L’abbaglio ambizioso e tiepido di Roberto Andò
“L’abbaglio” ambizioso e tiepido di Roberto Andò
di Francesco Clemente
Può capitare che una creazione artistica sia giudicata più per le intenzioni che per gli esiti raggiunti. Quando questo avviene, è abbastanza intuitivo che la bilancia del vaglio critico penda più dal lato della velleità che del risultato concreto. Questo – in estrema sintesi – è l’opinione di chi firma questo articolo, dopo aver visionato la pellicola di Roberto Andò L’abbaglio, girato con Tony Servillo, Ficarra e Picone, il già collaudato trio del precedente e fortunato film, La stranezza, liberamente ispirato a vicende e atmosfere pirandelliane.

Trasportandoci a Sambuca di Sicilia, il racconto si concentra sul periodo delle manovre machiavelliche che Garibaldi – sbarcato a Marsala col suo contingente militare – è costretto a escogitare per entrare a Palermo. L’arte infallibile di Servillo, la disinvolta e variegata recitazione di Ficarra e Picone, unite ad una fotografia asciutta ed evocativa, diretta a catturare squarci panoramici di una Sicilia desertica e lussureggiante insieme, rendono il film più che godibile, a tratti introspettivo, con sortite umoristiche ben dosate.
A parte le scene girate nel convento dove i due garibaldini interpretati da Ficarra e Picone trovano ospitalità da clandestini, la parte migliore del film è quella riservata alla gente siciliana, ritratta nella sua ingenua e candida generosità, pronta ad accogliere il liberatore esterno senza troppe domande.

Eppure, la pellicola non sembra colpire davvero lo spettatore. Lo spunto storico, che è alla base del soggetto filmico, quindi della sceneggiatura (firmata da Ugo Chiti e da Massimo Gaudioso), di fatto è interessante per contrastare la narrazione neoborbonica – ritornata alla carica negli ultimi lustri. La denuncia delle ritorsioni dell’esercito borbonico verso la popolazione civile avrebbe potuto dare la giusta enfasi al proposito ideologico – pubblicamente dichiarato di Andò – di riscoprire il periodo risorgimentale, un sentimento nazionale comune, in vesti comunitarie e non identitarie.
Tuttavia, emergono alcuni aspetti che non hanno funzionato per la riuscita di questa impresa artistica, davvero ardua per i motivi che seguono. Rileggere le pagine risorgimentali riscattandole da un punto di vista meridionale significa – in parole povere – provare a scrostare la coriacea coltre di disincanto, rancore sopito, delusione inconsolabile che si è creata nel sud d’Italia dopo l’unità nazionale, un senso di torto insuperabile causato dalla nascita monca e infelice del nuovo regno, per le arcinote vicende tardo-ottocentesche che ancora pesano sulla storia italiana contemporanea. Un proposito assai ambizioso, che rasenta la velleità, perché è un pò come scalare la catena delle Dolomiti muniti di ciabatte estive.
Un senso di sconfitta e di saccheggio che ha costituito il foraggio preferito del revanscismo neoborbonico, ingenuo e fazioso almeno quanto può esserlo stata tanta retorica filo-risorgimentale. Una situazione ancora perdurante che – apertis verbis – interpella le classi dirigenti italiane circa l’ancora irrisolta questione meridionale. Ebbene, ci si sarebbe aspettati un film forte, deciso, spiccatamente anticonformista, che avrebbe dovuto puntare su un’intonazione categorica, su una narrazione più tagliente nel difendere il suo punto di vista sul progetto politico unitario. Invece, complice una sceneggiatura annacquata e l’interpretazione quasi sempre ironica e scanzonata di Ficarra e Picone, la pellicola perde di mordente, dando l’impressione di essere un tentativo generalista di accontentare tutti i palati del grande pubblico attraverso una coesistenza di registri estetici un po’ controversi.


Nulla a che vedere, quindi, con il tono graffiante di altri film quali In nome del Papa Re (1977), In nome del popolo sovrano (1990), entrambi di Luigi Magni, oppure Allosanfàn (1974) dei fratelli Taviani, con cui il film di Andò dovrebbe in qualche modo essere confrontato. Anche il finale, che avrebbe dovuto conferire una sferzata alla storia, appare poco sorprendente, sacrificando così il senso della frustrazione profonda dei protagonisti per “l’abbaglio” politico (subito e compreso col senno di poi), vero sbocco di tutto il film, che termina lì dove proprio sarebbe dovuto iniziare.
Un’opera “tiepida” quella di Andò, che si conferma straordinario regista quando racconta mondi al confine fra realtà e surrealtà (vedi appunto il mirabolante destreggiamento all’interno dei meandri cerebrali di Pirandello ne La stranezza), oppure quando affronta il tema politico trasponendolo in una dimensione di paradosso e di gioco allegorico (si vedano ad esempio i film Viva la libertà e Le confessioni), ma che appare sguarnito di capacità suggestiva quando non si tratta di metaforizzare vicende e vissuti, bensì di affrontarle nella loro nudità e crudezza, nel loro essere carne e sangue, come carne e sangue sono state le ignobili traversie del brigantaggio.

Almeno due, poi, sono le osservazioni che si pongono a sigillo di questa analisi. La prima attiene alla scelta – che meriterebbe un chiarimento da parte dello stesso Andò – di omettere il particolare non secondario presente nel racconto di Sciascia Il silenzio (1959)1, per il quale la sparuta colonna guidata dal luogotenente di Garibaldi, il generale Orsini (nel film di Andò interpretato da Sciascia), procede nella sua avanzata verso il comune di Giuliana sotto la scorta di due mafiosi. Un dettaglio non da poco, che al contrario lascia chiaramente intendere che senza omertà non sarebbe stato possibile ingannare l’esercito borbonico.
Andò, dunque, attinge per il soggetto narrativo del suo film a Sciascia, ma appare utilizzarlo solo parzialmente, alludendo al fatto che la protezione malavitosa fosse tutta dalla parte dell’esercito borbonico e non dei garibaldini (nel film eloquenti sono le scene nelle quali loschi figuri negano ai garibaldini ospitalità in paese).
Quello stesso Sciascia, che firmò la prefazione alla ristampa di Nino Bixio a Bronte, opera di Benedetto Radice pubblicata per la prima volta nel 1910, nelle cui pagine lo storico rievocava la crudezza della repressione dei garibaldini guidati da Nino Bixio ai danni dei contadini di Bronte insorti contro i notabili.
Infine, se nelle intenzioni del regista la figura del generale garibaldino Orsini (cui Tony Servillo presta fisico e voce) si erge ad una sorta di anti-Gattopardo2, vale la pena interrogarsi se davvero sia così sul piano della percezione narrativa. Ne scaturisce un paragone nel quale il principe di Salina – per quanto simbolo di un passato decaduto e reazionario – per fascino e caratura intellettuale, nonché per il potere seduttivo della sua aura profetica3, ne esce nettamente prevalente rispetto al pur idealista e coraggioso Orsini, alfiere dei valori progressisti del risorgimento unitario.
Francesco Clemente
11 aprile 2025
Note:
- Il racconto è contenuto nella raccolta di Leonardo Sciascia, intitolata Il fuoco nel mare: racconti dispersi (1947-1975), Adelphi, Milano, 2010.
Si veda l’intervista di Aldo Cazzullo a Roberto Andò pubblicata sul <<Corriere della sera>>, domenica 9 febbraio 2025.
A proposito si veda l’articolo risalente al 1987 e firmato da Giacchino Lanza Tomasi, figlio adottivo di Tomasi di Lampedusa <<Tutto su mio padre, che trasformò la decadenza in una favola di famiglia>> ripubblicato il 5 aprile 2025 su “Tuttolibri”, inserto settimanale del giornale <<La stampa>>.
