscenza diverse da quella adottata dalla scienza moderna (ad es. dal buddhismo, dal taoismo, dallo sciamanesimo), si stanno alleando per consegnarci una nuova, fiammante, religione secolare, dove l’Essere Supremo, in arte Deus otiosus, alias Deus Absconditus, si chiama Coscienza Universale.
Uno degli incubatori di religioni secolari più promettente attualmente offerto dal mercato della spiritualità scientifica, si chiama Science and Nonduality (SAND)56, una community internazionale post-materialista fondata nel 2009 dai coniugi Zaya e Maurizio Benazzo (lei è bulgara, lui è italiano) la cui conferenza annuale costituisce una occasione di incontro per eminenti scienziati, filosofi, maestri spirituali e mistici impegnati ad esplorare “the new paradigm emerging in spirituality and grounded in cutting-edge science”. Tra i suoi sostenitori e simpatizzanti, raggruppati nel 2014 attorno ad un Manifesto57, compaiono il California Institute of Integral Studies (CIIS)58, presso il quale è possibile frequentare un Master in Consciousness Studies; il Dipartimento di Psicologia presso la californiana John F. Kennedy University, che ha avviato un Master in Consciousness and Transformative Studies59; e l’inglese Schumacher College, con sede a Totnes, Inghilterra, che offre un Master in Holistic Science60.

Robespierre si autoproclamò sommo sacerdote dell’Essere Supremo.
Auguste Comte si autoproclamò sommo pontefice della Chiesa Positivista.
Francis Galton istituì i tribunali della Inquisizione della Chiesa Positivista.
Chi sarà il Guru della Chiesa della Coscienza Universale?

____________

56. Nonduality is the philosophical, spiritual, and scientific understanding of non-separation and fundamental intrinsic oneness. For thousand of years, through deep inner inquiry, philosophers and sages have come to the realization that there is only one substance and we are therefore all part of it. This substance can be called Awareness, Consciousness, Spirit, Advaita, Brahman, Tao, Nirvana or even God. It is constant, ever present, unchangeable and is the essence of all existence. https://www.scienceandnonduality.com/about/nonduality/

57. We are a group of internationally known scientists, from a variety of scientific lields (biology, neuroscience, psychology, medicine, psychiatry), who participated in an international summit on post-materialist science, spirituality and society. The summit was co-organized by Gary E. Schwartz, PhD and Mario Beauregard, PhD, the University of Arizon, and Lisa Miller, PhD, Columbia University. This summit was held at Canyon Ranch in Tucson, Arizona, on February 7-9, 2014.
http://opensciences.org/about/manifesto-for-a-post-materialist-science  

58. Vedi: https://www.ciis.edu/ 

59. The Master of Arts in Consciousness and Transformative Studies program provides a 58-unit curriculum with courses that challenge student’s beliefs, examine the relationship between consciousness and the world, and explore new possibilities for personal, social, and global transformation.
https://www.jfku.edu/Programs-and-Courses/College-of-Psychology/Consciousness-Transformative-Studies/Programs/MA-Consciousness-and-Transformative-Studies.html
Vedi anche:
http://opensciences.org/blogs/open-sciences-blog/online-ma-program-in-consciousness-tranformative-studies  

60. Vedi: https://www.schumachercollege.org.uk/courses/postgraduate-courses/holistic-science/holistic-science-programme

Conclusioni

Artificial intelligence is the future not only
of Russia but of all of mankind.
There are huge opportunities, but also threats
that are difficult to foresee today…. the industry
leader [in this sphere] will rule the world.

Vladimir Putin61

Perseguire la messa a punto di ibridi uomo-macchina, immaginandoli come un primo passo verso la produzione di umanoidi artificiali, ritenuti migliori degli umani (Ray Kurzweil, ingegnere capo di Google, teorizza il superamento dell’intelligenza umana da parte dei computer), può essere considerato un progetto che resuscita l’Eugenica in formato post-umano? Forse.
Di certo, ipotizzare, come stanno facendo in molti, la realizzazione di macchine intelligenti dotate di coscienza, è il segno tangibile di un corto circuito scientifico e intellettuale che non promette niente di buono.
Ciò che può essere fatto, e che si sta già facendo, è dotarsi di nuovi strumenti tecnologici persuasivi e dissuasivi, inclusi sistemi robotici e informatici che sfruttano la AI, da impiegare sia in campo militare che civile, come mezzi per l’espansione e il controllo del mercato, o come deterrente per la risoluzione dei conflitti legati ad esso, sia a livello locale che globale, su piccola e su larga scala.
Il nobile impiego delle nuove tecnologie, ad esempio in campo medico, serve come deterrente per liberare il campo ad impieghi molto meno nobili.

Il tecno-scientismo progressivo 4.0, con i suoi scenari fantascientifici, segna l’apogeo del processo di integrazione uomo-macchina e il punto di rottura nel rapporto di convivenza e di convenienza tra l’uomo-naturalmente-concepito (→nascita psicologica) e l’uomo-artificialmente-costruito (→nascita tecnologica). L’invasività e la pervasività delle nuove tecnologie non è paragonabile a quella delle tecnologie precedenti, e le sue applicazioni sono destinate a far precipitare il rapporto di integrazione uomo-macchina, innescato dalla Rivoluzione Industriale 1.0, in un processo di dis-integrazione uomo-macchina.
Il pensiero unico alimentato dall’academic/industrial/military iron triangle invita i nativi digitali ad acclamare l’avvento della Rivoluzione Industriale 4.0. Nel corso dei secoli, dicono, le resistenze ai cambiamenti tecnologici si sono sempre dimostrate irragionevoli, ingiustificate, deleterie. Il nuovo che avanza deve essere salutato con favore, perché favorevole è stato il passaggio dalla illuminazione con lampade a petrolio alla illuminazione elettrica, favorevole il passaggio dal trasporto a cavallo al trasporto su rotaia, favorevole il passaggio dal lavoro manuale nei campi a quello meccanizzato, favorevole il passaggio dalla coltivazione e dall’allevamento secondo natura a quello favorito dall’impiego dei prodotti chimici, favorevole, favorevole, favorevole.

È favorevole trasformare gli esseri umani in ibridi-uomo macchina?
È favorevole doversi relazionare e dover competere con sistemi robotici idioti dotati di AI, ai quali viene riconosciuto lo status giuridico di personalità elettronica?
È favorevole rottamare la dignità umana perché passata di moda, sostituendola con un codice a barre digitalizzato impiantato sottocute (come si fa con gli animali domestici)?

Unlike other potential manifestations of AI which still remain in the realm of science fiction”, dice Ryan Gariepy, fondatore & CTO del Clearpath Robotics62, “autonomous weapons systems are on the cusp of development right now and have a very real potential to cause significant harm to innocent people along with global instability.

Sfortunatamente, sembra che il monito lanciato da C. G. Jung62, quando in Occidente imperversava la seconda guerra mondiale, sia destinato a rimanere inascoltato: L’occidentale non ha bisogno di superiorità sulla natura all’esterno e all’interno, le possiede entrambe con perfezione quasi diabolica. È incapace invece di riconoscere coscientemente la propria inferiorità verso la natura che è in lui e intorno a lui. Quello che dovrebbe imparare è che non può fare come vuole; se non imparerà questo, la sua propria natura lo distruggerà; egli infatti ignora la sua anima, che gli si rivolta contro con atto suicida.

____________

61. TASS, 1 September 2017, Putin stresses whoever takes the lead in artificial intelligence will rule world
http://tass.com/society/963209

62. Vedi: https://futureoflife.org/2017/08/20/killer-robots-worlds-top-ai-robotics-companies-urge-united-nations-ban-lethal-autonomous-weapons/

63. Jung, C.G. (1992) La saggezza orientale, Bollati Boringhieri,Torino, pag. 38.

Claudio Messori*

14 gennaio 2018

* Corresponding author: Claudio Messori – Independent Researcher; Address: Str. Villaggio Prinzera 1, Fraz. Boschi di Bardone, Terenzo 43040, Italy; Phone: +393282876077, e-mail: messori.claudio@gmail.com

RIFERIMENTI

[1] Messori, C. (2015), Quale Modello per le Neuroscienze – Part. I of III. Il Minotauro, Persiani Editore, Bologna, 1, 25-45
https://www.researchgate.net/publication/278414562_Quale_Modello_per_le_Neuroscienze
[2] Rose, F. (1984) Into the Heart of the Mind: An American Quest for Artificial Intelligence, Harper & Row, New York, p. 36
[3] Norbert Wiener, “Men, Machines, and the World About”, in Medicine and Science, 13-28, New York Academy of Medicine and Science, ed. I. Galderston, New York: International Universities Press, 1954
http://21stcenturywiener.org/wp-content/uploads/2013/11/Men-Machines-and-the-World-About-by-N.-Wiener.pdf
[4] Dennis, M.A. (2000) Vannevar Bush. American engineer, Enciclopedia Britannica
https://www.britannica.com/biography/Vannevar-Bush#ref192589
[5] Messori, C. (2012) Dalla Facoltà Acustico-Musicale alle Origini del Linguaggio Orale Fino al Predominio della Cavità Orale che Genera il Mondo sulla Cavità Uterina che Genera la Vita. Il Minotauro, Persiani Editore, Bologna, 2, 6-43
https://www.researchgate.net/publication/255696745_Dalla_Facolta_Acustico-Musicale_alle_Origini_del_Linguaggio_Orale_Fino_al_Predominio_della_Cavita_Orale_che_Genera_il_Mondo_sulla_Cavita_Uterina_che_Genera_la_Vita
[6] Messori, C. (2016) From Continuity to Contiguity. On the Genesis of Consciousness, Culture and Oral Language – Part I-II-III-IV. Journal of Consciousness Exploration & Research, 7(2), 163-228
https://www.researchgate.net/publication/295857703_From_Continuity_to_Contiguity_On_the_genesis_of_consciousness_culture_and_oral_language_Part_I_of_IV
[7] Messori, C. (2015), Quale Modello per le Neuroscienze – Part II of III. Il Minotauro, Persiani Editore, Bologna, 2, 80-117
https://www.researchgate.net/publication/278414562_Quale_Modello_per_le_Neuroscienze
[8] Messori, C. (2013) Near Death Experience nell’Epoca di Transizione da Homo Technologicus a Homo Artificialis. Il Minotauro, Persiani Editore, Bologna, 2, 6-56
[9] Messori, C. (2000) Il Sole e la Luna. Sulla Natura dei Simboli e della Mente Umana, Federico Ceratti Editore, Milan, Italy
https://www.researchgate.net/publication/255696883_Il_Sole_e_la_Luna_Sulla_Natura_dei_Simboli_e_della_Mente_Umana
[10] Messori, C. (2004) Le Metamorfosi della Meraviglia. Riflessioni sui Percorsi della Conoscenza dall’Età del Bronzo ad Oggi. Maremmi Editori, Firenze Libri, Firenze, Italy
https://www.researchgate.net/publication/255696858_Le_Metamorfosi_della_Meraviglia
[11] Hayek, F. (1995) La via della schiavitù (traduzione italiana di The Road to Serfdom), Rusconi, Milano, p.144-145
[12] Minois, G. (2007) Storia dell’avvenire. Dai profeti alla futurologia. Edizioni Dedalo, Bari
[13] Tang, L. et Al (2017) CRISPR/Cas9-mediated gene editing in human zygotes using Cas9 protein, Molecular Genetics and Genomics, 292(3), 525-533
https://link.springer.com/article/10.1007%2Fs00438-017-1299-z
[14] Liang, P. et Al. (2015) CRISPR/Cas9-mediated gene editing in human tripronuclear zygotes, Protein Cell, 6(5):363–372
https://link.springer.com/article/10.1007%2Fs13238-015-0153-5
[15] Regalado, A. (2015) Engineering the Perfect Baby. Scientists are developing ways to edit the DNA of tomorrow’s children. Should they stop before it’s too late?, MIT Technology Review
https://www.technologyreview.com/s/535661/engineering-the-perfect-baby/
[16] Cyranoski, D., Reardon, S.S. (2015) Chinese scientists genetically modify human embryos, Nature
http://www.nature.com/news/chinese-scientists-genetically-modify-human-embryos-1.17378#/b1
[17] Moxon, K.A., Foffani, G. (2015) Brain-Machine Interfaces beyond Neuroprosthetics, Neuron (86), 55-67
http://www.cell.com/neuron/fulltext/S0896-6273(15)00260-3?_returnURL=http%3A%2F%2Flinkinghub.elsevier.com%2Fretrieve%2Fpii%2FS0896627315002603%3Fshowall%3Dtrue
[18] Liu, J. et al. (2015) Syringe-injectable electronics, Nature Nanotechnology (115), 1-36 https://cml.harvard.edu/assets/NatNano_2015_10_629-636_Liu_SI.pdf
[19] Lee, W. et Al. (2015) Image-Guided Transcranial Focused Ultrasound Stimulates Human Primary Somatosensory Cortex, Scientific Reports 5, 8743
. https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4348665/ 
               [20] Edward, D. et Al (2013) Physiological and modeling evidence for focal transcranial electrical brain stimulation in humans: a basis for high-definition tDCS, Neuroimage, (7), 266-275 
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4359173/

[21] Herrmann, C.S. et Al. (2013), Transcranial alternating current stimulation A review of the underlying mechanisms and modulation of cognitive processes, Frontiers in Human Nauroscience, (7), 279
http://journal.frontiersin.org/article/10.3389/fnhum.2013.00279/full


[22] Legon, W. et Al (2014) Transcranial focused ultrasound modulates the activity of primary somatosensory cortex in humans, Nature Neuroscience, (2), 322-9
https://www.researchgate.net/publication/259699619_Transcranial_focused_ultrasound_modulates_the_activity_of_primary_somatosensory_cortex_in_humans


[23] Liu, G. et Al. (2015) Syringe injectable electronics, Nat Nanotechnol., 10(7), 629-636
. https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4591029/ 
[24] Shuhmann, T.G. Jr., et Al. (2017), Syringe-Injectable Electronics with a Plug-and-Play Input/Output Interface, Nano Letters
http://pubs.acs.org/doi/abs/10.1021/acs.nanolett.7b03081
[25] Mueller, J. (2014) Transcranial Focused Ultrasound Modulates Intrinsic and Evoked EEG Dynamics, Brain Stimulation, 7(6), 900-908
http://www.brainstimjrnl.com/article/S1935-861X(14)00306-4/fulltext
[26] Sanger, M. (1922) The Pivot of Civilization, from Chapter VI and VIII
http://groups.csail.mit.edu/mac/users/rauch/abortion_eugenics/sanger/
[27] Cohen, H. (2016) Imbeciles: The Supreme Court, American Eugenics, and the Sterilization of Carrie Buck, Penguin Press
[28] Caritat de Condorcet, M.J.A.N. (1794) Outlines of an historical view of the progress of the human mind, Tenth Epoch, Future Progress of Mankind http://oll.libertyfund.org/titles/condorcet-outlines-of-an-historical-view-of-the-progress-of-the-human-mind#lf0878_head_013
[29] Harward College Library (1914) Eugenics: Twelve University Lectures. By Morton Arnold Aldrich, William Herbert Carruth, Charles Benedict Davenport, William Henry Howell, Arthur Holmes, Harvey Ernest Jordan, Albert Galloway Keller, Edward Lee Thorndike, Victor Clarence Vaughan, Herbert John Webber, Robert Henry Wolcott, Charles Abram Ellwood, Ed. Dodd Mead and Company, New York
https://ia801409.us.archive.org/10/items/eugenicstwelveu00ellwgoog/eugenicstwelveu00ellwgoog.pdf
[30] Barondess, J.A. (1998) The old eugenics and the new science, Transactions of the American Clinical and Climatological Association, 109: 174–182
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2194351/
[31] Garland, E.A. (2001) Essays on science and society. Is a New Eugenics Afoot?, Science, Vol. 294, Issue 5540, pp. 59-61
http://science.sciencemag.org/content/294/5540/59.full
[32] Krige, J., Pestre, D. (a cura di) (2013) Science in the Twentieth Century, Ed. Routledge
[33] Stone, R., Hunt, S.J. (2017) The Bush Crime Family: The Inside Story of an American Dynasty, Skyhorse Publishing Inc.
[34] Farber, S.A. (2008) U.S. Scientists’ Role in the Eugenics Movement (1907–1939): A Contemporary Biologist’s Perspective, Zebrafish, Dec; 5(4): 243–245
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2757926/
[35] Kimmelman, B.A. (1983) The American Breeders’ Association: Genetics and Eugenics in an Agricultural Context, 1903-13, Social Studies of Science, Vol. 13, No. 2, pp. 163-204
[36] Spiro, J.P. (2009) Defending the Master Race: Conservation, Eugenics, and the Legacy of Madison Grant, University Press of New England (UPNE)
[37] Purdy, J. (2015) After Nature: A Politics for the Anthropocene, Harvard University Press, p. 181
[38] Black, E. (2012 Expanded Edition) War Against the Weak: Eugenics and America’s Campaign to Create A Master Race, Science and Society, Dialog Press
[39] Allen, G. E. (2004) Was Nazi eugenics created in the US?; book review: War Against the Weak: Eugenics and America’s Campaign to Create A Master Race, Science and Society, 5(5): 451–452
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC1299061/
[40] Kay, L.E. (1993) The Molecular Vision of Life: Caltech, The Rockefeller Foundation, and the Rise of the New Biology, Oxford University Press
[41] Masterjohn, C. (2009) The Rockfeller Foundation’s Molecular Vision of Life — How the Aims of Eugenics, Social Control, and Human Engineering Shaped Molecular Biology and 20th Century Science. A Review of Lily E. Kay’s The Molecular Vision of Life: Caltech, The Rockefeller Foundation, and the Rise of the New Biology (Oxford University Press, 1993)
[42] Jones, E., Rahman, S. (2008) The Maudsley Hospital and the Rockefeller Foundation: The Impact of Philanthropy on Research and Training, J Hist Med Allied Sci, 64 (3): 273-299
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC2723762/
[43] Kuhl, Stefan (2002) The Nazi Connection: Eugenics, American Racism, and German National Socialism, Oxford University Press
[44] Braund, J., Sutton, D.G. (2008) The case of Heinrich Wilhelm Poll (1877-1939): a German-Jewish geneticist, eugenicist, twin researcher, and victim of the Nazis, Journal of the History of Biology, 41(1):1-35
[45] Rabson, S.M. (1936) Alfred Grotjahn, Founder of Social Hygiene, Bulletin Of The New York Academy Of Medicine, 12(2):43-58
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC1965908/pdf/bullnyacadmed00856-0007.pdf
[46] Willich, S.N., Berghöfer, A. (2013) George Wolff (1886–1952): Spreading the Legacy of Alfred Grotjahn to the United States, American Journal of Public Health, 103(12):2202-3 https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3828972/
[47] Kevles, D.J. From Eugenics to Genetic Manipulation. In: Krige, J., Pestre, D. (a cura di) (2013) Science in the Twentieth Century, Ed. Routledge, Chapter 16
[48] Aron, R. (2004) L’avvenire delle religioni secolari (1944), in: Forti, S. (a cura di) (2004) La filosofia di fronte all’estremo. Totalitarismo e riflessione filosofica, Einaudi, Torino, p. 4
[49] Cassier, E. (1973) La filosofia dell’Illuminismo (1932), La Nuova Italia, Firenze
[50] Talmon, J.L. (2000) Le origini della democrazia totalitaria (1952), Il Mulino, Bologna
[51] Monnerot, J. (1970) Sociologia del comunismo (1949), Giuffrè Editore, Milano
[52] Sironneau, J.-P., Crisi religiosa dei Lumi e secolarizzazione. In: Boschi, U., Cheng, A., Clemént, O., Cosi, D.M., Sfameni Gasparro, G., Margolin, G.-C., Massein, P., Paolini, L., Ries, J., Sironneau, J.-P. (1995) Crisi, rotture e cambiamenti, Trattato di Antropologia del sacro, Editoriale Jaca Book, Milano, pp. 337-338
http:/www.gianfrancobertagni.it/materiali/varia/riecrisi.pdf
[53] Gold, H. (2004) Unit 731: Testimony, Tuttle Publishing
[54] Sheldon, H.H. (2002) Factories of Death: Japanese Biological Warfare in 1932–45 and the American Cover-up, Routledge
[55] Williams, P., Wallace, D. (1990) Unit 731: Japan’s Secret Biological Warfare in World War II, Grafton Books, London
[56] Messori, C. (2016) Intelligence vs Artificial Intelligence: The King is Naked, Open Access Library Journal, 3:e3115
https://www.scirp.org/Journal/PaperInformation.aspx?PaperID=72003
[57] Kay, L.E. (2000) Who Wrote the Book of Life?: A History of the Genetic Code, Stanford University Press
[58] Gray, C. H. (1998) Postmodern War: The New Politics of Conflict, The Guilford Press
[59] Gray, C. H. (2002) Cyborg Citizen: Politics in the Posthuman Age, Routledge
[60] Agbinya, J.I. (2011) Principles of Inductive Near Field Communications for Internet of Things, River Publishers
[61] Bieri, M., Dickow, M. (2014) Lethal Autonomous Weapons Systems: Future Challenges, Publikationen des Center for Security Studies (CSS), Switzerland

Colpa collettiva e non-potere ne “Il libro rosso” di C. G. Jung

di Federico Guastella

C. G. Jung nella sua torre a Bollingen

Il viaggio di Jung nelle insondabili profondità della psiche comincia con lo scoppio della prima Guerra mondiale, tant’è che Sonu Shamdasani ha scritto: “Non è esagerato affermare che, se la guerra non fosse stata dichiarata, con ogni probabilità il Liber novus non avrebbe preso forma”. Leggiamo il brano di riferimento:

Nell’ottobre 1913, mentre ero in viaggio da solo, durante il giorno fui improvvisamente sopraffatto da un visione: vidi una spaventosa alluvione che inondava tutti i bassopiani settentrionali situati tra il Mare del Nord e le Alpi. Andava dall’Inghilterra alla Russia e dalle coste del Mare del Nord fin quasi alle Alpi. Vedevo i flutti giallastri, le macerie galleggianti e la morte di innumerevoli persone”. (“Prologo”, “La via di quel che ha da venire”, ed. studio, p. 11).

E’ la terrifica visione della Grande Guerra con cui Jung lotta. Per circa due ore non l’abbandona; ritorna più intensamente dopo due settimane al punto da fargli pensare che la sua mente si sia ammalata. Folle l’evento che incombe sul destino dell’Europa. Un mare di sangue ricopre i paesi nordici: com’era possibile, si chiede quasi incredulo, lo smarrimento di quanto è umano nell’uomo? Le visioni devastanti lo turbano ed egli le trascrive, ponendo attenzione ai segni che gli si stampano sulla retina. Il resoconto è dettagliato:

Nel 1914, all’inizio e alla fine del mese di giugno, e all’inizio di luglio, feci per tre volte il medesimo sogno. Ero in terra straniera, e all’improvviso, di notte e proprio in piena estate, dagli spazi siderali era calato un freddo inspiegabile e mostruoso, tutti i mari e i fiumi ne erano rimasti ghiacciati, e gelata era ogni forma di vegetazione”(Ivi, p. 12).

Simile al primo, è il secondo sogno. In entrambi, Jung si trova in un paese sconosciuto; il terzo, da lui avuto agli inizi di luglio, lo impressiona di più:

Illustrazione tratta da “Il libro rosso” di C.G. Jung

Mi trovavo in una remota regione inglese. Era necessario che tornassi in patria il più in fretta possibile con una nave veloce. Arrivavo in fretta a casa. In patria trovavo che in piena estate era calato dagli spazi siderali un freddo mostruoso che aveva congelato ogni forma di vita. Lì c’era un albero fronzuto, ma privo di frutti, le cui foglie si erano trasformate, per effetto del gelo, in dolci grappoli, colmi di un succo salutare. Io li coglievo e li offrivo a una grande folla in attesa. Nella realtà stava succedendo questo. Nel periodo in cui scoppiò la Grande Guerra tra i popoli europei mi trovavo in Scozia, costretto dalla guerra decisi di ritornare in patria con la nave più veloce e per la rotta più breve. Trovai il freddo polare, che aveva fatto gelare ogni cosa, trovai l’alluvione, il mare di sangue, e ritrovai anche il mio albero privo di frutti, le cui foglie il gelo aveva trasformato in rimedio salutare. E io colgo i frutti maturi e li offro a voi senza sapere che cosa vi dono, quale agrodolce e inebriante pozione, che vi lascia un sapore di sangue sulla lingua”. (Ivi, pp. 12-13).

La solitudine si dilata all’infinito, l’assale con un gelido brivido. E’ la notte del 1914: eventi luttuosi stanno per arrivare nella tenebra che cancella la luce del mondo. Ad evidenziarsi è l’interazione dell’io personale con la storia. Il lettore de “Il libro Rosso” scopre infatti un atteggiamento transpersonale: Jung partecipa al dramma del conflitto bellico, lo vive radicalmente e l’anticipa, interagendo con l’irrazionalità della storia; sente il suo Io contorcersi nel dolore per il carico dei morti gravante su di lui. E’ lo spirito del profondo, da lui percepito a seguito della visione dell’alluvione, a suggerirgli che la guerra è l’espressione di un diverbio interiore che si scatena esteriormente. Il male psichico non è altro che una resistenza al principio di individuazione: comprendere la propria ombra personale e interiorizzarla evita che essa si esteriorizzi con conseguenze maligne sulla collettività. Gli uomini vivono grandi lacerazioni interne fino ad uccidersi reciprocamente. E’ il conflitto individuale ad essere la causa della sventura esterna. L’arrovella il prevalere del demone sanguinario; il monito è deciso: l’uomo assassina una parte della sua vita quando uccide il suo prossimo. Sicché, Jung viene invaso dal mistero dell’autosacrificio: vuole diventare “Cristo”, riconoscendo nella forza dell’amore il più alto del piacere. Il riferimento agli eventi della prima guerra mondiale ritorna nel cap. V del “Liber primus”. L’atto d’accusa è spietato. La colpa è collettiva, giacché tutti prendono parte all’assassinio senza comprendere che il nemico da sopprimere è in se stessi. Con accenti profetici egli scrive:

Illustrazione tratta da “Il libro rosso” di C. G. Jung

Tutti voi prendete parte all’assassinio (…). Ma chi uccidono gli uomini? Uccidono i nobili, i valorosi, gli eroi. Dovrebbero sacrificare l’eroe presente in loro stessi e, poiché non lo sanno, uccidono i propri fratelli valorosi. A costoro mirano, ignorando che in essi intendono colpire se medesimi. Dovrebbero sacrificare l’eroe presente in se stessi e, poiché non lo sanno, uccidono i propri fratelli valorosi. I tempi non saranno maturi fin quando sarà possibile uccidere il fratello invece di se stessi. Deve accadere qualcosa di terribile perché gli uomini maturino. Ma non v’è altro modo perché l’uomo maturi. Perciò tutto quello che avviene in questi giorni deve succedere, affinché possa giungere il rinnovamento (…). Quello che i destini dei popoli rappresentano nella realtà concreta accadrà nei vostri cuori. Se in voi verrà ucciso l’eroe, allora sorgerà per voi il sole del profondo, che risplende da un luogo remoto e ancora ignoto”. (“Viaggio infernale nel futuro”, p. 41).

Fino a quando ogni eroismo non sarà spento, è l’abisso ad essere avido di beni. Jung, può allora parlare del non-potere che esige la sua quota di vita per fare apprezzare le più piccole cose, nonché la saggia moderazione richiesta dalle massime altezze. Se per lo spirito del tempo il non-potere è una perdita rispetto al potere, per lo spirito del profondo è invece un guadagno, non di beni esteriori, ma per il perfezionamento interno:

Il non-potere comunque esiste. Nessuno dovrà negarlo, criticarlo o zittirlo con le proprie grida”. (Ivi, p. 44).

L’atteggiamento non è quello dell’ascesi che si fonda sul rifiuto del mondo; il testo invita al recupero del vincolo fra realtà oggettiva e soggettiva. Nante spiega che Jung aveva già capito l’errore di Nietzsche consistente “nell’incapacità di mantenere un legame con la realtà sociale; questi si era perso e non era stato capace di tornare in superficie e mescolarla alla profondità”. (B. Nante, Guida alla lettura del libro rosso di C. G. Jung, op. cit., p. 221). Nietzsche si era identificato con il suo pensiero; non aveva integrato le scissioni della sua psiche, smarrendosi così nella psicosi. La posizione di Jung è invece molto attenta al sociale: egli non perde di vista il senso della responsabilità collettiva. La soluzione è quella di sacrificare, uccidendolo, tutto quello che nell’uomo è eroico:

L’eroe vuole intraprendere tutto ciò che gli è possibile. L’anonimo spirito del profondo invece fa emergere tutto ciò che l’uomo non può fare (…). Chi impara a convivere con il proprio non-potere ha appreso molto”. (Ivi, p. 43).

Federico Guastella

21 gennaio 2018

Note su “Il libro rosso” di C. G. Jung

di  Federico Guastella

Carl Gustav Jung

Ci furono anni inquieti per il nostro psicoanalista. Già nel 1912 aveva pubblicato I simboli della trasformazione, segnando nella seconda parte notevoli divergenze con Freud fino all’interruzione brusca della scambio epistolare e alle dimissioni dalla direzione della rivista dell’associazione psicoanalitica. Nell’ottobre del 1913 Jung ruppe i rapporti con questi ed entrò in crisi fino a dimettersi, nell’aprile del 1914, da presidente di detta Associazione internazionale, cominciando a intraprendere un particolare tipo di viaggio: quello del rapporto con l’inconscio che, protraendosi fino al 1930, risulta trascritto nel “Il libro rosso”: opera “sorprendente” e “inclassificabile” per Nante, il quale esclude che possa rientrare in qualche genere letterario. Per l’acuto studioso, essa è piuttosto paragonabile “alle grandi narrazioni profetiche o mitiche del passato più remoto”. Poi aggiunge:

“Nondimeno l’opera esprime il vissuto e la voce di un uomo del nostro tempo, eco della voce del profondo, che trasmette una nuova comprensione di sé in risposta al disorientamento dell’uomo contemporaneo 1 ”.

Il volume, salutato dal New York Times Magazine come “Il Santo Graal dell’inconscio”, è rilegato in pelle rossa, trascritto in caratteri gotici, ornato di fregi e disegni sul modello dei manoscritti medievali, nonché corredato da dipinti mandala2.   

Ecco come Jung ne ha descritto il lavoro di stesura:

“Annotai le mie fantasie come meglio potevo, e feci un serio sforzo per analizzare le condizioni psichiche in cui erano sorte; ma mi riuscì di farlo solo con un linguaggio approssimativo. Per prima cosa esponevo le fantasie come le avevo osservate, di solito con un “linguaggio elevato”, perché questo corrisponde allo stile degli archetipi. Gli archetipi parlano un linguaggio patetico e persino ampolloso. E’ uno stile che mi riesce fastidioso e mi dà ai nervi, come quando qualcuno sfrega le unghie su un intonaco o il coltello su un piatto” ( in Ricordi, sogni, riflessioni).

Tormentato da «un flusso incessante» di visioni e di voci esistenti nella sua psiche, egli prese appunti per oltre 16 anni, via via rielaborati per comporre questo originalissimo libro che inquieta e coinvolge: “presagio numinoso”, lavoro immane in cui c’è il nucleo della sua futura attività specialistica; “diario intimo”, o “giornale di bordo” d’una personalissima navigazione che conduce all’individuazione del Sé passando attraverso la sofferenza.

Sonu Shamdasani osserva che, intraprendendo un’esplorazione del proprio inconscio, Jung ha applicato a se stesso la tecnica dell’autosperimentazione, impiegata all’epoca sia in medicina che in psicologia. Sicché, l’analisi dei suoi processi psichici inconsci lo portò ad annotare ogni particolare con cura, superando notevoli resistenze. Il procedimento consisteva nell’evocare di proposito una fantasia in stato di veglia, per poi addentrarsi in essa come se si trattasse di una rappresentazione teatrale3”.

Forse a costituire il maggior pregio dell’opera sono le visioni che, spontaneamente generate, esprimono un mondo di incantesimi, dove si muovono personaggi fantastici. Spesso è difficile coglierne il senso, ma ciò che suggestiona è l’amabilissima e intrigante capacità descrittiva tale da fare rivivere magie e simboli che fanno da tramite fra la sua e la nostra psiche, indirettamente sollecitata a sperimentare il proprio mondo e a recuperare il proprio mito: il senso della propria esistenza, a dirla con Nante. Come per il mito, è l’intimo sentire, la cui qualità è intuitiva e non discorsiva, incantatoria e non freddamente logica e argomentativa, ad affascinare. Il procedimento immaginifico, rimasto a lungo ai margini della cultura in nome di un esasperato razionalismo, diventava così un percorso privilegiato sulla vicenda esistenziale. Per Jung era importante far fluire i contenuti dell’inconscio senza ricercarne una spiegazione che avrebbe potuto tradirli; meglio allora accontentarsi delle sensazioni interne che valgono più delle interpretazioni.

L’immagine della spiaggia utilizzata da R. Mercurio nel suo intervento a un seminario, a “Temenos”, sul “Libro Rosso”, ripreso nella rivista “Babele”4, costituisce un eccellente sfondo  entro cui inserire le molteplici sfaccettature del viaggio junghiano. Poiché la metafora affascina per la succosa significatività e per finezza espositiva, è opportuno tentare di esporla.

   In una spiaggia immaginale, da una sponda si scorge la terra ferma, la solidità, la logica, la coerenza, l’affermazione dell’io, la concretezza di tutta la realtà che ci circonda (cioè, lo spirito del tempo). Dall’altra sponda, c’è il mare: la fluidità, la fantasia, l’irrazionale, la necessità di abbandonare il solito atteggiamento dell’Io e di lasciarsi andare col rischio di rimanere in balia dalle correnti e di essere portati via dalle onde.

    La spiaggia, dunque: territorio mediano tra solidità e fluidità, tant’è che  partecipa alla vita delle due sponde senza essere nell’una e nell’altra. La sabbia ha una solidità non proprio solida: una solidità “sui generis”, speciale e psicologica:

“Essa nasce e cresce nella coscienza quando questa è a contatto in modo consapevole e fiducioso con l’inconscio”.

In sostanza, la spiaggia è vista come la metafora di un atteggiamento psicologico flessibilmente scorrevole che non abbandona il legame con la concretezza della terra ferma: Un ottimo osservatorio, un ottimo territorio simbolico, l’angolazione migliore perché “il liquido e il solido si incontrano qui e si compenetrano”. In tale ottica, la logica e la fantasia si amalgamano in un fecondo interscambio:

“Jung sa di non potere restare aggrappato alla terra ferma, limitandosi ad interpretare con distacco nei riguardi di chi, con presunzione e con arroganza, pensa di sapere tutto e di avere la scienza dalla sua parte. Questi elementi, quelle presenze nel suo inconscio esigevano di più (…). Meritavano un’accoglienza attenta e prudente (…). Jung si è avvicinato al mare, ha affrontato le onde e ha corso i suoi rischi; facendo questo egli ha trovato una nuova base, un nuovo asse portante della sua personalità. E allo sesso tempo ha aperto per tutti noi una nuova “prospettiva psicologica”.

Siamo nell’integrazione di “Logos” e di “Eros” da cui si genera, scrive Mercurio, una diversa e altra prospettiva “di intendere la psiche con ciò che vive e nel modo di relazionarsi con ciò che vive e che si fa sentire dentro di noi”.

Nella «Nota alla traduzione» italiana (Bollati Boringhieri, prima edizione studio novembre 2012, Torino), Anna Massimello e Giulio Schiavoni (ai traduttori va aggiunto Giovanni Sorge) ricordano come Jung avesse dichiarato di prediligere uno stile «equivoco e ambiguo», ricco di sottintesi, evocativo, più «letterario che scientifico», «per rendere giustizia alla natura della psiche». Hanno altresì evidenziato la compresenza di almeno tre registri espressivi, tenuti insieme dalla sua feconda esperienza: quello letterale-narrativo, quello di commento analitico-concettuale e quello mantico-profetico, da intendersi, facendo tesoro delle indicazioni fornite da Platone nel Fedro, come capacità divinatoria dell’anima oltre le facoltà razionali. I riferimenti colti, impliciti ed espliciti, sovrabbondano: sono evidenti quelli dello “Zarathustra” di Nietzsche, del “Faust” di Goethe, nonché della “Commedia” di Dante. Forte è la coloritura religiosa, biblica, gnostica, cabalistica, ma anche orientale, hindu e buddhista. Sono queste le ascendenze cui fa riferimento anche Paulo Barone nella sua accurata recensione (21 novembre 2010, “Il Manifesto”), dove specificamente definisce il Libro Rosso testo “multimediale”5 e “multiculturale ante litteram”, nonché atto a contenere “tutte le linee guida della psicologia analitica junghiana, la parte consistente del suo metodo” come accoglienza di “immagini originarie”, come urgenza “di trovare un’alternativa inconscia al tempo presente, ormai precipitato in un vicolo cieco”.

Federico Guastella

11 gennaio 2018

Note:

1. B. Nante, Guida alla lettura del Libro rosso di C. G. Jung, Bollati Boringhieri, Torino, 2010, p. 25.

2. Si potrebbe dire che “Il Libro rosso” custodisca il segreto interiore di Jung da lui espresso anche con immagini mandaliche che compendiano il suo percorso di autorealizzazione dell’inconscio». Una storia, dunque, che procede nel duplice registro dell’immagine e della parola come autopoiesi della psiche. Sono i mandala che, raffigurando i suoi processi, illustrano in maniera incisiva la specifica concezione che egli aveva dell’immagine. Il mandala, che significa cerchio, ha forma circolare a simmetria quadrata con evidenziazione del centro. Ci si può riferire ad un archetipo ordinatore e dinamico presente nella realtà; è l’archetipo che in ogni cultura mitologica esprime la potenza demiurgica a trarre il “kosmos” (ordine) dal “Chaos” (disordine). Come tale, il mandala compensa il disordine e la confusione dello stato psichico attraverso il costituirsi di un punto centrale. Nasce da questa convinzione il suo valore  che si sostanzia di alcuni elementi costitutivi, tra cui: la circonferenza, il centro, nonché la struttura quadrangolare che perimetra l’insieme. La circonferenza delimita, abbraccia, circoscrive; il centro accentra, irradia, unifica; l’impianto quadrangolare orienta, stabilizza, consolida. Il mandala si presenta, dunque, come un’immagine sovra-stratificata che ha in sé proprietà figurative, fisiche e psichiche; nel contempo è una realtà simbolica che colloca l’individuo in un mondo unitario, nell’ “unus mundus”. Varia la molteplicità di mandala, tipicamente occidentali, che costellano la vita psichica; ne sono esempi i rosoni, gli orologi, le monete classiche, figure antiche tracciate sulle carte da gioco e fenomeni recenti impressi nei campi di grano (“Crop circe”). Sono immagini che «compensano il disordine e la confusione dello stato psichico» individuale e collettivo anzitutto attraverso l’azione delimitante della circonferenza. In tale ottica, l’associazione tra il cerchio divino di cui parla Agostino (“Deus est circulus cuius centrum est ubique, peripheria vere nusquam” – “Dio è un cerchio il cui centro è ovunque e la cui circonferenza non è in nessun luogo”) è ineludibile. Claudio Widmann ha scritto:”Come il Dio di Agostino, anche il Sé è totalità psichica che sfugge a qualunque delimitazione e centro gravitazionale che si precisa in ogni manifestazione contingente.  Combinando il diverso con l’identico e il molteplice con l’unico, esso costituisce la matrice archetipica dell’individualità e in questo senso è il centro intimo e immutabile che alimenta le percezioni di continuità, stabilità e permanenza che sono alla base di ogni percezione di sé (Claudio Widmann, in rivista “Babele”, n.10 del 201, p. 19-26).

3. S. Shamdasani, Introduzione a IL libro rosso di C. G. Jung, Bollati Boringhieri, Torino, ediz. studio, 2009, p. XXXI-LII. Ivi, p. XXXVII.                                                                  

4. n. 10 – giugno 2011 – pp. 7-9.

5. In linea di massima, ogni capitolo sia del Liber primus che del Liber secundus è introdotto da un’immagine che, disegnata dallo stesso Jung, risponde all’esigenza di immettere in un contesto simbolico dalle più ampie e possibili interpretazioni. Rilevante l’apporto di Nante che opera una classificazione e dà una descrizione delle principali immagini unitamente a informazioni che ne facilitino la comprensione (Nante, Guida alla lettura del libro Rosso di C. G. Jung, op. cit., pp. 182-187).

Home Page

L’imbroglio ecologico

di Cosimo Alberto Russo

 

Dario Paccino, in una foto del 1985 tratta da: http://scaloni.it/popinga

“L’imbroglio ecologico” era il titolo di un saggio pubblicato da Dario Paccino nel 1972; Dario Paccino era innanzitutto un grande uomo di cultura, giornalista professionista dal 1940, autore di numerosi saggi, che aveva colto in pieno le ripercussioni delle nascenti teorie ecologiste sul modello sociale, ma ancor più aveva visto come queste teorie venissero svuotate ed adattate a vantaggio del sistema esistente. All’epoca il suo saggio segnò ulteriormente la distanza tra ecologismo e marxismo, sottolineando in realtà una contrapposizione tra ideologie con presupposti culturali decisamente diversi: da un lato l’ecocentrismo, dall’altro l’antropocentrismo.

Oggi che le ideologie hanno perso quota e si ha un approccio ai problemi forse più legato al “buon senso” (nei casi migliori) o all’utilitarismo strumentale senza remore (nella maggior parte delle situazioni), si può ripensare ai temi dell’ambiente e dell’ecologia in termini più oggettivi (se si utilizza il buon senso…).

Il tema dell’ambiente entra prepotentemente nelle agende politico – socio – economiche di tutti i governi, nonostante si tenti continuamente di nasconderlo ed accantonarlo sperando che tocchi alle generazioni future occuparsene; lo stesso tema è anche molto lontano dal pensiero e dalle esigenze delle popolazioni “benestanti”, sia perché non ha ancora colpito il loro benessere, sia perché una continua e profonda azione di convincimento culturale le ha portate ad un progressivo rapido allontanamento dai valori legati all’ambiente (esempio, il mare: non è più importante che sia pulito, silenzioso, “spirituale”; ciò che conta è che sia occasione di svago simile a quello cittadino, quindi affollato, “riempito” dalla musica, consumistico…al limite non importa più neanche che ci sia, il mare).

Appare evidente, quindi, che il tentativo del sistema socio economico è quello di svuotare di significato i problemi  legati al degrado ambientale ed anzi utilizzarli per il mantenimento stesso del sistema, convincendo la gente (che non aspetta altro…) che i problemi ci sono, ma si risolvono senza dover cambiare nulla del proprio stile di vita.

Poiché è più importante dare indicazioni ed esempi chiari e dettagliati, piuttosto che trattare argomenti generici, pur teoricamente necessari, verranno elencati pochi ed esemplificativi casi di “imbroglio ecologico”.

foto da http://www.grillonews.com/content/view/115/6

Il primo riguarda proprio il mare. Come vengono indicate le zone balneari (termine già “raccapricciante” – il mare è solo strumento di balneazione) cosiddette “pulite”? Con le Bandiere blu! Chiunque abbia mantenuto un minimo di consapevolezza, leggendo l’elenco delle bandiere blu non si sognerebbe mai di considerare quelle zone come le più attraenti dal punto di vista naturale. Ed infatti la “bandiera blu” non tiene conto dell’integrità naturale del luogo, ma di ben altri parametri (servizi fruibili – cioè possibilità di consumare facilmente, senza dover  “faticare”, la merce in questione, cioè il mare). Così troviamo la bandiera blu assegnata a Pozzallo…

Al di là dell’imbroglio ecologico, è ancor più grave l’inganno culturale, che ci spinge ad accettare e riconoscersi nel ruolo di semplici consumatori anche di ciò che merce non è, o non dovrebbe essere.

E che dire dei “pacchetti” di turismo ecologico, interpretato come una attività equa e responsabile, proposti sempre più spesso dalle agenzie di viaggio? In realtà si tratta solo di un escamotage per aiutare un settore (quello del turismo di massa) che calamita giustamente critiche sempre più pesanti dai settori meno legati all’economia turistica. L’aiuto allo sviluppo dei paesi visitati è un falso alibi: a parte che solo una minima quota del costo del viaggio va al paese ospitante, si contribuisce alla corruzione della cultura e del tessuto sociale delle popolazioni visitate; inoltre, anche gli ambienti naturali soggetti a “turismo” non possono non subire un progressivo degrado.

Andando a toccare argomenti più “pesanti” dal punto di vista del modello di sviluppo in auge, e quindi sempre più mistificati, parliamo del MITO del secolo XX: l’automobile. Qui la truffa non ha limiti, né di tempo né di quantità di raggirati. L’automobile è tra i principali responsabili delle catastrofi ambientali prossime annunciate e dell’aumento esponenziale delle malattie respiratorie nei centri urbani (soprattutto per i bambini). Questo suo potenziale tossico e negativo viene utilizzato costantemente per spingere i consumatori (noi tutti) ad aggiornare periodicamente il parco auto, in modo da permettere ad un’industria (altrimenti agonizzante) di rimanere florida. Perché comprare un’auto nuova? Visto che non è più sufficiente (dati i costi del prodotto da vendere) il battage pubblicitario, si ricorre alla coercizione: se non si ha l’ultimo modello non si circola nei giorni di chiusura al traffico, addirittura non si circola in certe aree e così via.

                                                                                               foto   da: http://www.ilblogdeimotori.com

Stesso discorso è stato fatto con l’introduzione delle marmitte catalitiche (ricordate? Ci dicevano che così si sarebbero risolti i problemi legati alla qualità dell’aria, e infatti sono aumentati notevolmente gli inquinanti cancerogeni (benzene, idrocarburi policiclici aromatici) però effettivamente il piombo non c’è più (solo che il piombo era sì velenoso, ma non cancerogeno). Insomma, euro 4 inquina meno di euro 3 e così via, nessuno dice che bruciare combustibili fossili inquina sempre e comunque, e quindi…

foto da http://altrenotizie.org/alt/images/news/nucle.jpg

Procediamo nella scalata ai temi più importanti per il sistema economico e arriviamo alla questione energetica e, tema attualissimo, alle centrali nucleari. Su questa tema la mistificazione ha raggiunto livelli ammirevoli (e aberranti): dopo anni di bombardamento mediatico sul riscaldamento globale, la dipendenza dal petrolio e l’innocuità delle nuove centrali nucleari si è arrivati alla stoccata finale: le centrali nucleari si devono fare! Non ci sono alternative. E una popolazione stanca, distratta e (diciamolo) in gran parte ignorante è pronta a comprare il prodotto; comprare è la parola giusta, dato che le centrali si costruiranno con i nostri soldi! Ma dov’è “l’imbroglio”? I problemi relativi allo smaltimento delle scorie radioattive sono sempre irrisolti, le centrali nucleari utilizzano uranio (che l’Italia non ha, quindi la dipendenza dal petrolio diviene dipendenza dall’uranio) e, soprattutto, 4-5 centrali nucleari produrrebbero (tra 15 anni, se va bene) non più del 10% del fabbisogno energetico italiano.

In compenso pagheremo vagonate di soldi ai soliti “amici degli amici” per progetti e (forse) realizzazioni. Forse, perché il sospetto che ciò che conti è pagare i progetti (il ponte sullo Stretto insegna) senza poi procedere con la realizzazione è molto forte. Con pari investimenti si potrebbero dotare gran parte delle abitazioni, fuori dai centri storici, di pannelli solari per il riscaldamento dell’acqua; si avrebbe un risparmio superiore al citato 10% dei consumi previsti, non si creerebbero grossi problemi ambientali (e di ordine pubblico…) ma, questo è vero, le vagonate di soldi cambierebbero binari… ”                                   

 Ecologia”, foto di Danilo Prudêncio  Silva tratta da http://commons.wikimedia.org/wiki/Image:Ecologia.jp

Giungiamo infine alla summa di tutti gli “imbrogli ecologici”: lo sviluppo sostenibile. Tutti i movimenti ambientalisti, i partiti più o meno verdi e, oramai, persino i partiti di governo ripetono ai quattro venti che occorre attuare lo sviluppo sostenibile. Quale inganno! Sviluppo equivale, nel lessico politico e comune, a sviluppo economico; come si può pensare ad uno sviluppo ulteriore, che non avrebbe mai fine (pena lo spettro della recessione), utilizzando risorse finite? Senza contare i popoli che questo sviluppo lo hanno da poco iniziato o ancora lo devono iniziare. Le tecnologie sempre più sofisticate e meno inquinanti non attenuano i danni prodotti da un modello economico basato sul consumismo e sull’esaurimento progressivo delle risorse naturali. Lo sviluppo sostenibile è solo uno slogan
finalizzato a mantenere i profitti e ad evitare il cambiamento delle abitudini, per questo è esattamente ciò che la popolazione vuole sentire: si può continuare così, basta solo qualche piccolo aggiustamento di rotta(come dice Beppe Grillo: “verso la catastrofe con ottimismo”).

 

Omaggio a Nettuno

“Neptune”, tratto da www.occultopedia.com

Alcune poesie di Salvatore Arcidiacono

Dalla raccolta “La linea delle croci”, di Salvatore Arcidiacono, pubblicata recentemente.

IL MONDO A WALSINGHAM *

 

Non vanno più scalzi

i penitenti a Norfolk,

non pregano più

ora che li affannano soltanto

orrore e distruzione.

È scomparsa la stirpe
temeraria

che si legava all’albero

per dirigere la rotta.

L’ulivo e il bove

cedono a corvi e arpie

e trascina sfaceli la corrente

di Eraclito l’oscuro.

Non una chiave schiude
santuari:

s’affloscia lo spinnaker

mentre languono i cutter in
bonaccia.

Né promette più tregua l’arco
d’Iride.

Covoni d’ossa rotolano

trebbiate a Josafat.

Pure, vorrà tornare il mondo
ancora

a Walsingham.

E corvi e arpie a miriadi

vedremo sprofondare negli
abissi.

(*)
Nel Medioevo i marinai andavano scalzi in
pellegrinaggi nel Norfolk, al Santuario di Nostra Signora di Walsingham.
Vedasi Robert Lowell, Il Cimitero dei Quaccheri a Nantucket,
in Poesie, Longanesi, Milano 1972 p. 39.

IL MIO POGGIOLO 

 

S’affaccia sullo Stretto il
mio poggiolo,

riflette il sole del mattino e
il raggio

della
luna. Vi sostano

gabbiani
ad ali chiuse,

ululando
messaggi incomprensibili.

Il mio poggiolo captai miei
pensieri,

consegna all’orizzonte

le fiamme ansiose delle mie
colombe.

 

Dalla raccolta “Solino blu”
(1996):

 GUARDANDO IL MARE

 

Se la terra ha segnali per la
mantica

non è da meno il mare.

Mugoli o mormori

palpiti ha di vivente.

Dio chiamò mare

la selva delle acque

ottima tra le creature.

Guarda il mare

mira nella maestà dell’onda

il Parnaso e l’Elicona

osserva l’infido mutamento

del suo flusso

e rammenta

che solo se hai cose di
maschio

tu potrai misurarti con
Nettuno.

 

ANCHE OGGI

 

Qui, dalla mia torretta

mirando le alte antenne

di Scilla e di Cariddi

le formiche dello Stretto

il reale e l’irreale

odo il vagito del mattino

scorgo la trama delle ombre

dileguarsi soffusa al raggio
d’Helios.
 

E mentre mulina la mente

– anche oggi correranno offese

si imperleranno fronti

invano piaghe attenderanno il
cauterio –

 

sento vicina la mia fosca
amante

unica che non mi ignora

unica a salutarmi.


Dalla raccolta “Il periplo” (1994):

 LO SCOGLIO DI ULISSE 

Nobile sei e incorrotto:

non ti hanno scalfito gorghi e
maree

nulla hanno potuto

gli adescamenti di Saturno

le tentazioni di Venere.

MORTE DEL PESCE SPADA

 Chiesero forza ai vogatori

Dissero all’intinnere: –
attento!

al traffiniere: – è tuo!

Scoccò la fiocina

e un urlo salutò

il fiotto del tuo sangue.

Non ti servì la spada

e fu vano scartare

sui fondali.

Alla tua residua forza

dettero caloma.

“A bordo”, gridò il capo
barca.

Sull’ultima tua scia

Pianse il mare la tua sorte.

Eri venuto per amore e pastura

ma la fame dell’uomo

ti condusse a morte.

 


Salvatore Arcidiacono, nato a Messina nel 1923, laureato in giurisprudenza col massimo dei voti, ha prestato servizio come ufficiale nella Marina militare, dove ha avuto l’onore di conoscere Luigi Rizzo, l’eroe Girolamo Fantoni e di veleggiare con il campione del mondo Straulino. E’ stato dirigente bancario e da lustri svolge attività di poeta e di critico letterario. Ha pubblicato nove raccolte di versi:

– Giri di Bussola,
Umbria Editrice, Perugia 1977.

– Cerchio di sale,
Città Armoniosa, Reggio Emilia, 1979.

– La sofferenza del mare,                                                                                                        Editrice Abbiatense, Abbiategrasso,1982.

– L’onda fusberta,
Editrice Abbiatense, Abbiategrasso, 1982.

– L’abbraccio dell’onda,                                                                                                             Zappia Editore, Sarzana, 1985.

– Il Periplo,
Carlo Mancosu Editore, Roma, 1994.

– Dalla torretta,
Lanterna Editrice, Genova, 1994.

– Solino blu,
Editrice Abbiatense, Abbiategrasso, 1996.

– La linea delle croci,
Edizioni il Meridiano, S. Marco di Castellabate (SA), 2002.


Vincitore di numerosi premi letterari: Funtana di li Rosi (Campofranco, 1980), Lucia (Como, 1982), Campoli Appennino (Campoli, 1985), Città di Fiumicino (Fiumicino, 1987), Arno (Firenze, 1987). È stato tra i selezionati o tra i finalisti dei seguenti premi letterari: Camaiore, Carducci, Ravenna Mare, Viareggio. Sue poesie sono state tradotte in francese, greco e rumeno ed è anche presente in molte antologie. È incluso (unico messinese vivente) nel “Dizionario della Letteratura italiana del Novecento” diretto da Alberto Asor Rosa ed edito da Einaudi, e nel Catalogo internazionale dell’Arte.

Svolge un’intensa attività di poeta e di critico; ha collaborato per trenta anni fra gli altri al quotidiano “Gazzetta del Sud”, e per 15 anni all’ “Osservatore politico letterario”, oltre che al mensile “Il Meridiano” e a numerosi periodici italiani e stranieri, ricevendo consensi da Montale, Caproni, Orsini, Giudacci, Turoldo, Villari.

Sulla sua poesia così si esprime il Dizionario
della Letteratura di Einaudi: “La poesia è dominata dal contrasto
violento tra terra e mare, tra la solarità di una terra desolata e
abbandonata e la nostalgia per il paradiso perduto”
.

 

Home Page

 

Immagini della Sicilia

di Pippo Palazzolo

Viaggio fotografico attraverso alcuni paesaggi delle colline e del mare ibleo

Ragusa Ibla – Sicilia

Ragusa Ibla, vista dal Carmine

veduta sul Largo San Paolo (Ragusa Ibla)

La Torre dell’Orologio (Modica)

scendiamo adesso per le dolci colline iblee…

la campagna ragusana: alberi di carrube

una “massaria” resiste al cemento della città

i muri a secco…

 

 

 

e infine, una passeggiata lungo la costa…

 

il golfo di Sampieri (Scicli)

l’antica fornace Penna, a Sampieri

Torre della Dogana (Marina di Ragusa)

il Faro di Punta Secca (S.Croce Camerina)

onde sugli scogli…

cielo, mare e sabbia…

tramonto sul mare allo Scalo Trapanese (Marina di Ragusa)

pescatori al tramonto

sorge la Luna al tramonto…

 

 

foto di Pippo Palazzolo

 

 

Continua, con la passeggiata nel barocco ibleo:

i balconi e le chiese

Home Page

 

“Andrea Camilleri” di Marco Trainito – recensione di Federico Guastella

recensione del libro di Marco Trainito “Il codice D’Arrigo”, a cura del dott. Federico Guastella

Un ritratto alla siciliana
di Federico Guastella

Agile per la levità della scrittura e complesso per la profondità delle tematiche trattate, il libro di Marco Trainito ANDREA CAMILLERI, sottotitolato Ritratto dello scrittore (Treviso, Anordest 2009, pp. 254), si presenta con una copertina abbellita dalla fotografia recante l’immagine della casa a mare di Montalbano lungo la spiaggia di “Punta Secca”, nel ragusano.

Nel risvolto di copertina risulta così sintetizzato sia la natura che lo scopo dello scritto: “un saggio e un’introduzione generale all’opera di Andrea Camilleri (…) accessibile al pubblico sia dei lettori accaniti del grande scrittore siciliano sia di quelli che ancora non si sono cimentati con le sue opere”. Dedicato al padre Nenè, si compone di una premessa, di tre capitoli ciascuno dei quali, viene suddiviso in quattro paragrafi, nonché di una essenziale bibliografia.

Già nella premessa Trainito fissa alcune ascendenze di Camilleri, tra cui la presenza ineliminabile di Pirandello: il suo insegnamento, afferma il critico, che è entrato “nella carne viva della sua parola, traendo una lezione di metodo, di stile e di poetica”. A partire da questa riflessione, egli poi percorre uno spazio tanto vasto, avvalendosi di numerose letture di libri da cui trarre gli ingredienti necessari alla costruzione della sua interpretazione.

Il capitolo primo, dopo alcune notazioni bio-bibliografiche, individua nel romanzo Un filo di fumo (edito la prima volta da Garzanti nel 1980 e premiato a Gela nel 1981) il nucleo essenziale della produzione di Camilleri: “vero e proprio generatore per le opere degli anni Novanta che hanno dato allo scrittore un clamoroso successo di pubblico”. In maniera chiara e dettagliata, ne riporta la trama e sintetizza il pensiero dei critici più autorevoli, quali Bruno Porcelli e Maria de Las Lieves Muñiz Muñiz.

Il dissenso con Gianni Bonina che, ne Il corso delle cose (1978) aveva visto la genesi del “nascente planisfero camilleriano”è chiaro. A conti fatti, le argomentazioni addotte a sostegno della tesi di Trainito appaiono convincenti. Sia la strategia compositiva adottata (la tecnica della mise en abyme) sia le strutture conoscitive (l’invenzione di Vigàta, nonché la spiccata vocazione socio-antropologica nel contesto post-unitario fin quasi all’avventura dei Fasci Siciliani) e le sonorità segniche (l’invenzione d’una inconfondibile lingua corredata di un glossario, funzionale alla resa espressiva della comunità dei parlanti nativi), sono i motivi che incideranno di più nella stesura delle successive opere. Inoltre, il revisionismo del Risorgimento, documentato da due Commissioni d’Inchiesta, sarà poi ripreso, ad esempio, nei romanzi La bolla di componenda, La stagione della caccia, Il birraio di Preston, La mossa del cavallo… Anche lettere fanno parte dell’apparato documentario del romanzo Un filo di fumo: dato, questo, rinvenibile ne La luna di carta (2005), ne La vampa d’agosto (2006) e ne Il campo del vasaio (2008), dove il commissario Montalbano scrive a se stesso per mettere in ordine le varie tessere delle sue indagini. “L’apice di questa tecnica – annota Trainito – è (…) raggiunto ne La scomparsa di Patò: qui Camilleri, inventandolo quasi interamente, utilizza un dossier che risulta costituito da articoli di giornali, lettere (scritte a mano o dattiloscritte che fanno avanti e indietro da un organo all’altro di polizia), rapporti giornalieri e riservati. Non ci sono capitoli nel libro, la voce dell’io narrante, che si è trasferita nel documento, risulta assente, e viene affidato al lettore il compito della decifrazione e riorganizzazione narrativa del materiale.”

Le corrispondenze individuate tra il glossario presente ne Il filo di fumo e Il gioco della mosca (1995, 1997) sono indubbiamente rilevanti, perché aiutano a ricomporre il puzzle che dà il ritratto dello scrittore di Porto Empedocle.  Al riguardo, Trainito, collocando Il gioco della mosca nel solco delle preferenze socio-antropologiche accordate da Sciascia (Kermesse, 1982 – Occhio di capra, 1984) e da Bufalino ( Museo d’ombre, 1982) alla cosiddetta “scienza certa” di Borges (quella, cioè, degli affetti di cui in maniera indelebile la nostra misura umana si è nutrita), può opportunamente parlare di un “trittico peculiare” per il recupero di espressioni dialettali che
racchiudono “storie cellulari” e si pongono come sintesi di aneddoti ed episodi locali. Siamo così nel linguaggio che segna l’innesto di proverbi, di modi dire, di termini dialettali nel codice nazionale. La lingua mista di cui Camilleri si serve, terragna e sanguigna, esprime con più efficacia i sentimenti e gli stati d’animo dei suoi personaggi, che parlano utilizzando il lessico dell’area geografica di provenienza. Trainito non manca, in proposito, di puntualizzarne la genesi. Attenendosi a quanto dichiarato dal nostro scrittore in Pagine scelte di Luigi Pirandello, egli, da studioso ed esperto di filosofia, può ampliarne il quadro teorico di riferimento e attirare l’attenzione su Gottlob Frege, lo studioso di semantica che elaborava la sua teoria negli anni in cui Pirandello studiava a Bonn. La distinzione pirandelliana tra il “concetto” espresso dalla lingua e il “sentimento” manifestato dal dialetto è quasi identica – scrive il critico – alla differenza fregeana tra “senso” e “rappresentazione”. Da qui bisognerebbe muovere per giungere a tutta “l’analisi pragmatica e antropologica” dei “giochi linguistici” e delle connesse “forme di vita” di Wittgenstein, anche se il commediografo agrigentino, “con qualche decennio d’anticipo”, aveva osservato che un dialetto esprime “particolari usi” e “particolari costumi”.

Vigàta, dunque: spazio immaginario modellato sul territorio reale di Porto Empedocle. “Nessuna” perché inesistente; “una”, in quanto ha una storia; “centomila”, ove si consideri la molteplicità delle sue rappresentazioni diacroniche (dal XVII secolo alla disfatta di Caporetto, dal fascismo a quella della fiction televisiva e della realtà virtuale). E’ a questo punto che Trainito si sofferma su alcuni romanzi, quali La stagione della caccia (1992), La presa di Macallè (2003), Il colore del sole (2007), Maruzza Musumeci (2007): li sintetizza con molta padronanza, li commenta con acume e disinvoltura, ne esplicita con accortezza e accuratezza rapporti intertestuali e intratestuali.

Ne La presa di Macallè, ad esempio, il senso del narrato, è attuale nel clima di smarrimento esistenziale che si sta vivendo. E’ la violenza ad imporsi, a trionfare sull’uso della ragione quando contraddizioni e sopraffazioni ideologiche, risentimenti e barriere etnocentriche, pregiudizi e stereotipi, facendo smarrire ogni certezza etica, trovano ampia risonanza nella mentalità collettiva, di cui il mondo infantile è parte integrante. Il più vulnerabile e il più fragile, appunto per la mancanza di esemplari modelli educativi che fanno perdere al comportamento la corretta direzione civica. Quest’atmosfera Trainito la analizza, la spiega, la racconta, instaurando apprezzabili confronti con Eros e Priapo di Gadda. Vi si incontra in ogni sua considerazione sia una mente coltissima, sia una sottigliezza di sguardo che gli consente di scoprire rapporti che danno l’idea del complesso universo della scrittura.

“Maruzza Musumeci” – egli poi scrive – merita una particolare attenzione”.
Anche a mio parere, l’opera è degna d’una puntuale ricognizione per il taglio favolistico che ci dà un diverso tratto dell’identità di Camilleri, ora rivolto ai miti e alla metafisica del fantastico. La narrazione, pur collocandosi su uno sfondo di ambientazione rusticana, dilata infatti i suoi orientamenti di spazio e di tempo per la magia di certi eventi. I “cunti” a volte scivolano nel surreale, facendo anche pensare alla leggenda di Cola Pesce (il personaggio metà uomo e metà pesce di cui si era occupato Giuseppe Pitrè in un suo pregevole studio), nonché alla novella di Tomasi di Lampedusa La sirena. Riguardo al mondo delle “sirene” sembra opportuno dire che le distinzioni sono notevoli tra le classiche e quelle rappresentate da Camilleri. Nel suo immaginario non sono voraci e distruttive come le perverse maliarde di Omero, ma apprezzano la vita e in qualità di donne ammalianti stanno soltanto tra gli uomini che non amano il mare per condividerne le esperienze terrene, tranne nei momenti in cui si trasformano in sirene per ricongiungersi al proprio passato: quello ancestrale (pensato dalla scuola ionica) della simbiosi della vita con l’acqua marina. La grotta sott’acqua in cui Resina, la Sirenetta, porta per sempre il proprio fratello Cola, studioso di astronomia, rievoca indubbiamente il racconto lampeduseo in cui l’ondina “Lignea”, dalle voluttuose sembianze ferali e divine, si incontra con il grecista La Ciura.
Don Fabrizio, che, nel Gattopardo, dinanzi alla fugacità degli eventi, aveva conosciuto l’astronomia, nei panni di La Ciura verifica ora l’illusione di una fine abbellita dalla presenza di una figura onirica. La bella e snella signora apparsa al principe nel momento dell’agonia viene ritrovata nella sirena per un’eutanasia che gli facilitasse l’inaccettata separazione dalla vita. Diversa, pur nell’identità del contenitore, appare in Camilleri la simbologia della medesima “grotta”: non luogo in cui viene saziata la sete di sonno nirvanico, ma ventre d’una vita generatrice di metamorf