Colpa collettiva e non-potere ne “Il libro rosso” di C. G. Jung
di Federico Guastella
Il viaggio di Jung nelle insondabili profondità della psiche comincia con lo scoppio della prima Guerra mondiale, tant’è che Sonu Shamdasani ha scritto: “Non è esagerato affermare che, se la guerra non fosse stata dichiarata, con ogni probabilità il Liber novus non avrebbe preso forma”. Leggiamo il brano di riferimento:
“Nell’ottobre 1913, mentre ero in viaggio da solo, durante il giorno fui improvvisamente sopraffatto da un visione: vidi una spaventosa alluvione che inondava tutti i bassopiani settentrionali situati tra il Mare del Nord e le Alpi. Andava dall’Inghilterra alla Russia e dalle coste del Mare del Nord fin quasi alle Alpi. Vedevo i flutti giallastri, le macerie galleggianti e la morte di innumerevoli persone”. (“Prologo”, “La via di quel che ha da venire”, ed. studio, p. 11).
E’ la terrifica visione della Grande Guerra con cui Jung lotta. Per circa due ore non l’abbandona; ritorna più intensamente dopo due settimane al punto da fargli pensare che la sua mente si sia ammalata. Folle l’evento che incombe sul destino dell’Europa. Un mare di sangue ricopre i paesi nordici: com’era possibile, si chiede quasi incredulo, lo smarrimento di quanto è umano nell’uomo? Le visioni devastanti lo turbano ed egli le trascrive, ponendo attenzione ai segni che gli si stampano sulla retina. Il resoconto è dettagliato:
“Nel 1914, all’inizio e alla fine del mese di giugno, e all’inizio di luglio, feci per tre volte il medesimo sogno. Ero in terra straniera, e all’improvviso, di notte e proprio in piena estate, dagli spazi siderali era calato un freddo inspiegabile e mostruoso, tutti i mari e i fiumi ne erano rimasti ghiacciati, e gelata era ogni forma di vegetazione”(Ivi, p. 12).
Simile al primo, è il secondo sogno. In entrambi, Jung si trova in un paese sconosciuto; il terzo, da lui avuto agli inizi di luglio, lo impressiona di più:
“Mi trovavo in una remota regione inglese. Era necessario che tornassi in patria il più in fretta possibile con una nave veloce. Arrivavo in fretta a casa. In patria trovavo che in piena estate era calato dagli spazi siderali un freddo mostruoso che aveva congelato ogni forma di vita. Lì c’era un albero fronzuto, ma privo di frutti, le cui foglie si erano trasformate, per effetto del gelo, in dolci grappoli, colmi di un succo salutare. Io li coglievo e li offrivo a una grande folla in attesa. Nella realtà stava succedendo questo. Nel periodo in cui scoppiò la Grande Guerra tra i popoli europei mi trovavo in Scozia, costretto dalla guerra decisi di ritornare in patria con la nave più veloce e per la rotta più breve. Trovai il freddo polare, che aveva fatto gelare ogni cosa, trovai l’alluvione, il mare di sangue, e ritrovai anche il mio albero privo di frutti, le cui foglie il gelo aveva trasformato in rimedio salutare. E io colgo i frutti maturi e li offro a voi senza sapere che cosa vi dono, quale agrodolce e inebriante pozione, che vi lascia un sapore di sangue sulla lingua”. (Ivi, pp. 12-13).
La solitudine si dilata all’infinito, l’assale con un gelido brivido. E’ la notte del 1914: eventi luttuosi stanno per arrivare nella tenebra che cancella la luce del mondo. Ad evidenziarsi è l’interazione dell’io personale con la storia. Il lettore de “Il libro Rosso” scopre infatti un atteggiamento transpersonale: Jung partecipa al dramma del conflitto bellico, lo vive radicalmente e l’anticipa, interagendo con l’irrazionalità della storia; sente il suo Io contorcersi nel dolore per il carico dei morti gravante su di lui. E’ lo spirito del profondo, da lui percepito a seguito della visione dell’alluvione, a suggerirgli che la guerra è l’espressione di un diverbio interiore che si scatena esteriormente. Il male psichico non è altro che una resistenza al principio di individuazione: comprendere la propria ombra personale e interiorizzarla evita che essa si esteriorizzi con conseguenze maligne sulla collettività. Gli uomini vivono grandi lacerazioni interne fino ad uccidersi reciprocamente. E’ il conflitto individuale ad essere la causa della sventura esterna. L’arrovella il prevalere del demone sanguinario; il monito è deciso: l’uomo assassina una parte della sua vita quando uccide il suo prossimo. Sicché, Jung viene invaso dal mistero dell’autosacrificio: vuole diventare “Cristo”, riconoscendo nella forza dell’amore il più alto del piacere. Il riferimento agli eventi della prima guerra mondiale ritorna nel cap. V del “Liber primus”. L’atto d’accusa è spietato. La colpa è collettiva, giacché tutti prendono parte all’assassinio senza comprendere che il nemico da sopprimere è in se stessi. Con accenti profetici egli scrive:
“Tutti voi prendete parte all’assassinio (…). Ma chi uccidono gli uomini? Uccidono i nobili, i valorosi, gli eroi. Dovrebbero sacrificare l’eroe presente in loro stessi e, poiché non lo sanno, uccidono i propri fratelli valorosi. A costoro mirano, ignorando che in essi intendono colpire se medesimi. Dovrebbero sacrificare l’eroe presente in se stessi e, poiché non lo sanno, uccidono i propri fratelli valorosi. I tempi non saranno maturi fin quando sarà possibile uccidere il fratello invece di se stessi. Deve accadere qualcosa di terribile perché gli uomini maturino. Ma non v’è altro modo perché l’uomo maturi. Perciò tutto quello che avviene in questi giorni deve succedere, affinché possa giungere il rinnovamento (…). Quello che i destini dei popoli rappresentano nella realtà concreta accadrà nei vostri cuori. Se in voi verrà ucciso l’eroe, allora sorgerà per voi il sole del profondo, che risplende da un luogo remoto e ancora ignoto”. (“Viaggio infernale nel futuro”, p. 41).
Fino a quando ogni eroismo non sarà spento, è l’abisso ad essere avido di beni. Jung, può allora parlare del non-potere che esige la sua quota di vita per fare apprezzare le più piccole cose, nonché la saggia moderazione richiesta dalle massime altezze. Se per lo spirito del tempo il non-potere è una perdita rispetto al potere, per lo spirito del profondo è invece un guadagno, non di beni esteriori, ma per il perfezionamento interno:
“Il non-potere comunque esiste. Nessuno dovrà negarlo, criticarlo o zittirlo con le proprie grida”. (Ivi, p. 44).
L’atteggiamento non è quello dell’ascesi che si fonda sul rifiuto del mondo; il testo invita al recupero del vincolo fra realtà oggettiva e soggettiva. Nante spiega che Jung aveva già capito l’errore di Nietzsche consistente “nell’incapacità di mantenere un legame con la realtà sociale; questi si era perso e non era stato capace di tornare in superficie e mescolarla alla profondità”. (B. Nante, Guida alla lettura del libro rosso di C. G. Jung, op. cit., p. 221). Nietzsche si era identificato con il suo pensiero; non aveva integrato le scissioni della sua psiche, smarrendosi così nella psicosi. La posizione di Jung è invece molto attenta al sociale: egli non perde di vista il senso della responsabilità collettiva. La soluzione è quella di sacrificare, uccidendolo, tutto quello che nell’uomo è eroico:
“L’eroe vuole intraprendere tutto ciò che gli è possibile. L’anonimo spirito del profondo invece fa emergere tutto ciò che l’uomo non può fare (…). Chi impara a convivere con il proprio non-potere ha appreso molto”. (Ivi, p. 43).
Federico Guastella
21 gennaio 2018