Giovanni Falcone: eredità e persistenza del mistero
Giovanni Falcone: eredità e persistenza del mistero
di Francesco Clemente
La forza tranquilla della razionalità
Pare che Giovanni Falcone fosse affascinato dal celebre film Il settimo sigillo di Ingmar Bergman, nel quale il filo conduttore è la partita a scacchi fra la Morte e il cavaliere Antonius Block. Almeno questo è quanto si evince dalla lettura che Giuseppe Ferrara fece del giudice siciliano nel suo film Giovanni Falcone risalente al 1993. Al di là di ogni ragionevole dubbio, si tratta di un elemento certamente plausibile alla luce della maturazione intellettuale che Falcone ha avuto durante la sua vita di studente e di uomo, un percorso che lo ha condotto nelle sfere più alte della giurisprudenza mondiale, diventando un faro indispensabile per le odierne scienze del crimine.
L’operato di Giovanni Falcone è – a netto dei progressi investigativi contemporanei – paragonabile a quello di un ragionatore implacabile, di un frequentatore metodico della logica più stringente. Si potrebbe scomodare Copernico e attribuirgli il merito di una sorta di rivoluzione nella pratica istruttoria, ma forse è ancora più calzante l’analogia con Jean Francois Champollion, archeologo ed egittologo cui si deve la decifrazione della Stele di Rosetta, un’impresa che consentì all’umanità di svelare la scrittura degli antichi egizi. Falcone, infatti, nella prima metà degli anni ’80 si decise a fare breccia nella struttura e nei meccanismi segretissimi di Cosa Nostra attraverso la mossa della collaborazione con Tommaso Buscetta, rendendola così leggibile ai non mafiosi.
Il gusto per il ragionamento e la deduzione gli furono – molto probabilmente – istillati da quel Franco Salvo che fu il suo docente di Filosofia e Storia ai tempi della frequenza del liceo classico Umberto I di Palermo, intellettuale noto negli ambienti culturali palermitani per la sua aderenza alle idee illuministiche e fedele ad una visione marxista. Ed è proprio in virtù di questi strumenti culturali che il giovane Falcone maturò, già all’epoca dei trascorsi liceali, un approccio critico alle questioni problematiche della realtà, superando certe rigidità familiari derivanti dall’ossequio dogmatico verso le istituzioni e sapendole appunto integrare con l’armamentario categoriale che il Prof. Salvo gli seppe mettere a disposizione.
In questo humus – fatto di rispetto per la legge e di esercizio intellettuale – prenderà forma la statura imponente di un giudice che nella prassi, nella gestualità e nel linguaggio di tutti i giorni ha incarnato un modo di essere palermitano particolare, in cui riservatezza e ritrosia non erano i sintomi di un negarsi gratuito alla sfera pubblica, bensì quelli di un’essenzialità delle azioni, al riparo dai roboanti proclami delle “vittorie di Pirro” inanellate dallo Stato a danno delle organizzazioni malavitose. Soprattutto, Giovanni Falcone ha fatto diradare quell’aura di sacralità inafferrabile del fenomeno mafioso, riportandolo alle dinamiche culturali, storiche ed economiche, a tutto ciò che potesse essere osservabile, a quella sfera “umana” che induce la società a pensare e ad agire.

Grazie alla sua opera di demitizzazione del crimine Falcone ha inteso smontare il circo del fenomeno mafioso e così facendo ha favorito l’uscita dalla paralisi che scaturisce della “sindrome dell’incomprensibile”, del mistero buio, tanto più inquietante quanto più avvolto dall’ignoto. Un razionalismo unito alla fermezza dei principi morali, un illuminismo emancipatorio fuso con l’aderenza a valori non negoziabili è quello che sembra essersi materiato in Giovanni Falcone, i cui metodi di lavoro non hanno smesso ancora oggi di funzionare.
Il metodo “Falcone” e la ricostruzione di una logica criminale
Per avere un’idea della portata del cosiddetto “metodo Falcone” è sufficiente compiere un paio di riferimenti. L’FBI nel 2013 ha inteso riconoscere il valore di Falcone dedicandogli la “Giovanni Falcone Gallery” nel quartier generale di Washinghton, mentre a Palermo il 22 maggio 2018 ha tenuto una tavola rotonda organizzata dalla sezione distrettuale ANM di Palermo e dalla Guardia di Finanza dal titolo Il metodo Falcone: dalle prime indagini bancarie alle attuali investigazioni economiche finanziarie. Allora, vale la pena sunteggiare i passaggi storici salienti che hanno condotto alla formulazione e alla pratica di questo modus operandi al fine di illuminarne le matrici.
Nel 1978 Falcone si trasferì a Palermo, dove entrò insieme al collega e amico Paolo Borsellino nell’Ufficio istruzione della sezione penale sotto la guida di Rocco Chinnici, un uomo-chiave per la lotta alla mafia che subentrò al giudice Terranova, ucciso dalla mafia nel 1979. In questo contesto professionale, coadiuvato dal capo della mobile di Palermo Boris Giuliano, iniziò a concepire la celebre strategia del “follow the money”, riuscendo a scovare nelle tasche del mafioso Giuseppe Di Cristina alcuni assegni, tutti del medesimo importo e intestati a dei prestanome, ma in realtà di diverse cosche mafiose.

Il metodo verrà poi concretamente applicato nel 1980, quando gli venne affidato il primo caso legato alla mafia: si trattava di un’inchiesta contro Rosario Spatola che gestiva traffici di droga. Compresi i meccanismi delle organizzazioni criminali riuscì ad aprire un’indagine senza precedenti contro il clan Spatola. Il punto centrale di questa metodologia era il presupposto – intuito e messo a tema dal comunista Pio La Torre – che al di là di tutta la narrazione mitica e delle espressioni enfatiche e spettacolari – il fenomeno mafioso andasse letto nell’ottica imprenditoriale del profitto e che quindi si dovesse porre sotto i riflettori dell’investigazione la struttura economica delle diverse attività malavitose, il tessuto fitto e redditizio della macchina finanziaria ed economica della mafia, impalcatura fondamentale su cui costruire tutta la sequela dei miti, dei codici, dei valori di Cosa Nostra. Una sorta di applicazione in ambito giudiziario di categorie marxiste classiche, ortodosse, molto concrete, dagli esiti inequivocabili, come tali capaci di inchiodare chiunque. Forte di una dottrina accumulata circa i reati valutari, Falcone ebbe l’intuizione – nel corso del processo Spatola – di spedire ai direttori di banca di Palermo e provincia una lettera che chiedeva gli venissero consegnate tutte le distinte di cambio di valuta estera per le corrispondenti operazioni effettuate negli istituti di credito dal 1975 in poi. Inoltre, volle la documentazione relativa ai conti correnti e i depositi delle persone coinvolte nel processo1.

Non solo. Falcone completò il quadro investigativo, integrando anche le dinamiche del flusso di denaro proveniente dai traffici di eroina che coinvolgevano gli Stati Uniti e il loro sistema bancario: l’eroina importata negli Usa – infatti – veniva pagata in dollari e ciò comportava la dinamica deposito-flusso di denaro attivato dal sistema bancario americano.
Il metodo del “follow the money” aveva dunque spiegato l’intreccio fra impresa-investimenti-banche alla base di Cosa Nostra, la sua struttura economica. Tutto ciò attendeva di integrarsi anche con il chiarimento della sovrastruttura dell’organizzazione, non solo in termini di rituali iniziatici, quanto di ordinamento istituzionale interno, con ruoli, funzioni, cariche e modalità elettive, informazioni che Falcone riuscì a procacciarsi quando nel 1984 raccolse la collaborazione di Tommaso Buscetta, stremato nel privato e negli affetti dalle vendette trasversali, il quale fornì alla giustizia italiana l’intelaiatura di Cosa Nostra, facendo così definitivamente maturare nella testa del giudice siciliano l’ipotesi del terzo livello della mafia, quello in cui l’antistato collabora con lo stato in un tacito accordo, rilanciando così questioni storiche non liquidabili come leggende post-unitarie prive di fondamento storiografico.
Il lascito di Giovanni Falcone: la ragione e il mistero
La ricorrenza dell’anniversario – a più di trent’anni di distanza – della strage di Capaci vede l’Italia impegnata a vivere l’ennesima commemorazione piena di imbarazzo misto a paradosso.
Di lì a poco da quel 23 maggio 1992 l’altro dioscuro della lotta alla mafia – Paolo Borsellino – avrebbe poi perso la vita nell’attentato del 19 luglio di quello stesso anno in via D’Amelio. I figliocci di Antonio Caponnetto – altro giudice indimenticabile nella lotta alla mafia – sarebbero stati legati per sempre nel martirio e immortalati in una foto che li ritrae seduti in atteggiamenti amicali e distesi, da amici fraterni.

Da quel momento in poi i loro cognomi – una volta pronunciati – avrebbero avuto la forza evocativa di altre accoppiate emblematiche, non solo mitiche come quella di Castore e Polluce, ma anche proletarie come quella di Sacco e Vanzetti.
Falcone e Borsellino come Pietro e Paolo, ma non si parla di santi oppure forse lo erano nella loro laicità di uomini della giustizia italiana, di persone normali dalla dignità altissima. Tuttavia, mettendo da parte questo discorso, è giunta l’ora di alcune osservazioni finali, che potrebbero valere anche al di là della materia giudiziaria qui messa a tema.
Insomma, senza troppo tergiversare la questione è se quello di Falcone sia stato un martirio volontario. Valutare ciò implica una necessaria riflessione su ciò che s’intende per “razionalità”, per cui è piuttosto arduo pensare che un uomo di mezzi intellettuali così raffinati non abbia non solo calcolato i rischi che quotidianamente corresse nello svolgimento delle indagini, ma che addirittura non avesse chiari i margini di “accomodamento”, di “compromesso” con quanto gli avrebbe consentito di conservare la pelle, oltre che una certa onorabilità. Se la razionalità è calcolo, allora si dovrebbe convenire che Falcone questi aspetti non li avesse computati e che quindi la sua visione delle cose avesse mostrato delle falle, delle pecche evidenti.
Oppure, la verità è davvero un’altra, ovvero che Falcone fosse perfettamente consapevole non solo dei pericoli che su di lui incombevano ma anche delle opportunità di correggere il tiro della sua missione di giudice, ma che – in barba ad un calcolo meschino e codino – abbia avvertito l’urgenza di altre “ragioni”, di comandamenti morali assolutamente disinteressati all’utile, apparentemente illogici perché pericolosi ma che da soli hanno conferito sostanza al suo operato. Per quest’ultima ipotesi ci si sente di propendere, alla luce di quanto egli stesso ha avuto modo di affermare in alcuni passi di Cose di Cosa nostra (Rizzoli, 1991), dove emergono potentemente i moniti al rigore professionale, così come rimane scolpito nella memoria quell’appello allo spirito di servizio che Falcone tirò fuori in una celebre intervista televisiva che si concludeva con il giornalista che -senza troppi giri di parole – gli chiedeva se il gioco valesse la candela.
Dall’esperienza di Falcone si sono gemmate iniziative, seminari, corsi universitari, non ultimo quello inaugurato da Enzo Ciconte nel 2005 presso l’università di Roma Tre e incardinato sulla storia della malavita organizzata, sulle dinamiche storico-antropologiche del fenomeno, ma anche tutta una serie di occasioni nelle quali spicca il contributo di un uomo di eccezionali qualità morali e intellettuali, propugnatore di un razionalismo giudiziario sui generis, che ha forse inteso sondare lo spessore civile del suo paese, partendo magari dal presupposto che certe cose l’Italia non fosse riuscita a risolverle perché non le avesse capite e non perché non avesse voluto. Un presupposto che – purtroppo – ripropone il dilemma eterno se il male lo si compie a causa di un’insuperabile incomprensione, o a causa di una pratica messa in opera in piena coscienza.
Francesco Clemente
23 maggio 2025
Nota 1.: cfr. Saverio Lodato, Cinquantanni di mafia, storia di una guerra infinita, Bur Rizzoli, Milano, 2024, pp.57-59.

Uno scritto documentato che ricostruisce con una accurata metodologia aspetti poco noti della biografia del magistrato e del metodo adottato per la lotta al sistema mafioso. E mi pare di poter dire, come peraltro si evince dal testo, che Giovanni Falcone sia stato “l’uomo solo” nella sua operatività, facile preda di una violenza brutale. La rilevante conclusione del testo induce a riflessioni in cui si avverte una sorta di smarrimento in considerazione del fatto che “certe cose” con ogni probabilità si conoscevano, ma si tenevano nascoste: <<spicca il contributo di un uomo di eccezionali qualità morali e intellettuali, propugnatore di un razionalismo giudiziario sui generis, che ha forse inteso sondare lo spessore civile del suo paese, partendo magari dal presupposto che certe cose l’Italia non fosse riuscita a risolverle perché non le avesse capite e non perché non avesse voluto.