La prismatica Sicilia di Franco Battiato
La prismatica Sicilia di Franco Battiato
di Francesco Clemente
A Niccolò Pedone
“[Ecco] un paese a cui la colomba diè in prestito il suo collare, ed il pavone lo vestì del manto delle sue penne. Pare che quei papaveri sian vino e che i piazzali delle case siano i bicchieri.”
Ibn Hamdis, poeta arabo-siciliano
Siciliano, a chi? La sagoma di Battiato e i contorni dell’isola
Fra le interviste rilasciate da Battiato nelle trasmissioni televisive ne se può ricordare una in particolare. Si tratta di quella condotta da Gianni Minà nel 1997 per Rai 2, nella quale Battiato sintetizzò il suo percorso artistico con la formula sferzante: “Sono una di quelle persone che crede che attraverso una finta schiavitù ci si libera, mentre con una finta libertà si rimane incatenati”. Ebbene, in quell’occasione Minà organizzò l’incontro in due tempi, nel secondo dei quali fece accomodare al fianco del musicista, Manlio Sgalambro chiamato a darne una definizione. Il filosofo non si fece pregare e con risolutezza sentenziò: “Battiato è un siciliano tipico”. Al giudizio così secco, l’interessato si lasciò scappare un bonario ma sincero disappunto, rammaricandosi che l’amico-collaboratore lo avesse così inquadrato nei canoni tradizionali delle sue zone di provenienza.

Glissando sulla motivazione di Sgalambro per un tale parere, il riferimento a questo documento televisivo offre l’opportunità di cimentarsi con un tema ostico, ovvero connotare il rapporto fra Franco Battiato e la Sicilia, impresa con un doppio coefficiente di difficoltà: affrontare la figura artistica e umana di un uomo inclassificabile e provare a carpire qualcosa di quell’enigma sempiterno che è la Sicilia.
L’istinto viene in soccorso e riesce a scovare – fra le ormai numerose imprese editoriali – due biografie e un classico della letteratura siciliana. Tradotto in termini umani e non cartacei, sono – dunque – due donne e un vecchissimo saggio – tutti e tre siciliani – che sembrano fornire qualche indizio utile non tanto per la risoluzione del caso quanto per mettere almeno sulla buona strada e azzardarne un’ipotesi. La domanda-guida è se i contorni della sagoma di Battiato, il suo profilo dal naso importante, così prominente nella sua angolosità, coincidono perfettamente con quelli della natia Trinacria.
La pista messinese di Lucia Abbate: un osservatorio direttamente dallo Stretto
La razionalità ha le sue ragioni con buona pace dei sentimenti che-con altrettanto vigore- rivendicano le loro. Sarebbe fin troppo scontato prestare il fianco alla retorica del legame alla terra natia quando si deve appurare l’entità del legame fra un artista – per di più meridionale – e la sua terra di origine. Per soddisfare l’esigenza di riscontri tangibili nell’opera di Battiato della cultura siciliana, Lucia Abbate ha scritto nel 2009 Franco Battiato, verso la meta del ritorno, edito da Metauro editore, mettendo a disposizione del lettore avido di “ragioni” gli strumenti della linguistica, sottoponendo quindi l’opera di Battiato sotto al microscopio dell’analisi stilistica, contenutista, filologica dei suoi messaggi e riannodarli poi alla cellula-madre della Sicilia.
Quelle di Lucia Abbate sono pagine scientifiche, dotate di strumenti filologici per scandagliare l’uso del mito ma anche della lingua siciliana da parte del compositore, un saggio di un’abnegazione certosina per far emergere – con la sapienza artigiana della gemmologa – i bagliori delle pietre preziose della memoria collettiva siciliana dall’interno di quelle altrettanto abbaglianti di Battiato. Si rimane così stupiti da come già dai tempi di Pollution (album del 1972) si possano rintracciare echi evidenti del mito messinese di Colapesce, ovvero della leggenda dell’uomo-pesce risalente al XIII secolo, affetto da una metamorfosi causata dall’anatema scagliatogli proprio dalla madre perché trascorreva più tempo in mare che sulla terra. Il testo di Plancton, primo brano del lato B, è in modo inequivocabile una confessione di un organismo ibrido circa la sua mutazione genetica.

Di pari forza evocativa è – poi – l’uso della lingua siciliana in alcuni specifici brani, cui Battiato ha inteso destinare messaggi di particolare intimità, che non potevano di certo sfuggire all’acutezza della studiosa di filologia, la quale li mette in fila lungo la linea del tempo, facendo intravedere una sorta di sequenza tematica in cui ogni canzone risponde ad una profonda confessione di vissuti, di esperienze. Se a Stranizza d’amuri è toccato il compito di ripescare dalla sicilianità dei ricordi e del paesaggio la passione amorosa, a Veni l’autunnu è stato destinato quello di restituire la dimensione caleidoscopica del crogiolo di culture della Sicilia, reso ancora più energico dall’ibridismo linguistico fra lingua siciliana e lingua araba alla fine del brano. Ma lo sguardo si allarga anche ai messaggi cifrati e confidenziali de Il cammino interminabile, e all’enigma suadente e indecifrabile de U cuntu, brano nel quale Battiato riutilizza l’espediente della contaminazione questa volta fra siciliano e latino.
La pista catanese di Elvira Seminara: il bambino che gioca nell’Olimpo
Ad Elvira Seminara, scrittrice che vive fra Catania e Roma, si deve una delle più azzeccate definizioni di Franco Battiato vergata nel suo libro In Sicilia con Battiato, edito da Giulio Perrone nel 2025, un testo raro per concezione di impianto e per stile, per gusto letterario e senso colto della diversione.

Fedele agli intendimenti dello stesso Battiato di non ascoltare la sua opera secondo un preciso ordine temporale, le sue canzoni sfilano sotto gli occhi del lettore secondo il criterio della simultaneità, della compresenza, secondo quanto prescritto dal pensiero di Jung e dal pensiero buddista. Con Elvira Seminara si è di fronte al tentativo di tratteggiare un paesaggio dello spirito siciliano di Battiato, una sorta di biogeografia, un viaggio extratemporale attraverso le sue canzoni, in spregio a qualunque tentativo di storicizzazione dei lavori del musicista.
Chi è Battiato? Forse una sorta di puer vulcanico, dispettoso e duttile come i fanciulli divini dell’Olimpo, tra enorme generosità e improvvise fughe – dice Elvira Seminara con punte di ironia catanese – rimarcando una sorta di visionarietà della cultura siciliana, la sua radice araba, il suo senso dell’unicità in uno splendido isolamento in mezzo al mare, nel cuore “spezzato – e speziato – del mondo”.
Cos’è la Sicilia? Si tratta forse di una terra i cui abitanti sono affetti da una sindrome singolare? Anche qui Elvira Seminara non ha dubbi: i siciliani soffrirebbero di quella che si potrebbe definire “disforia isolana” (opposta all’ ”isteria siberiana”), “un’inquietudine psicomotoria continua, tra paura della perifericità e urgenza di sconfinamento, affezione alle radici e sfida del mare, dell’oltre”, un perenne sentirsi in transito, assorbiti da un mutamento continuo che oscilla fra i due poli dell’Etna e il mare.
Nel frattempo di una risoluzione ultima a entrambi gli interrogativi, in questa geobiografia si gode anche di qualche notazione etnografica di marca gastronomica, a sostegno dell’idea che Battiato fosse un divino fanciullo giocoso, non solo dedito ai cannoli e alla cassata, ma anche alla “scursunera”, un gelato di gelsomino e cannella, il cui nome evoca le proprietà terapeutiche del gelsomino come antidoto al morso dei serpenti.
La pista ragusana di Gesualdo Bufalino: Cento Battiato per Cento Sicilie?
La terza pista che si prova a battere è quella forse più curiosa perché formalmente incompleta e perché forse deve essere letta al contrario, non secondo la direttrice Bufalino-Battiato, bensì Battiato-Bufalino. Di seguito, si cercherà di essere meno criptici e di chiarire questo preliminare pensiero.
Gesualdo Bufalino non si è occupato di Battiato, ma certamente della Sicilia sì. Solo la tirannia della praticità della sintesi induce a limitarsi alle sentenze che lo scrittore comisano ha fissato in Cento Sicilie, testimonianza per un ritratto, per raccogliere indizi sulla Sicilia e sulla sicilianità. Quante sono le stelle, tante sono le Sicilie. Infinite, c’è “quella verde del carrubo, quella bianca delle saline, quella gialla dello zolfo, quella bionda del miele, quella purpurea della lava. Vi è una Sicilia babba, cioè mite, fino a sembrare stupida; una Sicilia sperta, cioè furba, dedita alle più utilitarie pratiche della violenza e della frode. Vi è una Sicilia pigra, una frenetica; una che si estenua nell’angoscia della roba, una che recita la vita come un copione di carnevale; una infine, che si sporge da un crinale di vento in un accesso di abbagliato delirio…”.
Il motivo di questa molteplicità – dice questo vegliardo custode sacerdotale della memoria – è la sorte toccata alla Sicilia di essere un ponte fra l’Occidente e le seduzioni esplorative del deserto assolato, fra il raziocinio e l’incantesimo, fra la mitezza del sentimento e l’eruzione della passione. Tutto questo le arreca dei tratti inconfondibili: l’eccesso di identità, un’insuperabile unicità (il fatto di costituire un’isolana “eccezione”), il senso di un isolamento solitario e un’inguaribile oscillazione fra claustrofobia e claustrofilia, fra odio e amor di clausura, in bilico fra ossessione dell’espatrio e le lusinghe dell’intimità della tana. Quella che – a distanza di tempo – la stessa Elvira Seminara ha etichettato come “disforia isolana”. Perché, dunque, questa pista suggerita da Bufalino va letta al contrario?

Quando Battiato nel 2010 pubblicò per Bompiani il suo docufilm dedicato allo scrittore comisano intitolato Auguri Don Gesualdo, il musicista venne allo scoperto circa la sua ben più che manifesta ammirazione per l’autore di Dicerie dell’untore, suggellando con quest’opera filmica quanto già aveva avuto di omaggiare con uno dei suoi album più innovativi e celebrati, quell’Imboscata del 1996 che arreca la dedica proprio a Gesualdo Bufalino. Ecco, forse questa devozione nasce dalla consapevolezza che lo scrittore custodiva alcune chiavi fondamentali che a Battiato sono sembrate familiari per ricostruire il puzzle della sua identità personale, al punto da indurlo alla creazione di un documentario filmico esclusivo sul letterato comisano. Si può allora intuire che le orme sul sentiero di neve che congiungono Bufalino a Battiato vadano ripercorse al contrario, in una modalità a “gambero” con la quale le vesti dell’enigma possano in qualche dissolversi per rischiarare l’uomo e l’isola.
Pensieri sparsi e il motivo di una dedica
Si è giunti fin qui, alla fine di tre percorsi all’interno della Sicilia, in un punto nel quale queste strade potrebbero convergere in un unico percorso, oppure paradossalmente scaraventarci di nuovo in un illeggibile bivio. Il sentore ultimo è quello dell’incapacità di riannodare per bene il filo del gomitolo della questione, arrendendosi ad un’incompiutezza che ripaga non sul piano della soluzione finale, quanto su quello della spinta alla ricerca, di noi stessi, del mondo, degli altri, del cosmo. Per questo, di seguito, si procederà in ordine sparso, “libero” per usare un’espressione cara a Battiato.
Sul piano della pura manifestazione, della tangibilità verificabile, il rapporto fra Battiato e la Sicilia è stato segnato da un elemento inconfondibile. Una sorta di legame non dichiarato, non sbandierato, diametralmente opposto a certa meridionalità teatralizzata, purtroppo funzionale alla deriva caricaturale, nonché alla strumentalizzazione della facile popolarità, fatta di dichiarazioni d’amore sperticate.
Le atmosfere rarefatte e crepuscolari di Fisiognomica sono – di fatto – la firma musicale della decisione di ritornare in Sicilia sul finire degli anni ‘80, evitando gli annunci strombazzati infarciti di folklorismo a buon mercato, soprattutto facendo chiaramente intendere che ormai fosse giunto il momento di deporre il gioco colto ed elegante del camaleontismo callido per celare la profondità dei messaggi iniziatici – come ebbe modo di sperimentare ne La voce del padrone – e che la seriosità della ricerca spirituale dovesse manifestarsi per intero, senza filtri, con sembianze quasi monacali seppur laiche, ieratiche e spigolose, all’insegna di uno sguardo fermo, severo, inamovibile circa gli obiettivi da raggiungere. Nell’ultimo verso – declamato in arabo – con cui termina quella sorta di sinfonia in miniatura che è Veni l’autunnu Battiato invoca una massima di misteriosa provenienza, che si staglia nell’aria con i toni di una sentenza di sapienza eterna, che allude alla consapevolezza che per ogni cosa c’è un tempo e una chiamata.
Le cose ultime, dunque. Un’escatologia che è consegnata alla lingua madre, come nel caso di ‘U Cuntu – brano inedito dell’album Inneres Auge – nei cui versi prorompe il tema della morte, con una modalità compositiva che lo stesso Battiato ha attribuito ad un’esperienza definibile come chiaroudienza, di una voce misteriosa che in siciliano gli avrebbe suggerito il testo della canzone1.
Messaggi, indizi, tracce. Battiato non ha parlato della Sicilia, l’ha fatta intravedere attraverso tutto quello che questo universo isolano poteva contenere, avvalendosi di un linguaggio cifrale, allegorico dove non fosse l’artista a trasmetterne la bellezza e i tesori materiali e immateriali, quanto a farsi lui stesso “canale” trasmissivo per la stratificazione millenaria dell’isola del mito.
Forse è la Sicilia che si è comunicata con tutta la sua sedimentata storia e natura in Battiato, senza alcuna forzatura o artificio posticcio, ma con una energia insieme carsica ed eruttiva. Ecco perché, non solo nelle dichiarazioni pubbliche ma nelle stesse composizioni musicali, il Nostro non abbia avvertito l’urgenza di aggiungere colore, suono, passione e sentimento a quanto già ne aveva in abbondanza. L’identità si mostra e non si dimostra, per questo è seduttivo pensare che Battiato abbia seguito questa stella polare in rapporto alla Sicilia.
Com’è affascinante pensare che per pura ma sibillina involontarietà la lunghissima parabola artistica di Battiato sia delineabile con il battito del cuore del bimbo nel grembo materno udibile nel suo primo album Fetus del 1971 e con la promessa finale del ritorno nell’album finale Torneremo ancora del 2019. Un autentico Alfa-Omega artistico ed esistenziale dalla carica vibrante nella sua allusività di messaggi.
Riprendendo il discorso, l’identità si conserva, sopravvive ai territori altri, anche un po’ camuffandosi, ma senza smarrirsi. Si è giustamente ricordato il ruolo che Milano ha svolto nella carriera artistica dell’autore de La voce del padrone.


Lui stesso più volte ha dichiarato che giunto alla stazione di Lambrate (Milano) si fosse sentito a casa. Per non parlare dei ricordi delle atmosfere meneghine dei periodi natalizi, ogni tanto emergenti e accompagnati da bonaria riconoscenza. Di quelle esperienze che lo hanno poi portato ad affacciarsi al quelle intellettuali mitteleuropee, alla sensibilità musicale e letteraria tedesca, attingendo a piene mani da tutto quanto la tecnologia degli anni settanta del XX secolo potesse mettergli a disposizione sul piano timbrico. Eppure, nel 1988 Battiato decise di tornare alla base, scegliendo un luogo fra i più caratteristici della Sicilia, un luogo antico, una località di produttori di vino.

Un ritorno compiuto senza la retorica della nostalgia, ma fatto in silenzio, al riparo dai riflettori di una mondanità giornalistica pettegola e mediatica, che non ne avrebbe mai compreso le ragioni profonde per il semplice motivo che ha finto di capire Battiato all’epoca dell’apice del suo successo commerciale. In questo movimento all’indietro non c’è stato il rinnegamento dell’esperienza milanese, né la spasmodica volontà di assaporare i piatti materni, ma il dare ascolto ad un’esigenza di attingere ad una sorgente, con la stessa consapevolezza critica che lo aveva spinto a lasciare la Sicilia diversi decenni prima.
Dalle pendici dell’Etna il Nostro ha osservato sempre la sua isola, senza acclamarla, senza incensarla, al pari di un padre severo ma affettuoso verso il figlio, pronto a redarguirlo con fermezza al momento degli errori imperdonabili. Si è scritto abbastanza sull’atteggiamento distaccato di Battiato nel quotidiano, quasi algido, ai limiti dell’eremitaggio, del suo isolamento dorato a Villa Grazia a Milo, di un’aura di inavvicinabilità, politicamente reputabile come disimpegno, giustificazione passiva dell’esistente. Eppure, quando nel 1991 uscì Povera Patria, Battiato diede prova non solo dell’ennesima capacità profetica di fatti tragici della repubblica italiana (al 1992 risalgono le stragi di Capaci e via D’Amelio), ma anche di un impegno morale e civile nella condanna della mafia, prodigandosi in prima persona per iniziative di recupero di spazi e ambienti sequestrati alle organizzazioni malavitose. Sotto le sembianze del ricercatore inghiottito dalla sua ricerca, Battiato non ha lesinato critiche alla gestione della sua città nei primi anni duemila, suscitando reazioni controverse e decretando così la mancata assegnazione della laurea honoris causa che l’università di Catania avrebbe dovuto conferirgli nel marzo del 2005. Per non parlare della disastrosa esperienza politica con l’amministrazione regionale Crocetta, costellata di esternazioni forti ma sincere, tuttavia politicamente ingiustificabili per una logica che con la cultura, l’arte e soprattutto con la verità non ha nulla a che fare. Ciononostante, quando le istituzioni siciliane si sono sentite libere di agire e di decidere non si sono dimenticate di Battiato artista e uomo. Nell’aprile del 2005 l’università Kore di Enna gli conferì la direzione e il coordinamento artistico del DAMS, incarichi che accettò perché li avvertì come un forte senso di responsabilità per contribuire al miglioramento della sua regione.
Allo stesso modo, è bene ricordare la collaborazione spontanea che la provincia di Ragusa, insieme al comune capoluogo, gli offrì al momento di girare alcune scene (peraltro cariche di valenza simbolica quelle girate a Ispica) del suo primo film Perduto Amor, una gratitudine istituzionale sincera che Battiato ripagò con un concerto lungo e partecipato nella cornice fiabesca del castello di Donnafugata il 14 giugno 2014. Un legame speciale quello fra Battiato e la provincia di Ragusa, non solo per oneri artistici, ma per affinità elettiva con la dimensione iblea.

Le distese di sabbia del litorale costiero di Donnalucata, placide ed esposte a quell’Africa settentrionale così presente nelle sue canzoni, rivelano molto di una consonanza d’animo e di sensi, non a caso negli ultimi anni della sua vita i luoghi iblei hanno costituito una tappa fissa per Battiato. Anche il suo legame con la filosofia ha rivelato – alla fine – un legame con la Sicilia, vissuto comunque sempre con le stesse modalità discrete e silenziose già evinte. Con una mossa apparentemente incomprensibile, alla fine degli anni novanta Battiato scelse Manlio Sgalambro, filosofo di Lentini, quale suo sodale artistico, realizzando una collaborazione alquanto spiazzante che unì misticismo e pessimismo novecentesco, afflato metafisico e senso dell’abisso nichilistico cioraniano.
Anche qui, Bufalino appare decisivo per capirci qualcosa. La ragione della Sicilia non è quella di Cartesio, bensì quella di Empedocle, di Gorgia, di Pirandello, ed ecco che il quadro è più chiaro e lo diventa ancora di più se si aggiunge il dato per cui Battiato ha sempre avvertito l’esigenza della crescita complementare, di quella che avviene anche attraverso gli opposti che tuttavia si sentono in qualche modo uniti.

Un aspetto anche questo complesso, al punto che il rapporto fra Sgalambro e Battiato meriterebbe una trattazione a parte. Non ancora pervenuti a nessuna reale conclusione, non rimane che lasciare la parola al diretto interessato. Alla domanda cosa ci fosse in lui di siciliano, Battiato rispose: “La parte araba”. Sicché, il gioco delle scatole cinesi non smette di funzionare. La Sicilia e la Tunisia ad esempio sono zone del pianeta diverse, eppure ne I treni di Tozeur il fanciullo divino dell’Olimpo ne coglie l’identità quando allude all’atmosfera visionaria creata dalle esalazioni dei laghi salati della località tunisina
allo stesso modo in cui si può osservare il fenomeno noto come “Fata Morgana” sullo stretto di Messina, al momento degli sbalzi termici che creano goccioline d’acqua rarefatte capaci di alterare la ricezione della luce, facendo così comparire il paesaggio costiero come se fosse sul mare.
Franco Battiato è stato un emissario della memoria magmatica della Sicilia nella sua dimensione più universale e comprensiva? Proprio questa unicità geografica è la chiave per accettare definitivamente l’unicità nel panorama musicale italiano e forse internazionale di Battiato? Anche qui, piomba un silenzio dubbioso che induce alla tentazione delle definizioni, cui non ci si sottrae e nel quale si lancia la suggestione che Battiato fosse un po’ come un leone che amava cancellare con la coda le tracce inavvertitamente lasciate al suo passaggio. Oppure, ancora, si deve accettare la convinzione di Elvira Seminara che nel suo libro parla di Aci Castello come luogo del “settimo senso”, di quello relativo alle percezioni extrasensoriali, quindi più degno di rappresentare la vera natura dell’artista nel gioco delle identificazioni geografiche? Forse si dovrebbe interpellare Castaneda in persona a discettare sulla sua teoria dei luoghi spirituali per svelare l’arcano. Se – come decreta Sgalambro nei versi conclusivi de Teoria della Sicilia – quest’isola è vera solo nel momento felice dell’arte, se ne deduce che Battiato ne sia stato un più che plausibile testimone e artefice. Che cos’è dunque la Verità, se essa non è catturabile dalla teoria? Forse, l’approdo agognato non dell’intelletto, bensì del sentimento – come ebbe a confidare Battiato in un brevissimo scritto autografo a corredo del suo docufilm dedicato a Gesualdo Bufalino.

Al di là delle elucubrazioni, rimane solo l’umanità a confortarci e a lasciarci un’eredità importante, spesso – per non dire sempre – legate alle persone che si sono incontrate nel corso della vita. Nel caso di chi scrive questo articolo l’urgenza è stata dettata da un ricordo e da un piccolo omaggio affettuoso a chi gli ha lasciato un esempio di valori, cui lo stesso Battiato amava riferirsi quando alludeva alla sua infanzia e ai valori della sua famiglia, quelli di una Sicilia povera ma dignitosa, premurosa di togliersi da dosso le macerie della seconda guerra mondiale, capace di affrontare il futuro consapevole delle difficoltà ma anche dell’ottimismo sano verso la vita.
Questo è stato per chi scrive Niccolò Pedone, un uomo semplice e ricco di un’umanità, dotato di una saggezza istintiva, ereditata dalla natura e non dalla dottrina, figlio di quella Sicilia che certamente piaceva anche a Franco Battiato.
Francesco Clemente
5 maggio 2025
Nota: 1. Crf. Franco Battiato, All’essenza, Mondadori, Milano, 2025, p. 67